Quando cambiare allenatore diventa il gioco preferito.
Ricordare una stagione calcistica che non si sia chiusa con almeno un esonero, in uno qualsiasi dei tanti campionati in giro per il mondo, è praticamente impossibile. Ogni allenatore è consapevole che basta poco per rendere il suo posto di lavoro precario. Si comincia con un hashtag, il proprio nome e la parola out, si finisce quasi sempre con un nuovo allenatore in panchina. Il cambio di allenatore è ormai quasi un’usanza, un vezzo al quale tutti i presidenti hanno ceduto almeno una volta. Se i risultati non vanno, se il gioco non convince, se il gruppo non è compatto il colpevole è sempre e solo uno.
L’esonero, segnale con cui la società fa capire ai giocatori che ora le scuse sono finite, è spesso frutto dell’idea di voler ottenere tutto e subito, in nome dei risultati e del fatturato, dimenticando fattori di disturbo come il mercato ancora aperto a campionato in corso, acquisti last minute di giocatori non richiesti dagli allenatori (ma presi per tappare buchi in rosa) e la compravendita di troppi calciatori tra il mercato estivo e quello di riparazione con conseguente eccessivo stravolgimento di rosa. Allo stesso modo, bisogna anche ammettere che in alcuni casi certi allenatori farebbero meglio a dimettersi piuttosto che aspettare la cacciata del presidente di turno.
Progetti a lunga durata costruiti intorno a figure carismatiche come Alex Ferguson e Arsène Wenger, rimasti sulle panchine di Manchester United e Arsenal per oltre venti anni, non esistono più. Ferguson e Wenger sono riusciti a superare momenti difficili, contestazioni di giocatori, stampa e tifosi grazie al supporto delle società che hanno sempre scelto l’allenatore anche quando tutti chiedevo la sua testa. Eppure oggi addirittura allenatore francese, nel documentario Arsène Wenger: Invincible, si lascia andare ad una confessione:
«Avrei dovuto accettare una della tante destinazioni che mi avevano proposto nel corso degli anni, e invece sono rimasto sempre all’Arsenal. È stato un errore (…) Amavo troppo il luogo e il club in cui lavoravo, mi sono identificato completamente con l’Arsenal, con la società, con i tifosi. E questo ha finito per penalizzarmi».
Ma al di là del punto di vista di Wenger, e anzi mettendoci nei panni di una dirigenza, quando si sceglie una guida tecnica – e si costruisce la squadra intorno alla sua idea di calcio – bisogna saper dare il tempo giusto alle proprie scelte. Cosa sarebbe successo all’Atalanta se nel 2016 avesse deciso di cacciare Gasperini dopo le quattro sconfitte rimediate nelle prime cinque giornate, e un solo punto fatto contro il Crotone? Quale piega avrebbe preso la storia del Manchester United se avessero mandato via Alex Ferguson, “colpevole” di aver impiegato oltre tre anni prima di vincere un trofeo? Addirittura i Red Devils, nel 1989, gli rinnovarono il contratto pochi giorni dopo la sconfitta per 5-1 nel derby contro il City.
Quella della pazienza, ad esempio, non sembra essere un’idea condivisa dalla dirigenza del Watford.
Dal 2008 ad oggi, tra cacciati e richiamati, sono stati venti gli allenatori che si sono alternati sulla panchina dei calabroni oggi di proprietà della famiglia Pozzo. Nel 2014, nel giro di poco più di un mese, l’incarico è passato da Oscar Garcia, in panchina dal 2 al 29 settembre, a Billy McKinlay, dal 29 settembre al 7 ottobre, e infine a Slavisa Jokanovic, dal 7 ottobre al 30 giugno del 2015. Dal 2012, con l’arrivo del patron dell’Udinese, il Watford inizia a fare strage anche di allenatori italiani: Gianfranco Zola, Giuseppe Sannino e Walter Mazzarri, tutti resistiti per poco più di un anno.
L’ultimo arrivato, Claudio Ranieri, è il quarto mister italiano scelto dai Pozzo. Il romano sostituisce in panchina Xisco Munoz, allenatore della promozione in Premier del Watford e giocatore di Ranieri ai tempi del Valencia. Sir. Claudio non ha iniziato benissimo, a parte la vittoria esterna sul campo dell’Everton che ha segnato una sorta di primato: con questa, le ultime cinque vittorie in trasferta degli Hornets sono arrivate con cinque allenatori diversi.
Nonostante i tempi dei vari Zamparini, Cellino e Preziosi, questo il podio dei presidenti mangia allenatori in Italia, sembrino finiti – complice la difficile situazione economica che non consente alle società di avere a stipendio troppi dipendenti – la serie A resta la lega meno paziente tra i principali campionati europei. Negli ultimi cinque anni sono stati esonerati ben 44 allenatori con il campionato 2019/20 che ha fatto registrare il record di tredici panchine saltate. Al secondo posto la Liga spagnola con 43, poi la Bundesliga a 40, la Ligue1 con 38 e infine la Premier, molto più paziente, con 34.
In Italia, ad oggi, quattro squadre hanno cambiato in corsa: Verona, Cagliari, Salernitana e Genoa. Le prime due dopo sole tre giornate, segnale evidente che le fondamenta del progetto non erano solide ancora prima dell’inizio della stagione. Anche qui, ma come si può pensare che siano sufficienti tre partite per determinare il fallimento di un allenatore? Non è invece, quella di sostituire la guida tecnica dopo neanche 300 minuti, la dimostrazione lampante di un pesante errore di programmazione e valutazione della società? In ogni caso, se le basi sono queste non si dovrebbe faticare a raggiungere i numeri della scorsa stagione, quando furono sette le panchine saltate a campionato in corso.
C’è però chi, per evitare un eccessivo via vai sulle panchine, ha tentato di porre a un freno.
In Brasile la Federazione ha approvato una regola che consente di effettuare massimo un esonero a stagione. In caso di secondo cambio, potrà allenare quella squadra solo chi già tesserato con il club da almeno sei mesi. Una regolamentazione nata dai numeri della scorsa stagione: solo tre squadre, su venti totali, avevano mantenuto la stessa guida tecnica sino alla fine del campionato. Limitazione che, a ben guardare, servirebbe soprattutto nei campionati sudamericani: in Bolivia, Calixto Santos Javier, presidente della squadra Real Potosi, ha esonerato venti allenatori in cinque anni mentre in Perù la squadra del Cusco ha visto alternarsi in panchina sedici tecnici in cinque anni.
Ancora imbattuto il record di Leroy Rosenior, nominato allenatore del Torquay United per soli dieci minuti. Il giorno della sua presentazione, il 17 maggio del 2007, è coinciso con quello del suo licenziamento. Poco dopo aver firmato il contratto, nel corso della conferenza stampa di presentazione, al tecnico fu comunicato il suo esonero davanti a tutti i giornalisti presenti. A prendere quella decisione fu la nuova proprietà, subentrata proprio in quelle ore, che decise di porre subito fine a quel rapporto stipulato dalla dirigenza uscente.
Il dubbio alla fine resta: cambiare allenatore serve davvero a qualcosa? Il calcio, soprattutto quello italiano, sembrava sulla via di una nuova gestione: i club, ormai diventati aziende, devono progettare per crescere nel tempo e non rompere per poi ricostruire. Il fatturato e la borsa non permettono di cambiare ma soprattutto sbagliare troppo. Il lato manageriale sembrava aver preso il posto di quello emotivo, il presidente imprenditore quello del padre padrone. Un’impressione però, all’interno di un mondo basato sulla passione, che non poteva reggere più di tanto.
Foto copertina Genoa CFC, via Twitter