Nella storia dello sport ci sono state diverse categorie di attori. Le leggende: fenomeni dotati del giusto mix tra sconfinato talento, attitudine al sacrificio e saggezza tattica. Vincenti per natura. Si sono poi susseguiti tantissimi buoni professionisti, onesti mestieranti di alto livello che si sono scontrati con i loro limiti prima che con i campionissimi, per via di un gap ora tecnico ora mentale incolmabile nei confronti dei migliori.
Nella linea di demarcazione tra leggende e buoni professionisti si può individuare un terzo gruppo, che si potrebbe chiamare deifenomeni a tempo determinato: campioni che sono arrivati in vetta alle classifiche mondiali per poi restarci per un periodo relativamente breve. Pur continuando ad esprimersi sui livelli abituali, non sono stati più in grado di riconquistare la vetta.
È proprio nei “fenomeni a tempo determinato” che trova spazio Andy Roddick.
Nativo di Omaha (Nebraska), Roddick inizia ad approcciarsi alla categoria juniores nel 1998, allenato da Tarik Benhabiles (ex N° 22 Atp) e affermandosi come una delle migliori speranze del tennis statunitense. Il giovane Roddick sogna di emulare i più grandi del tennis mondiale, ma gli inizi non sono positivi: dopo una serie di sconfitte inaspettate, medita di lasciare il tennis e di abbandonare il suo sogno. È proprio Benhabiles a farlo desistere dai suoi propositi remissivi, incoraggiandolo a continuare almeno per un altro anno. Lui segue il consiglio, e l’anno successivo passa dall’essere il sesto statunitense a livello juniores al primo posto della classifica mondiale juniores, all’età di 17 anni.
La crescita di Roddick prosegue in maniera repentina, con l’ingresso tra i professionisti nel 2000 e con la stagione successiva conclusa alla quattordicesima posizione della classifica ATP, alle soglie della top ten mondiale. Durante gli Australian Open del 2001 ha luogo uno dei match più incredibili della carriera di Roddick e della storia del tennis: nei quarti di finale, lo statunitense batte il marocchino El Aynaoui al quinto set, dopo 4 ore e 59 minuti di gioco e con un punteggio che suona più da fine primo quarto di una partita di basket che da conclusione di un set tennistico: 21-19.
Andy inizia a farsi conoscere dagli appassionati e dai più importanti addetti ai lavori per il suo stile di gioco che definire potente è un eufemismo: un servizio dal movimento sincopato e dalla frustata improvvisa, con la pallina spinta costantemente a oltre 230 km/h, e un dritto dal quale escono traiettorie piatte e angolate anche da posizioni scomode.
Ecco un esempio eclatante della potenza abbinata alla precisione che Andy Roddick era in grado di sprigionare
Nel 2003, a soli 21 anni, Roddick corona in un sol colpo il sogno della sua vita: vince gli US Open, lo slam di casa, e sale al primo posto del ranking mondiale. Il ragazzo che pochi anni prima stava per mollare la sua più grande passione si trova in vetta, da campione, da idolo delle nuove generazioni, con colpi da Superman. Ma, come Superman, anche Roddick ha la sua kryptonite: Roger Federer. Federer è il talento vero, la grazia in movimento, la potenza nella classe, un eletto del tennis, un principe della racchetta.
Nel 2003 lo svizzero vince il suo primo grande slam (Wimbledon) e si posiziona al numero due del ranking mondiale, tallonando Roddick. Già dagli Australian Open del 2004 Federer si guadagna lo scettro di numero uno. Da questo momento in poi, nasce nell’immaginario collettivo la rivalità tra Federer e Roddick. I due arrivano in fondo a quasi tutti i tornei a cui partecipano, scontrandosi molte volte in finale.
È qui che qualcosa, nelle convinzioni di Andy Roddick, inizia a rompersi. Federer, con una qualità di gioco ineguagliabile, fa venire a galla i limiti del tennis del suo rivale: un rovescio debole, dei colpi a rete non impeccabili, la mancanza di un piano B nella tattica.
Roger sa fare variazioni sul tema: potenza, back-spin, palle corte, volée piatte e smorzate, angolature inaspettate alla traiettoria della palla, il tutto ad altissima velocità, con estrema naturalezza. Andy mette tutta la sua potenza, la sua grinta, la sua concentrazione, la forza mentale, ma non riesce a variare i suoi colpi in maniera efficace. Troppe le lacune tecniche per competere con Federer, eccessivo il gap di talento per poter aspirare a tornare al numero uno del mondo.
Il servizio, contro Roger Federer, ad Andy Roddick non bastava. (Clive Brunskill/Getty Images)
Roddick prova, di mese in mese, a colmare il gap con Federer: si sottopone a sedute tecniche intensissime, migliora il suo rovescio e le sue abilità a rete, inizia a proporre interessanti variazioni, ma contro una leggenda per lui c’è poco da fare. Nel corso degli anni, saranno undici le sconfitte consecutive contro lo svizzero. I suoi avversari impareranno a conoscere sempre meglio le sue tattiche, i punti di forza e le debolezze. E in assenza di variazioni efficaci, lo yankee inizia a soccombere sempre più spesso: perde la seconda posizione in classifica e inizia a scivolare, lentamente e inesorabilmente, ai margini della top ten.
Nel 2009, l’occasione di dare una seconda vita alla sua carriera: arriva in finale a Wimbledon, dove ad attenderlo è ancora Federer.
I pronostici danno vincente lo svizzero in maniera quasi scontata, ma qualcosa, nella macchina perfetta qual è Federer, si incrina. Roddick ne approfitta, giocando alla grande e trascinando l’eterno rivale al quinto set. A tratti, sembra di rivedere la sfida del 2001 con El Aynaoui: scambi intensissimi, equilibrio sempre in bilico e punteggio da set pallavolistico. Ma il finale è diverso: Federer si impone, con enorme fatica, 16-14. Nel 2001, la lotta infinita aveva portato alla vittoria. Otto anni dopo, la sorte avversa.
Leitmotiv di una carriera: Andy Roddick che guarda trionfare Roger Federer (Clive Brunskill/Getty Images)
È il canto del cigno della carriera di Roddick, il quale si ritira nel 2012, a soli 30 anni. Andy sa di aver dato tutto per migliorarsi e per arrivare al top, e per questo motivo non nutre rimpianti. Egli sa che non si può far altro che accettare i propri limiti nel momento in cui si comprende fino in fondo che più in là non si può andare. È una ammissione sincera e signorile, e in fondo Roddick è sempre stato un gran signore in tutta la sua carriera.
Durante il match di quarti di finale del Master Series di Roma del 2005 (disputato contro lo spagnolo Verdasco), corregge la chiamata del giudice di sedia, invitandolo a rivedere la decisione di giudicare out la palla del rivale (decisione che gli avrebbe dato la vittoria). Il fair-play gli fa poi perdere la partita al terzo set, ma gli fa guadagnare la stima della gente. Mai una parola fuori posto, mai un episodio che potesse scalfire la sua immagine di “cannoniere gentile”.
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Di Andy Roddick verrà certamente ricordato il suo servizio: un colpo che ha fatto scuola, unico nel suo genere per tecnica ed esecuzione. La sua battuta ha dimostrato che anche un giocatore dalla statura non oltre i due metri (Roddick è alto 188 cm) può essere in grado di scagliare la pallina a velocità da primato. E proprio il servizio da record mondiale a 249,5 Km/h sembra essere la metafora, la sintesi perfetta della sua carriera da numero uno: un lampo folgorante, che svanisce in poco tempo, ma che, splendente senza macchia, lascia il segno.
Aridatece Gianni Clerici e Rino Tommasi, i due commentatori più amati del tennis italiano, e soprattutto le loro sublimi divagazioni. «... Comunque, 15-0».