È tempo di apatie, di emozioni calmierate, nella società e nello sport. Accade tutto sotto i nostri occhi, in maniera evidente, ne abbiamo la riprova a cadenza quotidiana; accade per la prosopopea di moralisti in assenza di morale, di narratori in assenza di narrazioni. Lo sport si inaridisce e perde il mito, l’atto si dissolve nell’azione e la passione si disfa del sentimento, con gli sportivi ridotti a impiegati e gli appassionati rabboniti in spettatori da teatro d’opera. L’esasperata moralizzazione a mezzo stampa lascia tramontare qualsiasi evento nell’ipocrisia, mentre delira nell’irrazionalismo la smania di dover ottimizzare con ogni mezzo le prestazioni sportive, trasformando gli atleti in organismi meccanico-cibernetici in batteria. Ciò che ne risulta è uno sport ateo, evirato, senza più mete né miti, prodotto di consumo per un pubblico bulimico, bramoso del nulla ad alta rotazione.
Se non è più tempo di assaltare il cielo, vale comunque la pena di affrontare un nostos, un viaggio a ritroso, controcorrente, verso un tempo gravido di talenti, sentimenti e bassezze. Rivalutata la lezione di Erasmo per cui “la vita umana non è altro che un gioco della follia”, rivivere trasognanti i sussulti sportivi di quel decennio malato, enfatico e infausto che furono gli Anni ‘70. Una decade al di là del bene e del male, meravigliosamente cruda e fertile di follie: quella di Ilie Nastase che si trasforma in agitatore di folle e fa espellere un giudice di sedia agli US Open, quella dello spogliatoio tutto cuore e rivoltelle di Maestrelli, quella di Arnoux e Villeneuve che fanno a sportellate senza bisogno di ambire alla vittoria, ma non solo. Tanti colpi, leciti e anche disonesti, perché in fondo, diceva bene Marinetti, “non v’è bellezza se non nella lotta”.
In questo senso, pochi colpi nella storia hanno mostrato tanta bellezza quanto quelli della “rissa nella giungla” a Kinshasa nel ‘74: voci sostengono che nei sotterranei dello stadio “20 maggio”, mentre Ali irretiva Foreman inventando la tattica del rope a dope, vi fossero reclusi centinaia di oppositori politici del regime di Mobutu. Non sapremo mai se tale indiscrezione, certo verosimile, fosse reale, ma essa ci restituisce un’idea di come il match Foreman-Ali non sia comprimibile nella locuzione retorica e insignificante di incontro-del-secolo. La “rissa nella giungla” segnò l’apice di una strategia propagandistica orchestrata dal dittatore col copricapo in leopardo, che offrì dieci milioni di dollari a don King per organizzare lo scontro tra titani nel “suo” Zaire.
L’arena è tutta per Ali che nella sua vestaglia a fantasie tribali è accolto dai cinquantamila presenti al grido di “Bomaye, Ali bomaye!” (uccidilo, Ali!): mentre incassa i colpi di Big George, molleggiando sulle corde e confidando nei 39 gradi del centro Africa, Louisville lip provoca l’avversario con frasi del tipo “mia madre me le dava più forti”, prima di finirlo all’ottavo round con un gancio sinistro e un destro diretto. Mentre si leva l’alba su Kinshasa, un temporale battezza Ali come The greatest, al termine di un incontro che Foreman ricorda come il peggiore della sua vita, teatro non solo di sport ma anche di affari e politica, probabilmente anche nei sotterranei.
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Scoccò invece in mondovisione il destro che Kermith Washington rifilò a Rudy Tomjanovic, durante Lakers-Rockets nel dicembre del ’77. “Un colpo sordo come quello di un melone che colpisce l’asfalto”, a rompere il chiassoso brusio del Forum di Inglewood. Rudy T è a terra esanime: intorno a lui la rissa si placa, tutti si chiedono se sia ancora vivo. Washington lo ha steso con quello che passerà alla storia come the punch. “Sono cresciuto in strada” – dirà poi – “quello che ho imparato è che in una rissa, se qualcuno arriva alle tue spalle devi colpirlo. Poi puoi chiedere spiegazioni”.
La rissa si paralizza, tutti sono increduli. Le ossa zigomatiche e nasali del serbo si sono spostate di 8 millimetri, i medici sostengono che l’impatto avesse la forza di un incidente a 70 km/h. Rudy T poi si rialza, riesce a tornare negli spogliatoi e chiede di essere medicato per riprendere a giocare. Non si rende conto, eppure percepisce un sapore acre in bocca: è liquido spinale, proveniente dal cervello, e se il flusso continuasse, morirebbe. Le cose si risolvono per il meglio, ma l’evento costerà 26 partite di squalifica all’ala dei Lakers e un anno di convalescenza a Tomjanovich.
Washington verrà licenziato e farà fatica a continuare la propria carriera: demonizzato dai media, subirà minacce di vario genere, lui e la famiglia, e addirittura una clinica gli negherà di assistere alla nascita del figlio. Diventa un mostro da sbattere in prima pagina, vocazione comune a tanti, troppi giornalisti a gettone: creare una dialettica tra buoni e cattivi è – specialmente nel mondo angloamericano – il modo più efficace di generare trend topic di facile indignazione. Eppure Rudy T, consapevole che odiare Kermit sarebbe stato come “bere del veleno”, lo perdona: «L’ho perdonato, e la cosa strana è che neanche lo conosco, non ci siamo mai seduti a parlare, ma quell’evento ci ha unito, in un certo senso lui sarà sempre parte di me».
MAESTRELLI E LA (MALEDETTA) LAZIO ANNI 70
Si arriva talvolta a vere e proprie liste di proscrizione, oggi tanto in voga, che di fatto avrebbero compreso tutti gli uomini della Lazio di Maestrelli, banda poetica e spietata, goliardica e tragica. Più che uno spogliatoio, un vero e proprio covo, in cui circolavano 44 magnum, Colt 45 e addirittura mitragliatrici M-16, una santabarbara a metà tra un manicomio e un parnaso di dèi dai tratti umanissimi. Un perfetto spaccato dell’Italia plumbea degli anni 70. La scorribanda domenicale coronava settimane di allenamento, botte e tensioni.
Un libro in grado di fondere magistralmente storia (la Lazio di Maestrelli e gli anni 70) e fantasia.
Nel ‘74 arriva il primo scudetto della storia, i biancocelesti portano a compimento il loro “eretismo podistico”: l’anno successivo, d’improvviso, si spegne Maestrelli, mentre il caso Re Cecconi segna più tardi un contraccolpo fatale per tutti gli animi incendiari del gruppo. Il miracolo sportivo consacra le gesta degli eroi laziali, la caducità del destino contribuisce a generarne l’epica. Si smorzano le vite e i vitalismi ma divampa la leggenda di quelle esistenze così ardite da valicare le frontiere dell’amaro destino: la gloria sposa la morte e dà principio al mito.
EROS E MORTE IN FORMULA 1
D’altronde muore giovane chi è caro agli dei, come Gilles Villeneuve. Al GP di Francia del ‘79, sul circuito di Digione, l’Aviatore varcò il traguardo della storia a bordo della sua 312 T4. La vittoria di Jabouille è liquidata da un indifferente Mario Poltronieri con un distaccato “Vince Jabouille, e questo non era ormai più in dubbio”; l’attenzione è tutta sul duello alle spalle del francese, con Villeneuve e Arnoux che fanno a sportellate indemoniati, senza un apparente motivo. Le due monoposto sembrano quadrighe di Apollo, si toccano e si sfregano in un duello vorticoso e pregno di rischi, che vedrà Villeneuve avere la meglio.
A fine gara, i due saranno prontamente ripresi da Niki Lauda con una ramanzina (ovviamente disattesa) che Arnoux ricorda così: “iniziò col dire che a Digione avevamo compiuto delle manovre molto pericolose. A sentirlo mi giravano le balle, figuratevi a Gilles. A un certo punto Lauda ci chiese se avessimo qualcosa da dire: ‘Che se ricapita sono pronto a rifarlo’, gli rispose Villeneuve. E io: ‘Niki se ci fossi stato tu, sarei arrivato io secondo’. Avevamo esagerato e ce ne andammo”. Liberi, belli e ribelli, Arnoux e Villeneuve fecero della dinamicità una missione estetica, mostrando quella vocazione alla “bellezza della velocità” che, ancora citando Marinetti, arricchisce la magnificenza del mondo di una bellezza nuova fatta di agonismo e sentimento esasperato.
TENNIS ANNI 70
Somiglia ad un agone, forse ad uno spettacolo gladiatorio, pure il match tra McEnroe e Nastase agli Us Open del 1979: “Nasty”, furbesco e provocatore, contro “Superbrat” (supermoccioso), con il primo che agita l’arena in un rito totale, un concerto delirante. Sotto di due set ad uno, Nastase si avvicina al giudice del net, gli sfila il cappello, lo getta a terra: torna al suo posto ma non vuole saperne di giocare. Hammond lo punisce con un warning, un penalty point e un penalty game: 3-1 per McEnroe, dunque. A questo punto la sommossa ha inizio: in 20 minuti dagli spalti del Louis Armstrong piove di tutto, al grido di “two-one!, two-one!”.
Un match entrato nella storia
Quando il giudice Hammond sancisce la sconfitta di Nastase avviene l’inimmaginabile: con il pubblico e la polizia ormai in campo, il direttore del torneo Talbert decide di sollevare l’arbitro che aveva appena squalificato Nastase. Lo sostituisce con il Referee, annullandone la decisione e facendo riprendere il match. McEnroe, colmo d’ira, vince il quarto set per 6-2. È sconfitto nel profondo, però, perché la sua egomania era stata dominata e irrisa da quel tremendo istrione zigano.
« Entrai negli spogliatoi pensando di dargli un pugno in faccia ma poi lo vidi (alcuni dicono con due ragazze sottobraccio, ndr) e mi disse ‘Ehi MacArony, dove andiamo a cena stasera?’ ».
Genio-e-sregolatezza è un binomio vuoto e riduttivo, che non rende onore all’istrionismo di Nastase né all’aristocratica arroganza di McEnroe: la parola tradisce spesso lo spirito, che invece rimane inviolato nel gesto che si eleva ad atto, nello slancio che incarna il sentimento. Perché è nel moto trascendente, ben oltre le idee di giusto e sbagliato, che si staglia netta la figura dello sportivo, quando nel gesto tecnico incarna il carattere religioso del mito, quel dio che non c’è eppure che tanto ci è necessario per vivere, per accendere nella follia un’insperata giovinezza, per volgerci alla ricerca di un sussulto poetico a redimerci dal rischio di vivere da morti, costretti ad esaltarci a comando per uno sport sconsacrato. Per noi che come CB sentiamo addosso la mancanza di stupore, noi convinti che “tutto è animato da contrasto e senza di esso langue” (Leopardi), è ancora tempo di assaltare il cielo.