Calcio
13 Novembre 2024

Nelle (mie) favelas, la pace e la felicità

Adriano ha scritto una lettera che vale la pena di conoscere.

Tra migliaia di lettere a se stessi – maledetto Marco Aurelio – e starnazzi di papere mascherati da confessioni – benedetto Aurelio Agostino –, ogni tanto capita di leggere un pensiero profondo dal cuore partorito. Chissene importa dei GRANDI TEMI DELL’ESISTENZA, se a furia di straparlarne appare persino al lettore più inesperto la loro artificiosità. La lettera di Adriano pubblicata su The Players’ Tribune è incredibilmente genuina, non si lascia trasportare da quella insopportabile retorica dell’Adriano-fico-perché-distrutto (declamiamo noialtri digitando l’entusiasmo su tastiere polverose dentro stanze tetre) e cerca di fare i conti con la realtà, per una buona volta. Già il titolo “Lettera alla mia favela” (Vila Cruzeiro) è altamente significativo, perché i ringraziamenti di Adriano sono tutti (e soli) per quei luoghi e quelle persone che qui in occidente abbiamo giudicato con la fretta di chi scrive senza conoscere, di chi critica senza sapere.

«Non faccio uso di droghe, anche se provano a dimostrarlo. Non sono un criminale, però certo, avrei potuto esserlo. Non mi piace fare serata. Vado sempre allo stesso posto, il chiosco di Naná. Se vuoi trovarmi, passa di là. Sì, bevo tutti i giorni, spesso anche nei giorni in cui non bevo».

Non-non-non, sembra quasi di sentire Giovanni Lindo Ferretti. L’incompiutezza di Adriano non è quella degli amori perduti – à la Cassano –, degli imbecilli che non hanno saputo fare i conti con la propria grandezza calcistica, credendo stupidamente che questa bastasse a costruire una carriera degna di nota. Adriano, un po’ come ci aveva confessato il maledetto Zigoni, che sia sempre benedetto, in un podcast che andrebbe riascoltato quasi ogni giorno, non ha chiesto al mondo del calcio di fargli sconti, di permettergli chessò di allenarsi male perché lui era più forte degli altri, no. Adriano, come Zigo, aveva semplicemente nostalgia di casa, e odiava con la rabbia che riga di lacrime il volto di un uomo quei riflettori che il talento gli aveva acceso addosso.



«Tanta gente non ha capito perché ho abbandonato la gloria dei campi per restare qui seduto a bere, come se fossi apparentemente alla deriva. Perché a un certo punto ho voluto così, ed è una decisione da cui non si può tornare indietro». Il corsivo è nostro: apparentemente alla deriva. In realtà alla deriva Adriano ci stava quando ad esempio al primo natale passato a Milano, così lontano da mamma, papà, fratelli e amici, chiedeva ancora un minuto di telefonata stringendo con forza la cornetta: le luci di San Siro erano pallide e fioche come la nebbia che sovente s’alza su quei lidi.

«“Tutto bene, figlio mio?” mi ha chiesto mia madre. “Sì, sì. Sono appena tornato dalla casa di un amico”, le ho detto. “Ah, allora hai già cenato? Qui la mamma sta ancora sistemando la tavola”, ha risposto, “ci saranno anche delle pasteis oggi”. Cavolo, quello era un colpo basso. Le pasteis della nonna sono le migliori al mondo. Mi sono messo a piangere sul serio. Di brutto. Ho pure cominciato a singhiozzare. “Va bene, mamma. Goditela, allora. Buona cena a tutti. Non ti preoccupare, qui è tutto a posto”». Naturalmente andava tutto tremendamente male, anche perché chissenefrega dei soldi del successo dei tifosi e della loro gioia quando tutt’intorno è grigiore: «Questa è una delle cose che mi ha colpito di più quando mi sono trasferito in Europa. Le strade sono silenziose. La gente non si saluta».

Nelle favelas, invece, qui a Villa Cruzeiro dove Adriano vive e vegeta, «ho imparato il significato della parola comunità. La Vila Cruzeiro non è il miglior posto al mondo, ma è il mio posto. È pericolosa da morire. La vita è dura. La gente soffre. Tanti amici devono scegliere altre strade. Basta guardarsi intorno e te ne accorgi. Se mi mettessi a raccontare tutti quelli che non ci sono più, staremmo qui a parlare per giorni e giorni… Che Dio li benedica. Puoi chiederlo a chiunque qui. Chi può, alla fine se ne va a vivere da un’altra parte».

Perché però allora lui qui ci è tornato? Di nuovo: perché non ha mai voluto andarsene, e che c’è di male in questo? Cosa c’è di male se la morte del proprio padre, ucciso da una pallottola che non era nemmeno indirizzata a lui, causa una tristezza sconosciuta ormai a noi occidentali, figli di una tecnocrazia fredda e lurida, puttana senza volto che inghiotte ogni cosa.



«La gente ne ha dette di tutti i colori, come se fosse chissà quale scandalo. “Ma come? Adriano ha smesso di guadagnare sette milioni di euro? Ha mollato tutto per questa roba?”. È quello che ho sentito dire più spesso. Ma nessuno capisce perché l’ho fatto. Perché non stavo bene. Avevo bisogno del mio spazio, di fare quello che volevo fare». Altro che travellers e stronzate varie. Altro che Netflix & chill. «Guarda ora. C’è qualcosa di strano nel nostro giro? No. Scusa se deludo qualcuno, ma l’unica cosa che cerco qui a Vila Cruzeiro è la tranquillità. Qui posso andare in giro scalzo e senza maglietta, solo con i pantaloncini. Gioco a domino, mi siedo sul marciapiede, ricordo le storie della mia infanzia, ascolto musica, ballo con i miei amici, dormo per terra. Vedo mio padre in ognuno di questi vicoli».

È tutto così bello, così franco e genuino che viene quasi voglia di abbracciarlo, Adriano. L’uomo col tiro più potente nella storia di PES, il ragazzo che non potevi odiare, un talento incredibile, emozionante, d’una volta, grande grosso fenomenale, e infine ancora il bimbo cresciuto nelle favelas brasiliane, anzi mai davvero cresciuto nelle favelas ma sempre ancora attaccato a queste, come il neonato alla placenta. «Non capivano perché fossi tornato in favela. Non era per l’alcol, né per le donne, tanto meno per la droga. Era per la libertà. Era perché volevo un po’ di pace. Volevo vivere. Volevo essere di nuovo umano. Solo per un po’».


Cover Contrasti

Foto collage da Sam Robles per The Players’ Tribune

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