Catenaccio e contropiede 2.0: viva l'arte italiana dell'adattamento.
Luca Gotti, allenatore dell’Udinese, è un tipo strano. Divenuto famoso suo malgrado per aver dichiarato che non gli interessava fare il primo allenatore, e anzi preferiva essere un secondo, il 52enne veneto a prima vista sembra essere l’anti-eroe perfetto: allergico ai media, refrattario alla fama, indifferente ai soldi; e ancora all’apparenza rappresentante di un calcio sanamente reazionario, speculativo, da catenaccio e contropiede. Eppure fino a un anno e mezzo fa Gotti lavorava al Chelsea con Sarri e per il calcio di Sarri, lo stesso allenatore sconfitto ieri sera grazie a difesa bassa e ripartenze fulminanti.
“Il mio ideale di calcio, forse un’utopia, non sarebbe quello che adottiamo oggi, ma noi allenatori dobbiamo adattare il guanto alla mano. Qui c’era un pregresso storico legato alla difesa a tre e anche Tudor la usava, perciò sono andato avanti su questa strada. Io preferisco un calcio propositivo, non speculativo (…) Dobbiamo sistemare la classifica e portare a casa la pagnotta, innanzitutto. Diciamo che cerchiamo di essere propositivi, partendo da un atteggiamento un po’ diverso”.
Così rispondeva in una bella intervista al Corriere della Sera e anche qui Gotti, secondo per vocazione e primo per caso, propositivo per scelta ma speculativo per necessità, mostrava le sue originali contraddizioni. D’altronde la coerenza è la virtù dei dogmatici, e forse da allora il tecnico dei friulani si sarà pure ricreduto: sia sul ruolo da allenatore, sia sul tipo di calcio (ideale) da proporre. La sua Udinese è infatti una squadra sana, consapevole, quasi commovente per quanto è conservatrice. La squadra speculativa per eccellenza, almeno in Serie A, anche più del Parma dell’ottimo D’Aversa.
Difesa a 3 di sostanza, fisica, bassa, senza grandi compiti di impostazione o di pressing in avanti; centrocampo muscolare in grado di fare interdizione – chiudendo tutte le linee di passaggio e rimanendo sempre dietro la linea del pallone – e poi di ripartire ed accompagnare l’azione (un solo nome, Fofana); gli esterni a macinare chilometri, arando le rispettive fasce e mettendo in mezzo un numero spropositato di cross, e un 10 di una volta (De Paul) libero di inventare e venirsi a prendere palla un po’ dove vuole; infine le due punte, solitamente una grossa fisicamente (Okaka) e l’altra veloce che attacca la profondità alla Jamie Vardy (Lasagna).
Così la ricetta del successo è servita. Una difesa con il passare della stagione sempre più solida, una densità nella propria metà campo difficile da trovare in altre squadre, e poi le verticalizzazioni dei centrocampisti (soprattutto De Paul, ma anche Fofana o Mandragora) a cercare la punta di peso o a lanciare in profondità Lasagna. Poco possesso palla, molta concretezza. Come direbbe Max Allegri “il calcio è una cosa semplice”: Gotti sembra aver compreso l’essenza di questo concetto fondamentale, apparentemente banale ma in realtà decisivo, e padroneggia oggi la capacità tutta italiana dell’adattamento.
Sì perché l’Udinese prima del suo arrivo era una squadra in balia delle onde, abbandonata al suo (triste) destino di naufraga: graziata unicamente dal bassissimo livello delle ultime di Serie A nelle stagioni passate – e comunque salvatasi l’anno scorso solo nelle 3/4 giornate finali – l’Udinese galleggiava nei bassifondi del campionato puntando solo a non sprofondare. Nessuna identità di gioco, nessun progetto tecnico e il lavoro di scouting, in passato decisivo, ridotto all’osso; solo il nuovo stadio dava in apparenza un po’ di slancio al progetto, ma la Dacia Arena sembrava agli stessi tifosi il giocattolo redditizio di una proprietà disimpegnata, e che aveva occhi solo per il Watford.
Con Gottil’Udinese ha invece ritrovato un’identità ben definita e rappresenta, in casa ma non solo, una squadra complicata da affrontare per chiunque. Contro la Juventus si è vista una formazione solida, convinta, sicura di sé, contrapposta a un ibrido sarriano sempre più pasticciato e confuso. Ma soprattutto squadre come l’Udinese sono la migliore risposta possibile ai teorici della “fine della storia”, quelli per cui il calcio del possesso palla aveva segnato una tappa provvidenziale, un punto di non ritorno, e che già avevano liquidato il gretto catenaccio italiano come un attrezzo inutilizzabile nel XXI secolo.
“Ho una mia visione del calcio e della vita, la fama non mi aiuta a vivere meglio (…) La qualità della vita è un obiettivo primario, se devo peggiorarla tanto per avere due soldi in più, che poi sono quelli che servirebbero a migliorarla, allora ci rinuncio” (dal Corriere della Sera, intervista a Luca Gotti di Stefano Agresti, 18/01/2020)
Ovvio che sia tutto in continua evoluzione e ripensamento, ma la nuova versione più muscolare e famelica del catenaccio e contropiede mostra oggi una vitalità inimmaginabile fino a poche stagioni or sono. L’Udinese è allora la rivisitazione in chiave contemporanea del calcio italiano, adattata alle nuove esigenze di transizioni e fisicità: una squadra capace di difendere in 10 dietro la linea del pallone, ma pronta poi a ribaltare il fronte e anche a portare 4-5 uomini (di peso) dalle parti dell’area avversaria.
Certo ci sono buoni giocatori ma un solo “top player”, il numero 10, o forse due (l’argentino Musso è il miglior portiere argentino, e uno degli estremi difensori più validi della Serie A); due e mezzo se proprio vogliamo metterci dentro Fofana, ma per il resto è l’organizzazione ad aver rivitalizzato una squadra che negli ultimi anni sembrava destinata all’oblio calcistico. Il merito va in gran parte a Luca Gotti, primo allenatore per caso e conservatore suo malgrado. Uno che aveva studiato per diventare un nuovo Sarri, al massimo un altro De Zerbi, e che invece si è ritrovato a salvare l’Udinese grazie a Gianni Brera.
Perché Guidolin fu l’amante perfetto per l’Udinese? Senza scavare nel sentimentalismo, e sottostando alle logiche del mercato, possiamo rispondere che per tre anni fu l’unico capace di coniugare il modello di autosufficienza dei Pozzo con risultati stupefacenti.