Papelitos
22 Agosto 2022

L'ultima follia dei nerd: vietare i colpi di testa

A forza di safety-first non usciremo più di casa.

Corpo di mille balene! Ma che diamine sta succedendo agli inglesi? E ai giornalisti? E più precisamente a quelli di Rivista Undici? Senza offesa, anzi: sono stati tra i nostri riferimenti quando abbiamo fondato Contrasti, impegnati nell’obiettivo di “parlare di calcio con un linguaggio alto”, di interpretare lo sport andando oltre le secche della cronaca, del pettegolezzo e dell’ossessione tattica; e continuano ad esserlo per tanti validissimi approfondimenti. Per questo ci dispiace vederli rimbalzare nonché promuovere deliranti campagne safety-first contro i colpi di testa nel calcio. Sì, avete letto bene: contro i colpi di testa. Le incornate, le zuccate, chiamatele come volete, in attacco come in difesa pare che qualcuno le voglia abolire. Via! Basta! Vietiamole come i colpi di mano! Sono troppo pericolose, scompigliano il ciuffo dei calciatori e compromettono le loro funzioni cerebrali.

Roba d’oltreoceano, chiaramente, dove il calcio lo chiamano ancora soccer e una class-action di genitori ha chiesto e ottenuto nel 2015 che i loro pargoli non allenassero più questo fondamentale fino ai 10 anni di età (e ne limitassero l’uso fino ai 13).

Il motivo? Causerebbe troppe commozioni cerebrali, circa 50.000 nelle high school del 2010. Nonostante si tratti di un numero in realtà molto basso – Attilio Turchetta, responsabile di Medicina dello Sport dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma, fece notare ai tempi della notizia che si trattava di casi residuali, e per di più «causati non tanto dai colpi dati al pallone quanto dalle ‘capocciate’ tra avversari»la “campagna di sensibilizzazione” ha ovviamente preso piede, come tutte le campagne di sensibilizzazione di questa epoca davvero molto sensibile, ed è sbarcata in Inghilterra, dove dopo uno studio del 2019 commissionato dalla Football Association è stata avanzata l’ipotesi che gli ex-calciatori possano soffrire di disturbi neurodegenerativi, in tarda età, fino a tre volte e mezzo in più rispetto ai loro coetanei che passarono invece la giovinezza pettinando bambole e intrecciando fiori.

Da tale “evidenza” scientifica[¹] la decisione, arrivata lo scorso mese, di proibire le capocciate a partire dal 2023 negli under 12 anche nella patria di Alan Shearer e Peter Crouch. Si parla sempre di calcio giovanile, certo, ma non è escluso che a breve si riesca in qualche modo a porre il problema anche in ambito professionistico. È anzi proprio ciò che ha provato a fare Rivista Undici due giorni fa, riprendendo la notizia del ban inglese per proclamare urbi et orbi la globale “estinzione del colpo di testa” (sic!) dai campi di calcio, causata dalla “costruzione a palla bassa” che ne avrebbe “mostrato la poca utilità”.

Come avrete capito, stiamo rapidamente passando dal campo della scienza medica a quello della pseudo-scienza, ovvero dei bielsisti praticanti: a quell’insieme di trovate retoriche travestite da studi analitici che vorrebbero rivelare dopo decenni di oscurantismo l’unico modo “corretto” di giocare a calcio; alle trovate di quel manipolo di pseudomatematici applicatisi nel razzista e primitivo mondo del calcio con l’unico scopo di redimerlo dai suoi numerosi peccati originali, primo fra tutti quello di essere uno sport di contatto e dunque uno sport virile (leggi patriarcale). Uno sport che per forza di cose deve dunque essere “ripensato” a partire, perché no, proprio dalle capocciate.



Eh sì, perché per l’autore dell’articolo Alessandro Cappelli «giocare a calcio con la testa è da boomer, è da pigri e fa male». «Con la palla a terra ci sono più soluzioni, i passaggi sono più precisi, si può influenzare il flusso del gioco in modo imperativo eliminando quella dimensione randomica che appartiene ai duelli aerei e alle seconde palle». Dunque il calcio senza i colpi di testa non perderebbe poi molto perché «guardando le partite di Champions League e quelle delle migliori squadre del mondo si può notare come, in realtà, il calcio abbia già deciso di poterne fare a meno: è l’evoluzione del gioco che cammina in quella direzione». Dulcis in fundo, la prima partita al mondo senza colpi di testa giocata tra adulti lo scorso anno in Inghilterra viene presentata come “una finestra su un futuro possibile, forse anche probabile”, anziché come una semplice iniziativa benefica volta a “sensibilizzare” (aridaje) sul tema dei problemi neurodegenerativi nello sport.

Il tutto concluso, per dare colore, dalla sempreverde citazione di Brian Clough per cui «se Dio avesse voluto farci giocare in cielo avrebbe messo molta più erba lassù».

Bella, non c’è che dire, peccato che lo stesso Clough abbia vinto la Coppa dei Campioni col suo Nottingham Forrest nel 1979 proprio grazie a un colpo di testa di Trevor Francis in finale contro il Malmö[²]. Beh, di fronte a tante solide argomentazioni, non ce ne vogliate se in questa sede non avremo l’ardire di replicare. Ma mentiremmo se vi negassimo che un brividino ci ha percorso la schiena al pensiero che mentre qui in redazione si brindava alle incornate di un Lewandowski, magari altrove si sudava invece freddissimo pensando alla sua vulnerabile corteccia pre-frontale, o ci si imbarazzava moltissimo di fronte a un gesto tanto smaccatamente virile e primitivo.

Ma in fondo, cari lettori, chi siamo noi per giudicare. Questione di scelte: ognuno guarda allo sport come più gli pare e piace. Ci scusiamo anzi per i toni forse un poco agitati di prima, e consigliamo ai colleghi di Rivista Undici di continuare ad approfondire la questione – se non sbagliamo è il sesto articolo sul tema negli ultimi anni, una sorta di crociata iniziata con il pezzo del 2017 “E se escludessimo i colpi di testa dal calcio?” – non limitandosi necessariamente al football ma estendendo il raggio di indagine ad altri sport, come ad esempio il curling. Che se poi a forza di scopettare viene fuori una strana correlazione con il gomito del tennista, qualcuno pure lì dovrà intervenire, e alla svelta!


[1] Gli studi che provano a stabilire correlazioni tra attività effettuate molto tempo prima (anche 30 anni) dell’insorgere di una malattia e la malattia stessa hanno evidenti limiti (le variabili non considerate sono pressoché infinite). Nel caso poi dei disturbi neurodegenerativi ne hanno ancora di più. Basti pensare allo studio effettuato nel 2017 tramite autopsia sui cervelli di una decina di ex-giocatori di football americano, che ha rivelato come quasi tutti avessero sofferto in vita di CTE (Chronic Traumatica Encephalopathy). Considerando che però questa è diagnosticabile solo tramite autopsia e che l’autopsia può essere effettuata in maggior misura grazie a donazioni dei parenti dei deceduti (è il caso dello studio), è naturale considerare che le donazioni possano essere state effettuate principalmente da parenti di ex-giocatori che hanno dimostrato in vita neuropatie, compromettendo così la validità del campione (se ne parla qui). Uno studio stranamente mai citato quando si parla della possibilità di bannare i colpi di testa nel calcio giovanile ha inoltre dimostrato l’inutilità di questa “nuova regola” proprio negli USA, dove tutto è iniziato. Sì, pare che rispetto all’anno 2014-2015 nell’anno 2016-2017 le commozioni cerebrali tra i giovincelli siano addirittura aumentate, nonostante il divieto di zuccata introdotto nel 2015.

[2] In copertina, il colpo di testa vincente di Trevor Francis che portò a Nottingham la Coppa più ambita. Da notare anche l’espressione spaventata del difensore del Malmo, evidentemente per il rischio di danni cerebrali del povero Francis.


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Valerio Santori

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