Lo Speciale Mundial di ‘Mixer’ è stato un sublime teatro dell’assurdo in cui un parterre de roi di attori, rockstar, burocrati e calciatori hanno salutato la vittoria azzurra a Spagna ‘82 sotto la conduzione di Minà, capace come pochi di sublimare sacro e profano. Gianni Minà che si è spento, all’età di 84 anni, l’altroieri. Nato a Torino nel mese di maggio 1938, Minà era rimasto legato alla città nella fede per i colori granata, vissuta “con la rabbia di un pacifista” e condivisa con il fratello Enzo, venuto a mancare – amara coincidenza – solo poche settimane fa.
Di Gianni Minà si potrebbe scrivere tanto, come lui ha fatto in vita. Si potrebbe tracimare inchiostro per parlare delle interviste, dei reportage da Olimpiadi e mondiali di calcio, delle cene (come quella con De Niro, García Márquez, Muhammad Ali e Sergio Leone), degli aneddoti e materiali d’archivio che la famiglia sta da qualche tempo riportando alla luce su Instagram. C’è, però, un momento nella carriera del giornalista che potrebbe riassumerla nella sua capacità di sublimare l’alto e il basso, la sfera privata e quella pubblica degli intervistati, il sacro ed il profano.
È lo Speciale Mundial di Mixer andato in onda il 12 luglio 1982, l’indomani del trionfo azzurro in Spagna.
Nello studio RAI va in onda uno show in cui Minà, con il garbo di un padrone di casa il giorno di Natale, apre le porte del set televisivo a una cornucopia di personaggi che, inevitabilmente, surclassano le sedute disponibili. Sono poltroncine gialle che assorbono i riflettori ardenti dello studio. Li riflette, invece, la fronte imperlata di sudore del conduttore, entusiasta nel suo gesticolare generoso, nella sua inconfondibile S sibillina, nei suoi baffi orgogliosamente mediterranei ed in uno dei suoi abbondanti capispalla giallo canarino.
Abiti che segnarono l’iconografia di una RAI bonariamente e paternamente domenicale, come il senso di vuoto che ti avvolge l’indomani della finale di un mondiale. Un servizio pubblico che iniziava a sbottonarsi ed i cui studi si riempivano di coltri di fumo di sigaretta come i salotti delle case degli italiani in cui entrava. Una RAI che sapeva di tabacco, delle prime tastiere sintetiche da giornata uggiosa di Battisti, o degli accordi di pianoforte di Venditti, ospite – tra i tanti – della puntata.
Gli ospiti non sono seduti ma accampati, schiacciati su pedane e poltrone, chi in piedi, ma nonostante ciò febbrilmente entusiasti. Eppure c’è una coralità armonica e sorprendente nella caotica entropia del salotto televisivo. Più che la puntata di un talk show, quella andata in onda a culmine dell’estate del Mundial è una sacra rappresentazione, che nella plasticità dei volumi, negli equilibri dei corpi e nelle loro palette riporta alla mente al tempo stesso tante e nessuna opera. A ricordarci che gli stilemi di una certa arte, sia essa sacra o vernacolare, rimangono invariati nel tempo, pur mutando le loro tecniche, i medium ed i soggetti.
C’è del Caravaggio, ma anche delle operose scene di piazza di Bruegel. Il teleschermo, totem laico della nuova dimensione domestica degli italiani, diventa così una pala dell’altare su cui rappresentare le più ampie ripercussioni del calcio su un paese che si avvia al post-moderno. Appaiono, tra gli altri ed in ordine sparso, Monica Vitti, Ugo Tognazzi, Beppe Berti, Renzo Arbore, Eleonora Giorgi, Sergio Corbucci, Adolfo Celi, Carlo Lizzani, Zeudi Araya, Alberto Bevilacqua, Pino Caruso.
Sandra Milo, reclinata su un divano come una Paolina Bonaparte del servizio pubblico, tira le orecchie alla stampa per aver messo in croce la nazionale ad inizio torneo. Non può mancare Paolo Villaggio, ad una cui narrazione iperbolica diretta da Luciano Salce sembra appartenere la sceneggiatura di queste due ore di televisione. L’attore sottolinea come il mondiale azzurro sia stato la gioia della vita per una generazione, la sua, che non aveva mai vinto nulla.
“Io non ha mai fatto la Resistenza, né il boom industriale, né il Sessantotto. Ho perso sempre tutto: un impero coloniale, guerre e mondiali, la guerra di Spagna, la Libia subito […] È la prima volta che vinco qualcosa da italiano”.
Su un divanetto a semicerchio da balera, compressi come studenti all’ultima fila dell’autobus che li porta in gita, assieme ai vertici di FIGC, CONI e ministeri competenti, due dei marcatori della finale Paolo Rossi e Marco Tardelli e, nel mezzo, a fare da baricentro Minà. Il pubblico applaude, qualcuno urla “Bis!”. Se la ghigna Pablito. Anni più tardi, Tardelli racconterà del ritorno a casa, in auto con Venditti ai 200 all’ora per le strade della capitale. Fu proprio quel giorno, in quello studio, che scattò la scintilla con la giornalista Stella Pende, sua futura moglie.
A un certo punto, da Torino, appaiono in collegamento i Rolling Stones, che la sera prima si erano esibiti al Comunale, dove Jagger aveva cantato in maglia azzurra. La mano di un tecnico lancia, priorità, un accendino ed un posacenere ad un Keith Richards sornione. Nemmeno a dirlo, anche qui il divano è troppo piccolo per tutti. Immaginate trovare posto anche per Claudio Gentile, a cui il frontman dona un pallone-centrotavola. Minà incita, senza apparenti motivi, Tognazzi, totalmente digiuno di inglese, a porgere domande alla band. Ne scaturisce un aneddoto surreale sulla volta che uno di loro era stato a casa sua a giocare a biliardo.
Si scopre poi che Bill Graham, manager della band, scampato da un campo di concentramento tedesco e diventato tra i più grandi agitatori della controcultura statunitense, è grande amico di Lina Wertmüller. Jagger scherza sul fallimento dei 3 Leoni, raccontando come avesse scommesso soldi sull’Italia sotto imbeccata di un veggente, Gipsy Tony. Se questa puntata di Mixer non è magia, per lo meno è il più grande teatro dell’assurdo andato in onda sulle reti televisive italiane. Ci perdonerà Carmelo Bene. Un freewheeling di volti, parole, sguardi, sigarette, gesticolazioni, sudore.
È forse stata più situazionista questa ora e cinquanta rispetto al Punk scoppiato pochi anni prima a Londra, e a cui gli Stones avevano vacillato e resistito con il loro rock d’antan, proprio come gli Azzurri. Partiti per spacciati e usciti trionfanti.
La Speciale Mundial di Mixer è un autentico carnaio, nell’accezione più verace, e dunque libera da negatività, del termine. Incarna vizi e virtù di un popolo, quello italiano, tanto sguaiato e caciarone, quanto tronfio ma altresì impacciato fuori dai propri confini e un poco vile. Vedi Tognazzi in dialogo con gli Stones, o l’autoindulgente opportunismo con cui il Belpaese ha sempre sfruttato i trionfi mondiali per lavare, o meglio insabbiare, l’onta degli scandali del calcioscommesse.
La sensazione è che la presenza in studio di una Wertmüller o di un Lizzani in qualche modo giustificasse, senza vergogna – e perché, d’altronde, averne?! – l’esuberante carnevale latino. Anzi, c’è del gusto in questa discesa agli inferi della scompostezza e del giubilo da parte della crema dell’intellighenzia nazionale. Un po’ come nell’episodio della trattoria ne ‘I Nuovi Mostri’.
Chez Minà ci sono tutti: rockstar internazionali e cantautori romaneschi, dive e attricette, intellettuali e maschere della commedia all’italiana. Nessuno escluso, tutti con la stessa dignità e la loro voce. Come Minà aveva intuito, un giornalista sportivo può passare da Diego Armando Maradona a Fidel Castro, dai Beatles a Cassius Clay, anche senza soluzione di continuità. A ricordarci che lo sport è anche, se non soprattutto, società, politica, costume. Lo sottolinea ad inizio puntata, contro un greenscreen squisitamente kitsch, come si tratti di «una lettura di costume, di spettacolo, anche tecnica, del mondiale vinto dall’Italia».
Come il suo Torino, quello dello scudetto conquistato da Gigi Radice, fu capace di fare propria la lezione del calcio totale dell’Olanda di Cruijff, Minà ha saputo essere un giornalista ‘totale’. Si pensi a come il suo grande amore, la boxe, tornasse anche quando trattava di calcio. Di Enzo Bearzot, condottiero dell’Italia Mundial con un trascorso in maglia granata, Minà scriveva «Aveva una faccia da boxeur, ma come i vecchi eroi del ring era un romantico». È proprio a Mixer che le telecamere RAI mostrano le celebri immagini della nazionale sull’aereo di ritorno dalla Spagna, quelle della partita a carte tra Zoff-Pertini e Causio-Bearzot.
Un atto della semplicità del quotidiano quasi impensabile a sole poche ore dalla tensione agonistica di una finale mondiale. Sarebbe troppo semplice, nonché riduttivo, scrivere che si trattava di altri tempi, calciatori ed uomini. Che era un’altra Italia e – perchè no – un altro giornalismo. Eppure, nella retorica spesso si ritrova un fondo di verità. Senza dubbio, si facevano più cose per urgenza di cronaca, meno per velleità di telecamera. «A sorpresa la camera è arrivata su di me. Sono un po’ emaciato, qualcuno troverà forse anche da ridire, ma un cronista lavora in queste condizioni», così si apre la puntata il giornalista.
Minà, mediatore dell’alto e del basso, del sacro e del profano nella televisione italiana, non ebbe mai paura di perdere la visibilità offerta dal teleschermo. Il suo rapporto con la RAI finì, qualche tempo più tardi, a causa della sua intransigenza ai compromessi ed ai dietrofront. Mai davvero nazionalpopolare come l’accondiscendente Baudo, mai insistentemente voyeuristico come Costanzo. Rimane questa puntata a ricordo di un calcio e di un’Italia che perdono uno dei loro ultimi grandi narratori.