Antonio Conte è ossessionato dalla vittoria a livelli quasi patologici, e per questo guidato da un demone invisibile e in quanto tale pericolosissimo: l’arrivismo. Il dio Kairos, sembra quasi di vederlo, lo accompagna costantemente suggerendoli: «sfrutta il momento propizio». Una frase scolpita nel cuore di Conte.
Cosa aspettarsi, d’altronde, da uno che in meno di un decennio è passato dall’essere un simbolo della Juventus – prima come giocatore, poi come allenatore – all’essere il simbolo della rinascita nerazzurra (con tanto di videoclip di presentazione la cui descrizione, non a caso, recita: we have two entities with the same objective and outlook – that is to win). Il disincanto dell’allenatore pugliese è la più pura manifestazione del nichilismo superomistico. Le sue dichiarazioni, pre e post-partita, sono come il sintomo di una malattia profonda, di un’ansia di insuccesso tipica della nostra epoca. Conte è l’uomo nuovo. Ma è rimasto ancorato al passato.
All’indomani del pareggio casalingo contro la Fiorentina, che ha sancito una volta per tutte la distanza dalla Juventus di Maurizio Sarri nella rincorsa al primo posto, Antonio Conte ha dichiarato: «Il secondo posto conta poco, sei il primo dei perdenti». Come se il richiamo a Giampiero Boniperti non fosse già sufficientemente tagliente, l’allenatore nerazzurro ha poi aggiunto, mettendo il dito nella piaga dei tifosi nerazzurri:
“Penso sia giusto che l’Inter guardi alla Juventus, che è la squadra migliore”.
Fa giustamente notare Franco Vanni su Repubblica la leggerezza e ingenuità dialettica delle dichiarazioni di Conte, opposte a quelle di un altro grande allenatore del presente come Jürgen Klopp: se l’allenatore tedesco, ad ogni conferenza stampa, non perde occasione per riferirsi al glorioso passato del Liverpool, opposto è lo schema comunicativo dell’allenatore pugliese.
Incapace di reinventare il proprio linguaggio, Conte si rivolge al mondo Juventus (quindi a quel vocabolario che contempla solamente vittoria e sconfitta) perché è l’unico che conosce davvero. Quel che accade in campo col dogma della difesa a 3 si riverbera così sul suono dei microfoni: vincere, perdere, bianco, nero; Conte l’eracliteo, ma nei panni del sofista. Così sul calendario dei nerazzurri: «Ogni volta che c’è da sfavorire qualcuno, l’Inter viene sfavorita», con un accento anti-juventino così sfacciato da capovolgersi nel suo contrario: Conte è in realtà rimasto juventino fino al midollo.
Che Conte sia un vincente, poi, è fuori discussione. Ovunque sia passato ha lasciato un trofeo – Bari, Juventus, Chelsea – o un segno indelebile – Siena, Nazionale Italiana. Che le sue dichiarazioni siano in linea col personaggio, anche questo è fuor di dubbio. Anche troppo. La sua dialettica non solo non è mai cambiata ma, come tutti i difetti che con l’età vanno acuendosi, si è addirittura radicalizzata. Fino all’eccesso.
Anche Simeone è un vincente, a tratti ossessionato. Ma la sua ossessione di vittoria ha sensibilmente mutato faccia nel corso del tempo. Simeone è recentemente diventato l’allenatore più vincente dell’Atletico e della storia della Liga ma il suo linguaggio non è rimasto lo stesso. Interrogato a proposito delle critiche che gli vengono rivolte dai giornalisti, lui (Sarri prenda nota) risponde:
“Ci sarà sempre qualcuno che criticherà il mio operato. E sempre dovrà (tiene que) esserci chi mi critica; è il benvenuto”.
Persino Giampiero Gasperini, non propriamente un “umile” del mestiere, ha giustamente sottolineato, rispondendo alle dichiarazioni di Conte sul secondo posto, che «per [l’Atalanta] arrivare secondi non è da perdenti». Certo, la storia dell’Atalanta non è quella dell’Inter. Ma è altrettanto certo che la storia si fa nel tempo presente e questo – con la Dea ancora pienamente in corsa per il secondo posto e per quella Champions che l’Inter ha invece salutato già da tempo – riconosce una sola squadra nerazzurra: quella di Bergamo.
Ma a parte i risultati, che forse lo premieranno anche, in questa ripresa estiva con un calcio che secondo Sinisa Mihajlovic (e milioni di italiani) “fa schifo”, Conte appare in ritardo, scomposto, fuori tempo massimo. Le lamentele continue, l’ossessione della sconfitta, il muso lungo ad ogni passo falso; e ancora la retorica del vincere a tutti i costi che, soprattutto laddove non c’è una tradizione a supportarla, rischia solo di mettere pressione e sfilacciare l’ambiente. Anche qui, i continui strappi con il club non sono semplicemente frutto di una trattativa per avere qualcosa in più dalla dirigenza, ma il sintomo di una nevrosi che va sempre oltre, fuori giri, e mette seriamente in discussione la possibilità di porre le fondamenta per un “progetto”.
Per ragionare in questo senso, con una visione a medio-lungo termine che riporti i nerazzurri nel pantheon del calcio europeo, Antonio Conte deve semplicemente smetterla di essere juventino. In caso contrario potrebbe essere l’Inter stessa a respingerlo come corpo estraneo, come continuano a fare alcuni tifosi nerazzurri. Sempre che non sia Antonio, bruciando tutti, a sbattere per primo la porta.