Calcio
23 Febbraio 2025

Come esautorare la Serie A (il caso Monza)

Dietro la cessione invernale di mezza squadra titolare c'è un perché.

Nelle ultime cinque partite il Monza ha fatto gli stessi punti del Lecce, più di Venezia, Parma ed Empoli. Eppure Bocchetti, subentrato da meno di due mesi, è stato mandato a casa anche a fronte di un contratto di due anni e mezzo firmato il 23 dicembre scorso. E’ da poco rientrato Nesta, che invece era stato cacciato a pedate dopo aver conquistato 10 punti in 17 partite che, a pensarci oggi, dopo i 3 totalizzati dal suo successore (ora nuovo predecessore) in 7 gare, sembrano un’enormità.

Pur avendo solo tre partecipazioni nella massima serie (consecutive nelle ultime tre stagioni, badate bene che questo si rivelerà un dato molto importante) e, di conseguenza, essendo solo al 56° gradino della classifica perpetua della Serie A, il Monza ha una storia di un certo peso nel calcio italiano. Si trova addirittura al 36° posto se ci riferiamo al criterio federale della “tradizione sportiva”, che assegna dei punti a scalare per ogni stagione sportiva trascorsa nelle varie serie professionistiche italiane – e che è il canone per dirimere eventuali contenziosi legati ai ripescaggi e, cosa ancor più importante, per assegnare la quota dei diritti televisivi spettante alle singole squadre di Serie A.

In questa graduatoria, il Monza si posiziona perfino sopra a società come Reggiana, Reggina, Spezia, Avellino, Chievo, Sassuolo. Insomma: non parliamo di una Sanremese (91° posto), di un Fanfulla (96°), di un Pontedera (100°) qualsiasi. Il club brianzolo, settima squadra lombarda per importanza, è una società importante che, malgrado la morte del patron Silvio Berlusconi (oggi presidente è il fratello Paolo), può vantare nel suo organigramma nomi del calibro di Adriano Galliani, ultimo guru del calcio italiano pre-Marotta, e Mauro Bianchessi, già responsabile del settore scouting del Milan per un decennio. Dunque, ripetiamo: il Monza è una signora squadra.



Ora, per quanto compromessa sia la situazione in classifica (-8 dalla salvezza) – il passo lento, lentissimo, delle rivali, potrebbe far ancora ben sperare. E a maggior ragione avrebbe potuto farlo con più forza un mese fa, col mercato di riparazione appena iniziato e quattro partite in più da giocare.

Invece, è accaduto qualcosa di apparentemente inspiegabile: il Monza ha smantellato la squadra, venduto i pezzi pregiati della rosa rimpiazzandoli con giocatori evidentemente non all’altezza della Serie A.

Per correttezza di cronaca, sono stati venduti Bondo, Djuric, Pablo Marì e Maldini (più di un terzo dei titolari), oltre ad altre operazioni laterali, e sono stati sostituiti, in gran parte con la formula del prestito, da Zeroli, Milan, e Palacios, Inter (22 minuti in Serie A in due quest’anno), da una riserva del Bologna, Urbanski, da un fuori lista e uno scarto della Lazio, Akpa-Akpro e Castrovilli, da qualche innesto futuribile da smistare tra primavera e prima squadra e da tre perfetti sconosciuti da campionati marginali: il congolese Ganvoula, lo svedese Brorsson e il serbo Lekovic.

Risultato: bilancio del mercato invernale positivo di oltre 25 milioni e squadra competitiva, sì, ma per la serie cadetta.

Concentriamoci su un altro dato: un solo under 23 venduto a fronte di sei acquistati, in buona parte appena maggiorenni. Un ringiovanimento della rosa cui plaudire? Un virtuoso cambio di marcia verso un calcio sostenibile? Forse, anche. Ma, più probabilmente, un occhio già rivolto, e strizzato, alle modalità di distribuzione dei diritti televisivi della Serie B che tengono in grande, grandissimo conto, i minutaggi dei giocatori under 21 e 23 convocabili dalla FIGC, oltre alle spese sostenute per il settore giovanile.



Fin qui niente, più o meno, di male; solo una preventiva mossa aziendale per non farsi trovare impreparati davanti a scenari nefasti. Ma c’è dell’altro. All’inizio ho puntualizzato che il Monza ha partecipato per tre anni consecutivi alla Serie A. Interessante, allora, notare che questo fa sì che venga iscritta come “Società di fascia C”, la più vantaggiosa, nel meccanismo mirabolante del “paracadute finanziario” istituito per far sì che alla retrocessione sportiva non corrisponda una retrocessione economica. Data la comunicazione spesso fosca della federazione, possiamo dire, usando un doveroso condizionale, che il paracadute prevederebbe che il conquibus versato nelle casse del Monza in caso di retrocessione quest’anno sia tra i venti e i trenta milioni.

Ricapitolando: paracadute, spartizione dei diritti in Serie B e, ovviamente, eventuale premio per la nuova promozione in Serie A (anche qui ci si aggira sui 25 milioni).

Tanti soldi, quasi gli stessi, al netto di entrate e uscite ricalibrate, che si ottengono rimanendo in A – ma col vantaggio di poter avere, alla fine del percorso, un asset ringiovanito, snello, ripulito. Sorge il dubbio, quindi, che a un certo punto del campionato convenga, se non proprio andare in B, quantomeno non rimanere in A. Ci sto pensando da un po’ ma non trovo un esempio plastico per descrivere questa situazione.

Ci provo: è un po’ come smettere di studiare per un esame con largo anticipo, quando ancora si sarebbe in tempo per farcela, e rassegnarsi alla bocciatura ma con l’assicurazione di ottenere, così facendo, un buon vantaggio per il successivo appello. Eppure c’è un problema in più e per questo motivo l’esempio non funziona del tutto: nel calcio, come nella gran parte delle cose della vita, il destino individuale si intreccia col destino collettivo. Di conseguenza, una libera scelta di dismissione, di rovina consapevole della propria sorte, intacca il giusto corso degli eventi degli altri partecipanti e altera il corso della stagione.

A oggi mancano 14 partite e i brianzoli hanno chiaramente già abdicato; avranno qualche rigurgito, magari, ma poca roba. Chi affronterà il Monza d’ora in avanti avrà un vantaggio. E, badate, la presenza di una squadra che, come Ofelia, si lascia andare alla corrente della rinunzia, che abbandona la lotta, che viene via, cede, si dà per vinta e quindi falsa il campionato – è una costante: Salernitana nel 23/24 (ma guarda un po’: dopo tre anni di Serie A), Sampdoria nel 22/23, Parma nel 20/21 (indovinate dopo quanti anni?), SPAL nel 19/20 (sempre tre anni dopo la promozione), Chievo nel 18/19, Benevento nel 17/18, Pescara nel 16/17 e così via.

È come quando qualcuno, al fantacalcio, smette di mettere la formazione perché è ultimo – solo che, mantenendo la metafora, è come se gli altri, poi, decidessero per questo di non fargli pagare la quota.

L’operazione-Ofelia, però, “non è il solo male che divora il mondo” della Serie A, per dirla alla Guccini. Chiaro che sia, è lampante, la punta dell’iceberg di un campionato a 20 squadre che non ha più nessun senso sportivo di esistere, sempre lo abbia mai avuto – ma lo stesso abbandono dell’etica calcistica e la stessa negligenza nei confronti della giustizia sportiva verranno attuate dalle squadre che, a brevissimo, inizieranno a galleggiare in quel limbo equidistante tra due poli irraggiungibili, Europa e retrocessione (vedasi, almeno, Udinese, Torino e Genoa).



Quest’anno la Serie A a 20 squadre compie vent’anni e direi che possiamo evitarci un bilancio dell’ultimo ventennio del calcio italiano e della nazionale italiana. Il verbo ‘esautorare’ ha un’etimologia semplice semplice: viene da ex, che sta per ‘fuori di’, e auctor che sta per ‘autorità’; significa togliere autorità, autorevolezza, e quindi dignità, potenza.

Questo per dire che il nostro calcio è stato esautorato da tante nefandezze negli ultimi vent’anni (da Calciopoli al Gravina-ter) – ma la madre di tutte loro è indiscutibilmente l’ampliamento del numero delle squadre partecipanti alla massima serie con la contestuale diminuzione delle retrocessioni. In fin dei conti, i vantaggi in termini di competitività e prestigio calcistico e di esclusività e promozione mediatica di una nuova riduzione a 18 squadre con ben 4 retrocessioni, come è stato d’altronde dal 1929, primo anno del girone unico con gare di andata e ritorno, cioè “all’italiana”, la Serie A, fino all’inizio del millennio – si conoscono bene. Hanno, però, un unico difetto: sono tutti benefici a medio-lungo termine. E purtroppo, i dirigenti del calcio italiano preferiscono la gallina oggi rispetto alle uova domani, scelgono di essere cicale e non formiche, gradiscono più Ofelia di Antigone.

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