Cultura
22 Luglio 2021

Montanelli al Giro, un affresco d'Italia

Vent'anni fa ci lasciava un grande giornalista italiano.

La vita di Indro Montanelli si è confusa con la grande storia del Novecento italiano. Autentico gigante del giornalismo nazionale, Indro da Fucecchio ha rappresentato un punto di riferimento per generazioni di Italiani e, in un’epoca segnata dal declino del sistema informativo, ancora oggi è personaggio di vivissima attualità. Il suo eloquio e stile unici, uniti ad un vero e proprio “anticonformismo congenito”, hanno forgiato la personalità di un anarco-conservatore che, dal Concilio Vaticano II agli Anni di Piombo, da De Gasperi a Berlusconi, ha saputo offrire considerazioni e analisi profonde dell’Italia del secondo Dopoguerra.

Montanelli ha rincorso la storia d’Italia, e la storia ha rincorso Montanelli, in un vortice che ha portato il giornalista toscano a divenire una delle principali voci con cui il Novecento parla al presente; in una fase cruciale per i destini del nostro Paese, tale rincorsa reciproca non è stata esclusivamente metaforica. Montanelli, infatti, ha potuto vedere con i propri occhi da una prospettiva privilegiata gli anni seguiti alla fine della Seconda guerra mondiale: quelli da cui l’Italia era uscita prostrata, distrutta e sconvolta.

Nel 1947 e nel 1948 fu inviato dal Corriere della Sera al seguito della carovana del Giro d’Italia.

Dalla sua esperienza da cronista della Corsa Rosa trasse eloquenti considerazioni su un’Italia che riapriva gradualmente gli occhi alla fine dell’incubo bellico, gettando le basi per la rinascita che si sarebbe concretizzata all’inizio degli anni cinquanta. Ma è anche al giornalista parmigiano della Gazzetta dello Sport Andrea Schianchi che va attribuito il merito di aver garantito, alle corrispondenze di Montanelli dal Giro d’Italia, la notorietà a loro lungamente negata nell’ultimo settantennio.

Indro Montanelli scrive davanti alla sua mitica Lettera22
Indro Montanelli e la sua mitica Lettera22

In Indro al Giro, edito da Rizzoli nell’aprile 2016, Schianchi ha riproposto gli articoli quotidianamente inviati da Montanelli al Corriere per le tappe delle edizioni 1947 e 1948 del Giro d’Italia. Temporaneamente “esiliato” dalla cronaca politica e internazionale a causa del suo passato fascista – sebbene avesse alle spalle anni da “critico” del regime – Montanelli non visse in ogni caso l’invio al seguito della Corsa come una retrocessione. Anzi, come scrive Schianchi nella prefazione al suo libro:

“Montanelli non si ferma alla superficie, approfitta del Giro per raccontare l’Italia. Ovviamente come appare a lui, non nascondendosi dietro la facile retorica e sempre esprimendo giudizi che, il più delle volte, e nel perfetto stile del personaggio, sono controcorrente”.

Nell’Italia che usciva dalla seconda guerra mondiale, il Giro aveva infatti acquisito una profondissima valenza simbolica. Già nel 1946 Bruno Roghi, organizzatore della “Corsa Rosa”, aveva superato notevoli difficoltà logistiche per disegnare un Giro che unisse idealmente, da Trieste a Napoli, le città più colpite dalla guerra: l’intenzione era quella di mandare un messaggio di unità a un Paese frammentato, materialmente e ideologicamente. Nel suo ruolo di caleidoscopio dell’italianità, il Giro d’Italia rappresentò quindi per Montanelli un osservatorio privilegiato sulla società e gli stili di vita degli Italiani nell’immediato Dopoguerra.

Nelle sue cronache, assieme ai ciclisti, la protagonista è immancabilmente l’Italia. Un’Italia che si declina da Nord a Sud attraverso i volti, gli umori, le passioni e i comportamenti dei personaggi incontrati da Montanelli nel corso della sua esperienza. Un’Italia che vive del dualismo tra i grandi campioni, Fausto Coppi e Gino Bartali, ma che al tempo stesso è esaltata nella sua anima strapaesana. Dal ragazzo che accoglie l’ingresso del Giro in Toscana – levando al cielo un pollo arrostito ed infilzato sullo spiedo – al caporalmaggiore Carlo Regina – un ex bersagliere che scorta pedalando la carovana rosa –, i personaggi ritratti da Montanelli sono l’impronta più vivida di un Paese in cui, anche grazie al contributo morale del Giro, assieme ai muri si ricostruivano le speranze per un futuro migliore.

L’entusiasmo travolgente di Bartali (in scia Coppi)

Le cronache di Montanelli sono un capolavoro di neorealismo giornalistico: le storie raccolte da Indro nei Giri del 1947 e del 1948 e i personaggi da lui incontrati, infatti, ben figurerebbero nei capolavori di Luchino Visconti, Roberto Rossellini e Vittorio De Sica. Anche ai corridori Montanelli dedica particolare attenzione: non essendo un commentatore “tecnico”, preferisce delineare un loro profilo psicologico e morale, trasformando le azioni dei concorrenti a volte in archetipi dei valori a cui è più legato, altre in metafore delle dinamiche politico-istituzionali di quel periodo. Il Giro è così definito come “squisitamente saragatiano”, e Gino Bartali viene paragonato a De Gasperi in un parallelo che esprime, in modo indiretto, la grande ammirazione di Indro per lo statista trentino. Montanelli ritiene una gran ventura il fatto che:

“l’Italia, fra artigianato e capitalismo, si sia fermata alla bicicletta, cioè nel giusto mezzo”.

Egli solidarizza particolarmente con i cacciatori di tappe, coi gregari lanciati contro tatticismi, logiche di classifica e schemi precostituiti, ritenendo l’anarchia degli aspiranti eroi di giornata la quintessenza del ciclismo. Sono analisi autenticamente degne del miglior Indro, incisive frasi controcorrente, rapidi corsivi che aiutano a puntualizzare una personale, originale e ben costruita visione del mondo. In un memorabile resoconto, Montanelli stigmatizza la scelta di concludere la sesta tappa del Giro del 1948 nel bel mezzo dei Fori Imperiali a Roma: qui “gli scrupoli archeologici” degli organizzatori hanno impedito al suo prediletto corridore, il “gregario anarchico” per eccellenza Angelo Menon, di guadagnarsi una meritata vittoria.

Eterni rivali in bicicletta, Fausto Coppi e Gino Bartali (1951).
Eterni rivali in bicicletta, Fausto Coppi e Gino Bartali (1951)

Il messaggio probabilmente più importante che Montanelli, con le sue corrispondenze, ha trasmesso all’Italia è di natura strettamente personale: a più riprese traspare l’invito al pensiero anticonvenzionale, a una “disobbedienza” costruttiva, a non piegarsi ai dogmatismi e al conformismo. Scrive Montanelli il 5 giugno 1947 al termine della Foggia-Pescara, dodicesima tappa del Giro d’Italia:

“Italiani, disobbedite, disobbedite sempre, anche al Giro d’Italia! È solo così che si mandano all’aria le dittature dei capitani”.

Un invito chiaro e netto, il riassunto migliore di un’esperienza di spessore che ha contribuito a forgiare quello che è diventato il miglior giornalista italiano del Novecento: un uomo la cui mancanza si fa sentire sempre più profondamente, soprattutto negli anni in cui dominano pennivendoli e stampa irreggimentata. Le corrispondenze di Montanelli dal Giro, a distanza di tanti anni, permettono la lettura lucida di una Nazione che, dibattendosi con coraggio tra mille difficoltà e contraddizioni, faceva dello sport un motivo d’orgoglio e un elemento unificatore. Ecco perché, nella “domenica perenne” del Giro d’Italia, c’erano già tutte le premesse di una rinascita che non avrebbe tardato a manifestarsi.

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