Un club che ormai è solo l'ombra delle glorie (e delle gerarchie) passate.
Da “io sono Dio” ai gatti che spariscono quando “il leone torna” il passo è stato lungo ma poco profittevole. Il caro vecchio Zlatan ha raggiunto ormai una dimensione onirica per sé stesso, in sé stesso, con sé stesso. Mentre tutto il circondario pallonaro italiano, tifosi milanisti in primis, si chiede cosa diavolo ci faccia in dirigenza e quali siano effettivamente le sue funzioni, Ibra si diletta a confezionare le sue ineluttabili perle sulla sua medesima figura, proclamandosi imperatore supremo del club Milan AC. Ed infatti ora lo stesso circondario di cui sopra si affanna a realizzare il meme più prolifico.
È anche per questo che il leggendario club meneghino è ridotto ormai ad una macchietta della sua stessa storia, relegato da tempo al ruolo di comparsa – almeno ad alti livelli – del calcio italiano. Se si esclude il miracoloso Scudetto di Pioli (e Maldini e Massara), infatti, è ormai dagli ultimi anni di presidenza Berlusconi che il Milan arranca nel tentativo più o meno convinto di ripristinare (più che conservare) il proprio posto nella nobiltà del calcio nostrano e non solo.
Bene, il delirio di onnipotenza di un calciatore di certo straordinario ma incapace di assurgere ad un ruolo (squadra) superiore – si veda la voce Champions League, e non solo in termini di vittorie quanto di decisività nei momenti cruciali – non è che l’emblema dello stato attuale del Milan, dell’ei fu del club delle 7 Coppe. La spocchia di Zlatan è arcinota. Sennonché, nel salto professionale in dirigenza, specie nella dirigenza del Milan (che per stessa ammissione dei calciatori ha sempre segnato il valore in più dai tempi di Berlusconi e Galliani), nella dirigenza peraltro di un Milan in evidente difficoltà, ci si aspetterebbe di trovare un’attitudine diversa.
O quantomeno ci si aspetterebbe che la proprietà arrivi a pretenderla.
Parlare prima dell’esordio europeo contro una delle favorite da autentico bullo di strada, trattare un’autorità (rossonera e non solo) come Boban alla stregua di un giornalistucolo in erba, e sparire al termine dell’ennesima brutta serata, dal punto di vista del risultato e dello spirito, diventa allora la cifra stilistica e la rappresentazione plastica dell’intera dirigenza rossonera. Perché risulta di palmare evidenza, ormai, come la società sia inidonea a gestire non solo un club così importante, ma probabilmente un qualsiasi club di calcio con ambizioni nazionali e internazionali.
L’allenatore è stato scelto per non si capisce quali motivi, se non per rappresentare un profilo ‘aziendalista’, per poco impattare a bilancio e, come si vocifera nei corridoi, per avallare un mercato già deciso dalla dirigenza; mercato per l’appunto balbettante, e che ha lasciato insolute alcune delle lacune tecniche della squadra. Poi c’è stata la (non) gestione dei casi spinosi, con Leao e Hernandez liberi di dissociarsi pubblicamente da gruppo e staff tecnico, e in generale una sensazione di impotenza generale, quasi di smobilitazione, che certo non si addice al club rossonero.
Tutto ciò si è tradotto nei risultati, a dir poco mediocri, ma che sono l’effetto di una gestione societaria confusa, approssimativa, attentissima alle dinamiche di business e di contorno – per cui il club rossonero, in barba alla sua tradizione, rappresenta l’avanguardia del modello nordamericano in Italia – e meno interessata a quelle di campo, o meglio a quelle di vittoria e dominio sul campo. Se nell’epopea Berlusconi infatti l’obiettivo era vincere tutto ciò che si poteva, oggi si vede chiaramente che al comando ci sia un fondo speculativo pure dalle gestione della squadra, pensata e costruita per rappresentare un mezzo (economico e industriale) e non un fine (quello dei risultati).
Due approcci incompatibili tra loro, come ha dimostrato il brusco allontanamento di Maldini che, per il ‘suo’ Milan, aveva ben altre idee e progetti rispetto alla sabermetrica e al moneyball made in RedBird. «Il Milan di oggi ha meno bisogno di Maldini. Ha vinto uno Scudetto ed è arrivato in semifinale di Champions. Ora è più attrattivo», diceva il presidente Scaroni oltre un anno fa commentando l’addio di Maldini, accusato di non saper lavorare di squadra. Figuriamoci. La verità è che Maldini sapeva bene che per colmare il gap con l’Inter e le grandi si sarebbe dovuto lavorare in altro modo. Un modo da Milan, magari, e che oggi, con il leone Ibrahimovic al suo (?) posto, non potrebbe essere più lontano.