L'amore per la Sardegna, l'importanza della famiglia.
Barella è un uomo del XX° secolo in un corpo da atleta del XXI°. Ha appena 24 anni ma è già padre di tre figlie – l’ultima, Matilde, è nata il 18 gennaio, a poche ore dal gol di Nicolò contro la Juventus. Non è un amante dei social e la sua sciatteria nell’uso dei profili virtuali è inversamente proporzionale alla sua serietà nella vita di tutti i giorni – lavorativa e non.
«Credo che il gol alla Juve abbia consacrato ufficialmente Barella come miglior giocatore italiano», ha dichiarato Gigi Riva qualche giorno fa in un’intervista alla Gazzetta dello Sport. «Da piccolo aveva già la testa da grande. Sono orgoglioso di lui perché rappresenta Cagliari e la Sardegna, come la rappresentavo io».
L’ultima volta che Rombo di Tuono lo aveva incontrato, Barella non aveva ancora 18 anni. Passandogli vicino, Riva gli aveva concesso poche ma fondamentali parole: «Ti ho visto giocare, continua così». Un po’ come per un brasiliano essere avvicinati da Pelè. Non è un calciatore a parlarti, ma un’istituzione. Riva per molti sardi è la Sardegna fatta persona. Meglio, Riva è il riscatto del popolo sardo. Che a molti anni di distanza ha finalmente prodotto un talento degno di quel (santo e venerabile) nome.
Barella non è semplicemente il miglior talento della Scuola Gigi Riva di Cagliari, né il più forte centrocampista italiano in circolazione. È un figlio della Sardegna profonda. È una persona semplice, umile, che nelle interviste ringrazia la mamma perché lo portava al campo d’allenamento e, soprattutto, allo stadio, a tifare il Cagliari. Impossibile fare il tifo per un’altra squadra, come impossibile era per Gigi Riva accettare le avance della Juventus: «A Cagliari c’è un senso di appartenenza che vince su tutto», spiega Barella, ragazzo di poche parole e di principi saldi, incrollabili come l’orgoglio del popolo di cui fa parte.
Orgoglio e senso d’appartenenza testimoniati da capitano, quando nel 2019 in seguito alla protesta dei pastori sul prezzo del latte diede voce alla propria gente insieme al gruppo squadra: «Io sono sardo purosangue, vivo queste situazioni sin da quando sono piccolo. Io sono solidale con i pastori».
Da quando è all’Inter (2019), Barella è cresciuto tantissimo. Ha messo da parte quella foga agonistica tipica dei generosi imberbi, è diventato concreto nell’ultimo passaggio e nel tiro, i compagni di squadra lo vedono come un leader. Dopo le 14 ammonizioni del primo anno, ha notevolmente abbassato la propria media (ha chiuso a 5 in tutte le competizioni). Non è più il ragazzo focoso e dal talento ancora inespresso di Cagliari, ma una certezza dell’Inter e della Nazionale. Anche perché, come detto, Barella è decisamente migliorato in fase di finalizzazione e di rifinitura, ma ad impressionare è innanzitutto la sua leadership in campo.
Molto probabilmente Barella sarà capitano dei nerazzurri in futuro – tutto dipende dalla tenuta delle diottrie di Handanovic. Alessandro Cattelan, sineddoche del tifo nerazzurro, ha detto di lui: «Credo che racchiuda lo spirito che piace ai tifosi di questa squadra». Idolo della Milano nerazzurra, Barella non ha però smarrito le proprie origini, non ha mai rinnegato le radici sarde. Al contrario, sta iniziando a raccogliere quanto finora seminato. Il suo cuore, la sua pelle e il suo spirito sono ancora, anzi forse ora più di prima, un inno alla Sardegna.
«Il fatto di essere sardo, e soprattutto cagliaritano, per me è un grandissimo orgoglio. La nostra è una popolazione che sembra molto chiusa, ma tra di noi c’è una grande forza. E per questo sono tanto orgoglioso».
Anche Barella, da buon sardo, sembra essere un ragazzo chiuso. Al di là dei profili social di cui si accennava in apertura, non è solito rilasciare troppe dichiarazioni. «Sono sempre stato molto riservato e timido», risponde a chi gli chiede di descriverne il carattere in poche battute. Lo è meno quando gioca (e straccia Bruno Alves) a scalineddu, gioco di carte sardo. Non lo è affatto quando si butta sul pallone con il coraggio di un veterano.
La sua passione, da quando aveva 3 anni, è il calcio. Ma non esisterebbe calcio senza Sardegna, senza Cagliari, e questo Barella lo sa bene. La sua dimensione, ormai Internazionale, stona agli occhi di chi si aspetterebbe da lui un italiano impeccabile, un accento neutro: se è vero, come dice Levinas, che il linguaggio è «la messa in questione dell’io», niente più del sardo definisce Nicolò Barella.
Barella comunque, almeno in campo, non ha bisogno di troppe parole. Gli bastano i mezzi naturali (tecnica e volontà) e quelli che ha imparato, con Conte, ad aggiungere al proprio repertorio: l’atletismo, l’intelligenza tattica, la corsa ragionata, il tempismo e la temperanza. Da cavallo pazzo è diventato cavallo di razza, come quel Nicola Berti allenato da Trapattoni, maestro (guarda caso) proprio di Antonio Conte.
Eppure, se Barella è cresciuto tanto, non lo deve (solo) all’allenatore nerazzurro. Né al calcio in senso stretto. Lo deve prima di tutto alla propria terra, che gli ha insegnato a sognare cose semplici: «Sono cresciuto in una famiglia numerosa, ho sempre desiderato dei figli. Quando ho trovato la persona giusta, ho realizzato il mio sogno».
«Io vorrei vincere tanto, ma allo stesso tempo il mio obiettivo è quello di lasciare un bel ricordo, un segno nei miei compagni. Una traccia di Barella nel calcio: come persona e sportivo».A 24 anni, Barella è un giocatore pronto, calcisticamente parlando tra i più forti in circolazione, eppure umile. Le parole che usa non sono quelle di una superstar viziata e patinata, ma quelle di una persona semplice, sana, che non deve al mondo ma al suo mondo le fondamenta del proprio essere. Quel che ci porta a scommettere su Barella non è il talento ma l’amore per la propria terra, le sacre origini che questo ragazzo non ha mai smarrito durante il cammino. Da Cagliari a Milano. Buon sangue non mente.