Una fine tragica, uno spartiacque per il mondo ultras.
Nel cuore della Liguria, Genova si erge come un labirinto di strade anguste e finestre affacciate sul mare, schiacciata come la più tipica delle cittadine medievali tra le baie e i picchi retrostanti. Per un centinaio di chilometri, infatti, questa lingua di terra, coi suoi cieli azzurro intensi e l’aria secca e traslucida, pare più il sogno a pastelli di un dio-bambino che il prodotto di millenni di presenza umana. Degli uomini, del resto, con il loro accento melodico, impastato di arabo e francese – un lascito dei porti – si dice siano piuttosto riservati, orgogliosi e timidi al contempo, allenati dall’antica «pratica quotidiana del mugugno» (così, almeno, stando a sentire uno illustre dei loro: Montale).
Il 29 gennaio del 1995 nella Città della Lanterna è una domenica fredda, sferzata dalla tramontana che spira feroce da nord.
Mentre la gente comune si sveglia e le campane richiamano i fedeli alla messa, un treno carico di tifosi del Milan è diretto verso la Stazione di Piazza Principe per una partita in trasferta contro il Genoa. È, questo, un incontro importante per entrambe le compagini, che arrivate al giro di boa del campionato si ritrovano nella necessità di fare punti, ciascuna secondo i propri obiettivi. Tra le due tifoserie, per altro, da tempo non corre buon sangue: la sfida salvezza del 1982 aveva sancito la fine dell’antica amicizia tra Diavoli e Grifoni, lasciando dietro di sé tutta quella scia di malumori che si accompagnano sempre ad un idillio andato in frantumi.
Sul convoglio partito dal capoluogo lombardo ci sono quasi tutti i tifosi rossoneri diretti a Marassi quel giorno. Quasi, appunto, perché un piccolo drappello di questi, che i giornali spesso si affrettano ad etichettare come “cani sciolti”, decide di non seguire i gruppi principali della curva, stipati nei vagoni speciali che sono stati allestiti per l’occasione, ma di muoversi in autonomia, con un più informale Intercity, certo non badando all’ammonimento del poeta Sanguineti, secondo cui «venire in treno a Genova, non sarà un delitto, ma certamente è un errore».
Oggi, a trent’anni di distanza, la Gradinata Nord organizza “una giornata per Claudio e con Claudio”, aperta a tutti, “affinché tutto questo non succeda mai più”.
Sono circa una trentina, e possiamo supporre che salgano a bordo del mezzo prescelto sgusciando fra tanti anonimi altri, senza destare troppi sospetti: non indossano infatti alcunché che li possa contraddistinguere come tifosi. Né sciarpe, né bandiere né gagliardetti. Si tratta delle Brigate 2, un’ala secessionista delle storiche Brigate Rossonere di Milano. Quanto ai suoi membri, sono perlopiù giovani, duri e intransigenti come lo sanno essere solo i proseliti di una nuova setta.
In trasferta si muovono in piccoli numeri, senza dare nell’occhio, alla ricerca dello scontro con i rivali delle altre tifoserie. Niente di complicato, in realtà: basta arrivare agli away games senza preavviso, eludendo i controlli di polizia, facendosi passare per una normale comitiva di ragazzi. Una modalità allora consolidata dai gruppi di hooligans inglesi, ma ancora piuttosto inedita nello Stivale, abituato com’era a vedere gli ultrà muoversi in cortei massicci e ostili, carichi di vessilli innalzati apposta per farsi notare il più possibile.
Le BRN2, invece, sono un nucleo elitario, che già da un po’ è solito ritrovarsi in una pizzeria dei sobborghi milanesi per organizzare le proprie attività. Per giunta alcuni dei suoi componenti sono legati agli ambienti dell’estrema destra – fatto di per sé in controtendenza rispetto alle inclinazioni politiche che andavano allora per la maggiore nella Sud; e in generale vestono casual, alla maniera britannica, tanto che molti li identificano anche come “la banda del Barbour”, per via dell’iconica giacca cerata che tanti di loro sono soliti sfoggiare. Si sceglie dunque l’ombra, l’anonimato, l’abito borghese.
A bordo dell’Intercity diretto a Genova, in quel gennaio del ’95, c’è un elemento di spicco del gruppo, che è Carlo G., volto noto del neofascismo cittadino.
All’epoca ha trentun anni, in tasca una laurea in economia e la fama di avere una certa passione per le armi da taglio, che gli vale nel suo ambiente il soprannome di Chirurgo. Assieme al Chirurgo, poi, c’è Simone B. Probabile che per la giovanissima età se ne stia in disparte, con la zucca reclinata sul poggiatesta del sedile, mentre osserva il suo capo con occhi pieni di ammirazione. Vive con la madre, il patrigno e il fratello più piccolo; gioca nell’Alcione, tifa A.C. Milan, e dopo aver abbandonato anzitempo gli studi cerca come può di sbarcare il lunario.