Tifo
18 Luglio 2024

Ultras d'Italia: i primordi

Incipit della storia del tifo italiano.

È una domenica del novembre 1968 quando le vite di migliaia di giovani stanno per cambiare per sempre, nell’Italia che sorpassa il decollo economico e si avvicina alle angosce del decennio successivo. Allo stadio di San Siro, nei pressi della “Rampa 18” di quello che diventerà l’odierno “secondo anello arancio”, un gruppo di ragazzi attacca un lungo drappo a strisce verticali rossonere, vergato con lettere bianche dal profilo sottile e squadrato.

Nasce così la Fossa dei Leoni, il primo gruppo Ultras italiano. Questo è l’incipit di una storia che racconta le gesta di un unico protagonista, ovvero il “dodicesimo uomo” in campo, da ormai mezzo secolo. Da quel pomeriggio, il “modus vivendi” allo stadio non sarà più lo stesso ed il tifo diventerà radicalismo e militanza giornaliera, un autentico “stile di vita”.

Attenzione però, guai a ritenere che la fede per la squadra del cuore non fosse già una faccenda terribilmente seria anche in precedenza. Infatti, sebbene il football fosse stato inizialmente appannaggio dell’alta borghesia, morbosamente attratta dalle esotiche importazioni d’Oltremanica, il miglioramento delle condizioni di vita delle classi subalterne aveva avvicinato anche le masse lavoratrici delle città. Figurarsi poi, se un passatempo del genere, rappresentazione sportiva dell’assalto alla trincea nemica e a difesa della propria, non avesse potuto suscitare sentimenti campanilistici se non addirittura nazionalisti, mai sopiti lungo il Belpaese.

All’epilogo della Grande Guerra, il calcio è già entrato nelle grazie degli Italiani, divenendo poi uno dei temi più spendibili dalla propaganda fascista, insieme al ciclismo ed al pugilato. Dopo l’incubo del secondo conflitto mondiale, è il mito del Grande Torino ad allietare le domeniche durante la Ricostruzione, finché negli Anni Sessanta la “ritualità del pallone” sostituisce il teatro e supera perfino la Messa, assurgendo ad “ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”, Pasolini docet.

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