Un allenatore diventato stereotipo, che è molto di più.
«Ti piace il modo in cui stiamo giocando?». «Buon Dio, no. Siamo terribili da vedere, l’altro giorno abbiamo vinto una partita senza nemmeno riuscire a tirare in porta, ma quello che conta è che stiamo vincendo. Pochi mesi fa eravamo a terra, in piena zona retrocessione, ma ora sembra che possiamo tenerci fuori dai guai; in questo Big Sam è bravo. Una volta salvati, possiamo iniziare a cercare un altro manager». Questo dialogo riportato dal Guardian nell’aprile 2017 ha come protagonisti due tifosi del Crystal Palace, ed è incentrato sul gioco proposto dalle Eagles dopo l’esonero di Alan Pardew.
Al suo posto. già da inizio anno, si è sistemato un omone di più di un metro e novanta per quasi cento chili, dai modi e dallo stile che sembrano stonare nella nuova, scintillante e opulenta era della Premier League di Guardiola e Klopp. Quella che può sembrare la copia britannica dell’attore John Goodman è Sam Allardyce, decano delle panchine inglesi con (ai giorni d’oggi) una trentennale esperienza alla guida di club della working class britannica. Le battute riportate dal Guardian rendono istantaneamente il personaggio Allardyce: definito un firefighter coach (letteralmente “allenatore pompiere”) Allardyce si è quasi sempre associato a squadre che, in caduta libera, a metà stagione hanno premuto il pulsante della frenata d’emergenza.
FIREFIGHTER COACH
“Mr Wolf della panchina”, “traghettatore per la salvezza”, “firefighter coach” appunto: il classe 1954 di Dudley è stato definito in numerosi modi durante la sua longeva carriera; etichette che lui stesso ha prima cavalcato e poi rigettato. Da Big Sam si andava quando c’era poco tempo per rimettere in piedi la stagione: dal 2000 ad oggi è stato l’instant manager per eccellenza, specializzandosi in salvezze insperate ottenute negli anni con Sunderland, Newcastle e soprattutto West Ham. Dal 1992 (data del suo debutto in panchina con una squadra irlandese, il Limerick) ad oggi, Allardyce ha avuto per le mani quasi esclusivamente vacche magre, riuscendo però a fare di necessità virtù ed essendo protagonista di cavalcate trionfali come quella del Sunderland del 2016, conclusa con una vittoria (anche questa in rimonta) sul Chelsea che è diventata leggenda per i Black Cats.
Un personaggio che per i media inglesi è stato un pozzo di contenuti (sia per le dichiarazioni rilasciate negli anni ma anche per la prossemica, il body language, del tutto inimitabile) e che gli stessi media hanno reso un po’ uno stereotipo.
Digitando il suo nome su YouTube tra i primi risultati troviamo Allardyce’s Premier League Survival Blueprint, un vero e proprio manuale su come salvare una squadra inglese basato su quello che si pensa sia il modus operandi del tecnico delle West Midlands. Di Allardyce troviamo inoltre numerosi meme, con addirittura una pagina internet che li raccoglie tutti, anche quelli incentrati sull’idea che lui sia “the man”, l’uomo giusto per le situazioni più difficili. Il suo ritratto disegnato negli anni viene arricchito non solo dai risultati ottenuti, ma anche da come questi sono arrivati: le squadre di Big Sam non sono mai state le più spettacolari ma hanno spesso brillato per concretezza ed efficacia, cercando di minimizzare all’estremo i possibili errori difensivi e, di conseguenza, limitando le giocate pericolose nella propria metà campo.
Per le grandi d’Inghilterra, affrontare il club allenato dal tecnico di Dudley consisteva in una prova fisica e nervosa estremamente più complicata rispetto al livello tecnico degli avversari; la spigolosità delle squadre che mandava in campo sembrava riflettere al meglio il suo carattere, ed ha concorso così alla fossilizzazione dello stereotipo che lo ha accompagnato per tutta la carriera.
Così Sam Allardyce è stato per anni visto come una medicina amara, un rimedio estremo o poco piacevole per pazienti moribondi. Ma questa sua rappresentazione da parte dei media ed addetti ai lavori è – come spesso succede – una semplificazione esagerata per un personaggio che porta con sé un bagaglio quasi insuperabile in termini di esperienza come manager, idee calcistiche, filosofie di vita che collidono con l’immaginario creato intorno a lui (e per questo fatte scivolare in secondo piano) e fragilità emotive che nessuno si aspetterebbe da un gigante delle West Midlands specializzato nel condurre qualsiasi barca in porto.
I 67 GIORNI ALLA GUIDA DELL’INGHILTERRA
La scollatura tra l’immagine del vecchio e burbero inglese, che con metodi grezzi riesce sempre a cavarsela, e la reale profondità del personaggio Allardyce è stata sempre sottolineata da molti allenatori e calciatori che hanno collaborato con lui; eppure le regole di tabloid e media in generale fanno sì che, una volta messo in piedi un personaggio che “funziona”, sia difficile smantellarlo. Nel percorso apparentemente coerente del firefighter coach c’è però un momento di presunta incoerenza tra personaggio e trama che più di tutti ne ha segnato il destino, una parentesi breve ma altamente distruttiva che ha rischiato di fagocitarne l’intera carriera: il 21 luglio 2016, due mesi dopo la cinematografica salvezza col Sunderland, Sam Allardyce diventa CT dell’Inghilterra.
Uno step che sembra far uscire decisamente fuori dalla comfort-zone il tecnico allora sessantaduenne, fino ad allora (ma anche dopo l’esperienza di CT) tecnico di solo squadre con velleità di salvezza. Eppure una scelta solo apparentemente incoerente, poiché Allardyce eredita una nazionale reduce dalla fragorosa eliminazione ai quarti di Euro2016 e da una guida tecnica, quella di Roy Hodgson, caratterizzata da isterismi tattici difficilmente comprensibili (come Harry Kane incaricato di battere i calci d’angolo e uno Wayne Rooney in fase vistosamente calante costretto a fare la mezz’ala box to box).
Allardyce anche questa volta viene chiamato per “salvare” una realtà in piena crisi e riportare una razionalità in una squadra che, meno di un mese prima, si era sfaldata nella storica sconfitta contro l’Islanda.
La sua avventura sulla panchina dei Tre Leoni dura però appena 67 giorni: il 27 settembre 2016 Sam Allardyce si dimette dal ruolo di CT, diventando in un solo colpo l’allenatore col mandato più breve della storia dell’Inghilterra e allo stesso tempo il più “vincente” in termini di partite vinte: la percentuale è del 100%, visto che l’unica partita gara disputata durante il suo ciclo corrisponde ad un successo contro la Slovacchia (1-0 firmato Lallana al 95’). La rinuncia all’occasione della vita per Big Sam è stata forzata dall’escalation mediatica avvenuta in quelle roventi ore di inizio autunno: un giorno prima delle dimissioni il Daily Telegraph fa infatti scoppiare una bomba in mano alla federazione inglese, pubblicando un’inchiesta sul quotidiano (con tanto di virgolettati e immagini sul sito del giornale) legata al ruolo fraudolento delle cosiddette “terze-parti” nella compravendita di calciatori.
Alcuni giornalisti del quotidiano inglese si erano spacciati per facoltosi imprenditori orientali, proponendo ad Allardyce un accordo informale nel quale il neo-CT dell’Inghilterra sarebbe stato “ambasciatore” del calcio britannico a Singapore e Hong Kong; in realtà, Allardyce avrebbe dovuto essere il canale preferenziale per permettere a questi presunti imprenditori di acquistare il cartellino dei giocatori, facendo rientrare l’operazione in un caso diThird-Party Ownership – una pratica vietata dalla Federazione inglese dal 2008 e dalla FIFA dal 2015.
L’immagine della Football Association si sgretola di fronte a foto, video e virgolettati in cui l’allora tecnico della Nazionale (l’inchiesta risale al mese precedente, agosto 2016, quando Allardyce era già il CT dell’Inghilterra) non solo sembra volersi prestare ad un comportamento fraudolento e vietato dalle nuove regole del calcio nazionale ed internazionale, ma illustra agli interlocutori alcuni metodi per aggirare le suddette regole, facendo intuire di non essere nuovo a quella pratica e citando anche il caso di Enner Valencia, attaccante ecuadoriano passato nel 2014 dal Pachuca al West Ham.
Dopo la pubblicazione dello scoop che cala le braghe al sistema calcio inglese, Sam Allardyce si dimette, pubblicando sul sito della FA alcune righe di circostanza in cui si pente per “l’errore di giudizio” e chiede scusa a tifosi e istituzioni. Allo stesso modo delle dimissioni il processo mediatico, a causa delle prove schiaccianti, è immediato e perentorio. L’uomo che era considerato fino a pochi giorni prima una garanzia, un volto rassicurante per l’intera Nazione, l’ha appena tradita.
MANAGER E MENTAL HEALT
L’Inghilterra si rialzerà poi con Gareth Southgate, successore di Big Sam e capace, come nessun altro negli ultimi trent’anni, di portare i Tre Leoni vicini alla conquista di un titolo. Allardyce ripartirà tre mesi dopo lo scandalo Telegraph, nel dicembre 2016, dal Crystal Palace, e sia con le Eagles che la stagione successiva con l’Everton centrerà due salvezze tranquille, prima di macchiare la fama di “never relegated manager” della Premier con l’inevitabile retrocessione con il West Bromwich nella stagione 2020/21. Ma dopo l’esperienza da CT qualcosa si romperà in Big Sam. I 67 giorni sulla panchina dell’Inghilterra significano ancora oggi un tormento inscalfibile per il gigante delle West Midlands, ma anche la chiave di volta per comprendere la profondità di un personaggio che, altrimenti, sarebbe stato relegato a “macchietta” della panchina.
Del trauma che hanno rappresentato quei due mesi da allenatore dell’Inghilterra è tornato a parlare solo qualche mese fa, in occasione della settimana per la sensibilizzazione sulla salute mentale promossa a maggio in Inghilterra: «Diventare il tecnico dell’Inghilterra voleva dire raggiungere il lavoro dei miei sogni e perdere tutto in pochi giorni è stato tremendo. Vedevo odio negli sguardi di ogni persona che incontravo fuori di casa e così mi sono rinchiuso.Sono riuscito a superarlo solo con il supporto degli altri, soprattutto della mia famiglia e ritornando in panchina, ma il dolore provato in quelle settimane non l’ho mai sperimentato.
Il fatto di essere coinvolto quasi sempre nella lotta per non retrocedere ha messo a dura prova la mia salute mentale, ma quanto vissuto con l’Inghilterra è stato ancora più duro».
Allardyce ha poi inquadrato la sua esperienza in quelle riguardanti il trauma della perdita del lavoro, e con parole semplici ma efficaci ha cercato di spiegare quanta pressione i tecnici inglesi (una condizione che possiamo estendere tranquillamente anche agli allenatori italiani) subiscano e quanto la precarietà del loro lavoro finisca per incidere fortemente sulla salute mentale: «Lo stress che subiscono gli allenatori è sconcertante. E questo vale certamente per i manager di Premier ma ancor di più per quelli delle leghe più basse, dove un esonero può significare un disastro per la famiglia dell’allenatore».
E ancora: «Nelle serie inferiori non si tratta solo di salvare banalmente la panchina, ma di pagare il mutuo e sostenere una famiglia. Questo aggiunge ancora più stress rispetto ai tecnici di Premier. Conosco molti manager che hanno vissuto o vivono periodi di enormi difficoltà che in alcuni casi possono portare a pensieri suicidi». Nell’intervista rilasciata a SkySport UK, Allardyce delinea quindi una condizione tetra per i manager, una caducità resa ancora più fatalistica dalla risposta alla domanda dell’intervistatore:
« – Qual è il rimedio per combattere la pressione?
– Vincere e continuare a vincere».
BIG SAM O SAM ALLARDYCE?
Se un tifoso inglese finito in coma una decina di anni fa si fosse svegliato da poco, e avesse assistito all’intervista concessa a Skysport da Allardyce nel maggio scorso, avrebbe faticato a far coincidere l’idea che si era fatto di un tecnico da “macchietta” con quello che gli si presentava davanti: un personaggio tutt’altro che buffo, dotato di una profondità stupefacente e di un grado di malinconia e dolore non comune. Sam Allardyce è anche e soprattutto questo, una figura vista da tanti come monodimensionale ma riscopertasi più complessa col passare degli anni, come persona ma anche come allenatore: Big Sam è infatti non solo banale traghettatore ma prima di tutto innovatore. Come per i metodi di allenamento e preparazione, per i quali il tecnico classe ’54 è stato un caposcuola e avanguardista.
Già da metà anni ‘90 Allardyce ha portato oltremanica l’approccio “americano” allo sport, fatto di analisi dati e statistiche avanzate.
Tutto questo a retaggio di un’esperienza fatta a fine carriera calcistica (nell’estate 1983) coi Tampa Bay Rowdies, negli Stati Uniti, squadra che si allenava fianco a fianco ai Buccaneers (NFL). Da quel momento ha iniziato un rapporto di collaborazione con ProZone, il primo software di analisi calcistica. E già dai primissimi anni Novanta, all’alba della sua seconda vita in panchina, Allardyce ha affiancato al lavoro di preparazione tattica, tecnica ed atletica anche pratiche di gestione dello stress e di supporto psicologico, introducendo nella sua routine di allenamento anche lo yoga. Allardyce, tra i primi ad introdurre anche la crioterapia come trattamento di conservazione successivo allo sforzo fisico, ha rivoluzionato il metodo di lavoro delle squadre inglesi, ponendo le basi per l’exploit di un movimento che più di tutti punta sull’interdisciplinarità e la cura “scientifica” di ogni aspetto del gioco.
Sul campo invece non si è mai legato ad un modulo fisso, piuttosto ad un’idea, quella del cambiamento. Nel suo libro sull’analisi dell’evoluzione tattica della Premier League (The Mixer), Micheal Cox parla di Big Sam come di un maestro del calcio reattivo, capace di modellare la sua squadra in base alle caratteristiche dell’avversario e “switchare” atteggiamento e principi di gioco da una partita ad un’altra, una qualità che, in un dibattito in cui opinionisti ed addetti ai lavori si riempiono la bocca del termine “filosofia di gioco”, può sembrare forse per assurdo la filosofia più concreta.
«Ci sono allenatori, Arséne Wenger, Brendan Rodgers o Manuel Pellegrini, che vivono e muoiono con un sistema. Le mie squadre invece cambiano in base alle caratteristiche altrui e proprio perché gli altri non cambiano mai spesso posso batterli».
Dietro questo atteggiamento reattivo, soprattutto nei confronti delle caratteristiche delle big, c’è uno studio maniacale dell’avversario; malgrado in superficie, quando il lavoro riesce, si veda solo l’annullamento delle qualità di un’altra squadra sulla carta più forte, imbrigliata in realtà dai trucchi del firefighter coach. Così è capitato quasi sempre: oltre ad evidenziare gli errori della favorita a discapito dei tanti capolavori fatti dalle squadre di Allardyce, nel corso degli anni si è tacciato il tecnico di Dudley di conservatorismo e di cultore del vecchio calcio all’inglese, tanto fisico e poco ragionamento.
Lo dicono e lo pensano in tanti tra i tifosi, non lo pensano (anche se spesso lo dicono) colleghi più giovani come Gerrard e Lampard, che da Allardyce e dai suoi metodi di lavoro hanno tratto tanto. Eppure è difficile togliersi di dosso uno stereotipo, a maggior ragione alla soglia dei settanta anni; ed è complicato provare a sbirciare cosa si nasconde in quell’omone di un metro e novanta proveniente dalle West Midlands. Di sicuro, sforzandosi, possiamo apprezzare una figura decisamente in contrasto con quella disegnata in questi anni, con ombre e picchi appiattiti dalla narrazione mainstream e angolature diverse mai (o quasi) riprese dalle telecamere. Eppure, per molti è più comodo così: l’idea di Big Sam è più semplice, comoda, immediata; ci risparmia uno sforzo di lettura e comprensione più profonda, alla scoperta dell’uomo e dell’allenatore Sam Allardyce.
Dopo cinque giorni di ricatti, il fine settimana diventa una terra selvaggia in cui il singolo può finalmente rifugiarsi. Insomma per Junger era il bosco, per noi il calcio del sabato e della domenica