Calcio
11 Ottobre 2022

I limiti di Dusan Vlahovic

È giunto il tempo di parlare del centravanti serbo.

Nelle ultime settimane l’argomento Vlahovic si è imposto nel dibattito mediatico nazionale; e lasciateci dire, questo è un bene. Adesso se ne può parlare, quando fino a poco tempo fa dubbi e incertezze potevamo condividerli solo tra di noi, come carbonari sediziosi, e ogni valutazione critica sull’attaccante serbo veniva squalificata a prescindere addossando tutte le colpe all’allenatore: una retorica insopportabile che vede in Allegri, tra le tante cose, il colpevole dell’astinenza (e non solo) dell’ex Fiorentina. Dopo “la miglior prestazione a livello tecnico” (parola del suo allenatore) di mercoledì scorso contro il Maccabi Haifa, pur condita da una serie di errori sottoporta di difficile comprensione, Vlahovic ha però sfoggiato nuovamente tutti i suoi limiti nella debacle bianconera di San Siro.

Ebbene ad Allegri si possono rimproverare tante cose, ma non di difettare di occhio clinico per quanto riguarda i giocatori e il talento individuale. Così, dopo aver capito più e prima di tutti che tipo di giocatore fosse Rabiot (in buona compagnia a dire il vero con altri allenatori, che il francese lo hanno sempre e ovunque schierato titolare) , Allegri – a parere di chi scrive – ha fatto lo stesso con il suo centravanti: rimbrottandolo per mesi per la sua incapacità di legarsi alla squadra, fin dalle prime brillanti prestazioni in cui la stampa gridava al nuovo fenomeno, mentre Max predicava calma, crescita e duro lavoro.

Ma torniamo alle ultime di campo. Nella fatidica “migliore partita” fatta in Champions League mercoledì scorso, Vlahovic ha sbagliato due gol già fatti: il primo dopo la combinazione con Kostic, praticamente a porta vuota; il secondo a tu per tu con il portiere su ennesima imbucata di Di Maria. Entrambi con il suo piede naturale. Mentre la partita di Milano, come accennavamo, ha evidenziato tutte le contraddizioni del Vlahovic bianconero. A partire dalla quantità di errori nel controllo palla e nella sua gestione, addirittura inaccettabili se pensiamo che uno ha spalancato le porte al colpo del ko di Brahim Diaz.

Ma può davvero essere tutta colpa dell’allenatore, questa clamorosa difficoltà dell’attaccante nell’arco dei 90 minuti di ogni partita?

La risposta è scontata, per chi non è impegnato in guerre ideologiche. Il serbo va osservato senza palla, e anche fuori dall’area di rigore (su questo ha ragione Rabiot: “qui in Italia vedete solo i gol”, soprattutto per un attaccante): Vlahovic ha difficoltà a smarcarsi e ricevere il pallone, e ancor di più a fare quel lavoro da attaccante fisico che si mette a disposizione della squadra, vince i duelli e gioca di sponda; al contrario ricerca spesso la profondità, pur non essendo un fulmine sul lungo e, soprattutto, giocando in una squadra che solitamente viene affrontata con linee difensive basse e compatte. Venendo incontro, o comunque proponendosi per gli scambi, emerge poi l’immaturità calcistica del serbo: primo controllo un po’ farraginoso, stile “muro”, lentezza nel decidere da che parte girarsi e quindi nel girarsi, tecnica non sempre sopraffina in caso di apertura lunga o appoggio corto che sia.



Senza contare che, quando incontra un centrale avversario di livello e fisico superiori alla media, il serbo perde praticamente tutti i duelli e si isola dal gioco. In poche parole, il Vlahovic che deve toccare la palla due volte, è un giocatore (ad oggi) sgraziato, goffo, impreciso e, soprattutto, frenetico. Lo dimostra anche il fatto che, al momento, non è neanche quel cecchino che si aspetterebbe, visto che per fare un gol ha bisogno di 2-3 occasioni nitide – e qui torniamo alla prestazione contro gli israeliani.

Non è un caso, allora, che in questo inizio campionato la voce grossa davanti la stia facendo Milik, peraltro utilizzato molto spesso senza Di Maria (vero interruttore dell’attacco bianconero). Eppure Milik ha gli stessi gol, con una media in rapporto al minutaggio molto superiore a quella di Vlahovic. E soprattutto quando controlla il pallone, quando lo scambia con i compagni, quando apre e allarga il gioco, quando ancora sa come e dove farsi vedere, partecipando alla manovra, il polacco dimostra di avere un livello tecnico differente, e tutta un’altra pulizia e facilità nella gestione della palla. Ma tutto ciò che significa, che Vlahovic sia stato nettamente sopravvalutato o che debba sprofondare nelle gerarchie bianconere? Assolutamente no.

In un dibattito sportivo che passa dalle stelle alle stelle in un battito di ciglia, dal nuovo fenomeno al bidone dell’anno, bisogna avere lucidità e non scivolare nelle cassanate o nei titoloni.

Vlahovic rimane uno dei più promettenti attaccanti under 25 che ci siano: ha mezzi fisici poderosi, la cattiveria giusta e un calcio straordinario (vedasi pure le punizioni) ma solo quando è sufficientemente calmo da poter puntare per diversi secondi la porta avversaria, quasi come se avesse bisogno di guardarla per un po’. Come se avesse le necessità di riflettere sul da farsi. Invece nel breve (inteso in senso lato: breve tempo, breve spazio, breve pensiero), risulta ancora molto macchinoso per quello che richiede la sua squadra e il famoso “calcio moderno”.

Allegri prova a stimolarlo sul punto, beccandosi le invettive dei crociati che lo vogliono responsabile pure della guerra in corso. Ma la considerazione sorge facile: è davvero Allegri a limitare quello che è stato ritenuto, poco prima e poco dopo il suo acquisto da parte della Juventus, il giovane attaccante più forte del mondo assieme al cyborg di Manchester, tanto da costare circa 80 milioni a 22 anni tra parte fissa e bonus?



Quel che è certo è che Vlahovic, ad oggi, deve sviluppare alcune consapevolezze: capire che alzare il livello significa innanzitutto mettersi in discussione, applicarsi ad altri sistemi e stili di gioco, uscire dalla specializzazione ed abbracciare altre competenze. Sapere lui per primo di non essere assolutamente arrivato, e anzi di avere davanti a sé un percorso di crescita tanto lungo quanto duro e faticoso: tecnico, tattico, caratteriale. Altro che i paragoni dello scorso anno con chi sta su tutta un’altra dimensione:

“Haaland è una macchina, un robot. Lui è più veloce di me, ma per il resto ce la giochiamo”.

Dusan Vlahovic, settembre 2021, DAZN

È il presupposto oggi ad essere sbagliato: quello dato per implicito da troppi osservatori e da troppi media, e per cui Vlahovic sarebbe già della stessa cilindrata di alcuni grandi attaccanti sulla scena mondiale. Semplicemente togliamocelo dalla testa, non è così. Ciò non significa che non lo diventerà, e che non possa essere tra i migliori centravanti della sua epoca: Benzema a 22 anni stava ancora al Lione, Lewandowski segnava 8 gol appena arrivato al Dortmund dalla Polonia, Luis Suarez stava iniziando la sua ascesa all’Ajax. Non che Vlahovic debba essere paragonato a questi, per carità, ma il senso è chiaro: c’è tempo, tanto tempo.

Tempo per diventare uno tra i migliori attaccanti della sua generazione – a parte Haaland non sembrano esserci dei fuori categoria, lo stesso Darwin Nunez a Liverpool sta faticando assai. L’importante è che Vlahovic sia consapevole dei suoi limiti, e che i critici e gli osservatori non lo proteggano e strumentalizzino solo per dare addosso ad Allegri, per continuare con una crociata ormai “politica” che attribuisce qualsiasi problema della Juventus al suo allenatore. Tutto ciò danneggia lo stesso giocatore, anche perché di attaccanti da 25 gol ad un livello e 12 in quello successivo ne è piena la storia. E a nessuno, prima di oggi, è venuto in mente di incolpare l’allenatore della squadra più forte.

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