La vita stessa di Vegas' Kid è letteratura (sportiva).
La porzione di campo compresa tra le linee traversali di fondo e quelle del servizio è il tabù di ogni tennista. Come fosse una regola ancestrale del gioco, un dogma imperituro, l’avvertenza aurea dal professionismo ai circoli ricreativi: non farti trovare lì. Chi ha guardato almeno una volta l’avversario attraverso il nastro bianco sa fin troppo bene cosa si provi a galleggiare in quell’area sconosciuta del campo. È come essere nudo di fronte a un pubblico invisibile, spogliarsi di tutte le certezze.
Stringi forte tra le mani il manico della racchetta, come un rito propiziatorio, perché lì la tua unica speranza è l’errore dell’avversario. Sai fin troppo bene che se il suono sarà quello forte e secco delle corde che si flettono sul telaio, guarderai lateralmente la palla rimbalzare sul tuo campo e poi finire la sua corsa sui teloni. Se il suono dovesse essere impercettibile invece, il leggero refolo d’aria spostato dal suo attrezzo restituirà una palla sulla quale arriverai troppo tardi, e la tua voleè sarà solo l’ultimo colpo prima del passante successivo.
La chiamano Terra di Nessuno e per anni è stato il territorio di conquista del tennista più straordinario di ogni epoca: Andre Agassi.
Agassi a Wimbledon, nella terra di Nessuno (Credit: Gary M Prior/Allsport)
Questa la ragione fondamentale che ha reso il Kid di Las Vegas unasplendida eccezione nel tennis di ogni epoca. Evitiamo di scadere nelle sterili e banali chiacchiere su classifiche di merito, non vogliamo certo elevare a rango di “migliore” l’americano di origine armena, ma è essenziale marcarne la totale unicità. La rivoluzione copernicana di un tennis in cui, nel tempio di Wimbledon, l’area vicino alla rete era spelacchiata ben più di quella sotto i box reali, è rappresentata dalla chioma ossigenata e i jeans strappati di Agassi.
L’americano porta un’innovazione tattica che ora è base fondante del tennis moderno, ma che nessuno ha mai interpretato con tale naturalezza e integralismo. Proprio nella spontaneità ha radici profonde il cambiamento. Una disinvoltura totale nel giocare colpi proibiti, senza soffrire delle restrizioni imposte dalla tradizione. Una naturalezza e una ribellione che nascono come un ossimoro da forzature e obblighi.
Quelli di papà Mike, al secolo Emanoul, pugile olimpionico persiano forgiato da educazione militare e ferrea. L’unica che credeva di poter impartire ai suoi figli, quella speciale che ha riservato ad Andre e i suoi fratelli. Fermamente convinto che solo l’eccellenza nello sport avrebbe completato il processo d’integrazione della famiglia Aghassian, aveva obbligato Andre a stringere il manico della racchetta sin dai primi passi forzandolo a sedute di allenamento coercitive.
Open è il titolo dell’autobiografia di Agassi. Il libro, accolto dalla critica come una rivelazione, ha riportato alla luce tutta la storia, spesso sofferta, di Andre. (Photo by Hannah Peters/Getty Images)
Una vera e propria violenza morale, se non fisica, che il padre tiranno aveva lucidamente architettato. Sarebbero state ogni giorno 2500 palline, 17.500 alla settimana, quasi 1 milione all’anno, non meno. I proiettili gialli erano sparati a velocità siderale da una macchina lanciapalle modificata, sia in potenza di lancio che in inclinazione. Il “drago”, come lo chiamava Andre, sputava un fuoco giallo a 180 km/h da un’altezza innaturale che proiettava sul campo una traiettoria quasi verticale, alla quale era pressoché impossibile rispondere.
Con questi missili tra i piedi e la costante voce, umana nel mezzo, tirannica nel modo, a urlare: «Colpisci più forte Andre, più forte. Mai in rete, Andre», il Kid aveva iniziato a sviluppare le basi del suo tennis unico. Ed eccolo ballare in quella zona infame del campo, a giocare in controbalzo qualsiasi pallina. Una strategia forgiata dagli anni di reclusione sul campetto dietro casa, a bruciare le suole sul cemento incandescente del Nevada, che avevano modellato il talento inarrivabile di Andre Agassi. Un tennis armato di fondamentali solidi, ma non letali, giocati togliendo all’avversario l’unica risorsa incontrollabile: il tempo.
Gli immensi Rino Tommasi e Gianni Clerici coniarono per lui l’inedita categoria di contrattaccante, o attaccante da fondo campo. Una contraddizione in termini che è la definizione migliore per il Kid di Las Vegas.
La sua straordinaria abilità a rispedire sicuro e costante i colpi scagliati dagli avversari – dimezzando i tempi di reazione – costringevano quasi tutti ad assistere inebetiti ai fendenti di Agassi, mentre loro ancora rimanevano imbrigliati dal movimento precedente. Per anni è stata la risposta migliore del circuito, e il suo gioco è stato così innovativo da costringere la coppia più geniale del microfono tricolore a rinverdire il vocabolario del gioco.
Gli immensi Rino Tommasi e Gianni Clerici, sospesi tra la stizza per sua esuberanza e il fascino di un gioco unico, coniarono per lui l’inedita categoria di contrattaccante, o attaccante da fondo campo. Per il tennis dell’epoca una contraddizione in termini che, effettivamente, è la definizione migliore per il Kid di Las Vegas.
Il look irriverente di Agassi agli esordi: capelli lunghi ossigenati e jeans strappati.
Oltre al gioco anche il suo look ha portato scandalo – ben prima delle canotte di un maiorchino – sotto i cappelli candidi e riciclati dai derby di Ascott della regalia britannica. I jeans strappati e la chioma ossigenata facevano di Andre un ribelle nello sport di Sua Maestà, posato e controllato dalla ferrea etichetta delle sue tradizioni.
Quando, ancora vergine di Slam, portò il look irriverente e quel gioco sgraziatamente moderno sul tetto del tennis, gli applausi contriti dell’All Lawn England Tennis and Croquet Club del 1992 non potevano invertire la storia e assegnare la coppa dorata al gigante croato Ivanišević, che con un game malandato aveva perso il servizio nel momento migliore. Per Goran ci sarebbero stati tempi migliori e, a suo modo, avrebbe scritto una delle pagine più significative del tennis, ma quel 5 Luglio era Andre Agassi a essere entrato nel gotha del tennis.
Arriverà ad ammettere:
«Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare, continuo a palleggiare tutta la mattina, tutto il pomeriggio, perché non ho scelta. Per quanto voglia fermarmi non ci riesco. Continuo a implorarmi di smettere e continuo a giocare, e questo divario, questo conflitto, tra ciò che voglio e ciò che effettivamente faccio mi appare l’essenza della mia vita…»
È normale che si arrivi a un punto di rottura, in cui le debolezze prendono il sopravvento e lasciano spazio alle incertezze e alla riscoperta personale. Per Andre Agassi questo periodo coincide con l’annus horribilis 1997: un matrimonio infelice con l’attrice Brooke Shields tiene la testa dell’allievo di Nick Bollettieri fuori dal campo da gioco, e tornano a ripresentarsi quelle paure che lo fanno sprofondare nella classifica mondiale fino al 141° posto del ranking.
È un buio opprimente, fatto di confusione e tristezza; sono i mesi delle metanfetamine assunte per ritrovare euforia sintetica intorno a sé, le giornate trascorse a ingozzarsi di junk food per stimolare naturalmente endorfine lasciate chissà dove. È un periodo di lunga depressione nel quale il tennis è solo un megafono che amplifica i demoni. Le sconfitte in serie, i viaggi intercontinentali senza scopo, mitigati solo dai cocktail di sonniferi e, peggio, lo sguardo compassionevole di avversari che assistono a una lectio magistralis su come sprecare il talento.
Tra il 1996 e il 1997, la carriera di Andre Agassi sembra al tramonto. I giornalisti ormai scommettono sul suo ritiro e gli avversari passeggiano sui suoi resti (Photo by Bongarts/Getty Images)
È proprio in questo simposio di insoddisfazione che si forma il vero campione di Las Vegas. La chioma fluente è scomparsa già da un po’, anche più di quanto sembri se consideriamo i patetici stratagemmi architettati per salvare il personaggio del Kid agli occhi dello show-biz. Ma non basta la bandana o la pelata lucente a riportarlo nel tennis, ènecessario liberarsi del superfluo. Stringersi nella sua famiglia più intima e ripartire.
Quella famiglia si chiama Brad Gilbert e Gil Reyes. Il primo, considerato da Andre “il migliore allenatore di tutti i tempi”, pronto a scendere con lui fino agli inferi e capace di dargli il consiglio più difficile, ma prezioso:
“Devi tornare all’inizio. Ripartire da zero”.
Il secondo è forse la figura paterna di cui Andre è sempre stato orfano. Gil è preparatore atletico dell’americano dai tempi degli allenamenti all’Università del Nevada, e precursore della cultura scientifica della reidratazione nelle varie fasi della vita di un atleta. Umiltà senza compromessi, duro allenamento fisico, condito da una nuova e inedita maniacale cura del corpo, rimettono Agassi sulla mappa del tennis.
Dal 1998 inizia a giocare tornei minori in giro per gli States. Lontani i tempi degli applausi e dei raccattapalle, qui bisogna segnarsi il punteggio da soli, giocare in campi affiancati dove il ‘quite, please’ sembra più una barzelletta che un ammonimento, dove ci sono solo tre palline a disposizione per giocare. È un percorso di redenzione lungo, che però paga.
Nel 1999 torna tra i grandissimi e li supera a suo modo. A Parigi, Agassi compie probabilmente il capolavoro più sensazionale della sua eterna carriera. Contro un Andrij Medvedev in stato di grazia, rimonta sulla terra battuta due set di svantaggio e vince l’ultimo torneo dello Slam assente nella sua decorata bacheca.
Con la Coppa dei Moschettieri, Andre Agassi completa la vittoria in tutti i tornei del Grande Slam. L’ultimo prima del Vegas’ Kid era stato Roy Emerson nel 1964 (Credit: Al Bello /Allsport).
È un’impresa fenomenale che oggi sembra mitigata dal simile percorso realizzato dai Big Three del tennis mondiale, tutti in grado di ripercorrere le gesta di Agassi. Ma la verità che è all’epoca, questo tipo di exploit, era assai meno frequente. In parte l’introduzione di cavilli regolamentari, in parte l’evoluzione dei materiali hanno livellato le differenze tra le superfici forzando, di fatto, l’estinzione degli specialisti.
In quegli anni sull’erba, veloce come il ghiaccio, gli attaccanti da serve&volley erano ancora una pletora folta e quasi imbattibile sui prati inglesi. A Parigi, latini allevati a corse infinite e scivolate millimetriche si trasformavano in ‘ratti del fango’ in grado di dominare la stagione sul rosso. I grandi battitori sparavano proiettili letali nelle arene incandescenti del tennis on hard. In questa misura, e nella grandezza dei suoi avversari, risiede il capolavoro di Agassi.
Agassi-Sampras. Due americani di origine straniera ma per il resto due opposti. Schivo e riservato Sampras, istrionico ed eccentrico Agassi. Violento battitore con un servizio straripante e voleè letale Pistol Pete, contrattaccante di risposta il Kid. Tutto casa e tennis Sampras. Tutto tranne il tennis Andre.
Già avversari, o avversario. Perché in fondo nello sport il valore si valuta anche nel rapporto con la nemesi e, nel tennis più di ogni altro, è la rivalità stessa ad alimentare il circuito mediatico dello sport. A citarle si vive gran parte della storia ultracentenaria di questo sport.
Mai negli almanacchi del tennis si potrebbe omettere quella che ha elettrizzato i ’90. Agassi-Sampras. Due americani di origine straniera, Pete con sangue greco, ma per il resto due opposti, come nessuno sceneggiatore avrebbe potuto rappresentare in modo migliore. Schivo e riservato Sampras, istrionico ed eccentrico Agassi. Violento battitore con un servizio straripante e voleè letale Pistol Pete, contrattaccante di risposta il Kid. Tutto casa e tennis Sampras. Tutto tranne il tennis Andre.
Servizio Sampras, risposta Agassi: la sintesi del loro tennis e dell’eterna rivalità. Gli scontri diretti dicono 20-14 per Sampras, qui l’atto finale a Londra, nel 1999, la sconfitta precluderà ad Andre Agassi la conquista del piccolo Slam, i 4 tornei vinti consecutivamente sebbene non nell’anno solare (Photo by Alex Livesey/Getty Images)
È questa alla fine la differenza che pesa maggiormente nel saldo tra i due, favorevole a Pete, ma non è questo che la gente ricorda. Perché è stata una rivalità così appassionata, così equilibrata e sensazionale che negli occhi rimane lo stupore delle giocate e nella mente il binomio più che le vittorie o le sconfitte.
E così alla fine di una carriera a singhiozzo, vissuta su un ottovolante di ascese e discese, il Kid ha saputo regalarci il dono della longevità. Andre Agassi è stato probabilmente il primo tennista dell’era moderna, l’eccezione Connors non può contare, a rimanere competitivo oltre la soglia dei 30. Ecco come a 35 anni suonati si ritrova ancora in finale agli U.S. Open, dove l’astro nascente del tennis mondiale, uno svizzero dalle ottime prospettive, riuscirà a domarlo senza troppi patemi.
Eppure una, una sola classifica, è rimasta in possesso esclusivo del Kid di Las Vegas. Unico giocatore della storia del tennis ad aver completato il Career Super Grand Slam: la vittoria di tutti i tornei del Grande Slam, la medaglia d’oro olimpica nel singolare e le finali ATP.
Nelle classifiche dei record di questo sport Andre Agassi figura un po’ ovunque, magari senza guardare gli altri dall’alto, ma facendone sempre parte. Una carriera longeva e straripante in un’epoca in cui i cyborg del tennis erano ancora di là da venire. Una continuità forgiata dalla cura del fisico, alimentata dagli allenamenti e dalle pozioni magiche del mitico Gil, ma anche rasserenata nell’animo da una pace interiore ritrovata e condivisa con la donna della vita. Fidata complice e comprensiva compagna: nessuno più di Steffi Graff avrebbe potuto essere migliore consigliera per un tennista.
Eppure una, una sola classifica, è rimasta in possesso esclusivo del Kid di Las Vegas. Unico giocatore della storia del tennis ad aver completato il Career Super Grand Slam: la vittoria di tutti i tornei del Grande Slam, la medaglia d’oro olimpica nel singolare e le finali ATP. A Federer e Djokovic mancano gli ori, a Rafa l’ultimo atto del circuito.
L’ultimo inchino di Andre Agassi, U.S. Open 2006 (Photo by PA Images via Getty Images).
Chissà se è stato uno scherzo del destino o un’inevitabile coincidenza. Dopo una sanguinosa battaglia al quinto set degli U.S. Open 2006, vinto contro il cipriota Marcos Baghdatis, Agassi avanza a New York in quella che sarà la sua ultima passerella nel tennis mondiale. Zoppicando e imboccando a fatica il tunnel che porta sull’Arthur Ashe, l’immenso tabellone recita: A. Agassi vs B. Becker.
Le lancette di colpo tornano a 15 anni prima, alle sfide per la testa delle classifiche mondiali. Fa niente che questo si chiami Benjamin, e con il campione tedesco Boris abbia un notevole gap di talento. Agassi forse già capisce da quel tabellone che il tempo non si ferma ed è davvero ora dei saluti.
“Il tabellone dice che ho perso, ma quello che non dice è ciò che ho trovato. Negli ultimi ventuno anni ho trovato la lealtà: avete fatto il tifo per me sul campo e anche nella vita. Ho trovato l’ispirazione: avete voluto che ce la facessi, talvolta anche nei momenti più bui. E ho trovato generosità: mi avete offerto le spalle su cui salire per raggiungere i miei sogni – sogni che non avrei mai realizzato senza di voi. Negli ultimi ventuno anni ho trovato voi, e porterò con me voi e il vostro ricordo per il resto della vita”
Tra le innumerevoli vittorie (8 titoli dello Slam, 1 oro olimpico, 1 Master, 17 titoli Master 1000, 60 titoli ATP), il più grande successo sta proprio qui: nell’amore della gente. L’empatia per quel campione eccentrico, dal cuore d’oro, ma accomunato a tutti dalle paure, le fragilità, le incertezze di una vita che non risparmia nessuno.
Ora insieme a Stefanie ha imparato non solo ad amare una persona, ma anche uno sport: si chiama tennis, e non è mai stato così bello palleggiare come con questa ragazza tedesca che affila back spin pestiferi di rovescio. Il Kid è diventato adulto, e ora sì: è felice.
Ogni amante dello sport dovrebbe avere nella propria libreria ‘Open’, l’autobiografia di Andre Agassi. Se non lo avete ancora fatto, cogliete l’occasione per leggere quella che, senza mezzi termini, è la migliore autobiografia sportiva mai pubblicata. La copertina è a cura di Rivista Contrasti.