Un torneo che ci rappresenta: da rifondare, ma sempre domani.
L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, e sulla nostalgia. Sulle belle storie ma sulla legge del più forte: il calcio raccoglie questi temi e li mette insieme spiegandoli in termini pratici. Da sempre. O più o meno da quando esiste la Coppa Italia. Parafrasando Gary Lineker, che ha consegnato alla storia una tra le più famose citazioni calcistiche, la Coppa Italia è quella competizione in cui «22 uomini rincorrono un pallone per 90 minuti, e alla fine una scudettata vince». Concetto ai limiti della tautologia.
La finale tra Juventus e Napoli segue i principi del paradosso storico che accompagna, quasi da sempre, la seconda competizione italiana per importanza: anche quest’anno ad alzare il trofeo sarà una delle teste di serie alla composizione del tabellone. La Coppa Italia è infatti strutturata per favorire chi subentra dopo, agli ottavi; è la formula stessa del torneo ad essere pensata con questo intento e, malgrado le continue richieste di riforma, resta sempre uguale a se stessa in una tipica e perversa storia italiana.
Torneo elitario, scientifico e vanitoso
Quando nella finale di ritorno del Romeo Menti, e per di più allo scadere dei supplementari, Rossi e Iannuzzi (dopo Maini) ribaltarono il gol di Pecchia dell’andata al San Paolo, il calcio italiano pensò di aver trovato finalmente una soluzione al problema della Coppa Italia: di certo non credeva di assistere all’ultimo rantolo. L’epilogo dell’edizione 1996/97 fu l’inimitabile canto del cigno di una competizione che in quel Vicenza-Napoli aveva letto simboli di speranza futura: una quasi-piccola, che chiuderà il campionato all’ottavo posto, contro un avversario che nella sua storia aveva già vinto almeno uno Scudetto, e che però finirà tredicesimo.
Più in generale, caos e libero arbitrio applicato al calcio: e non basta attribuire eccessive responsabilità alle riforme UEFA di fine anni ‘90. Il fatto è che il calcio in Italia non sembra provare alcun tipo di stanchezza nel guardarsi ripetutamente allo specchio e dirsi quanto si è belli se vince una squadra di vertice. Perché questo accada ci si affida ad un metodo praticamente scientifico: l’inserimento in tabellone delle teste di serie (le prime otto del campionato precedente), direttamente agli ottavi di finale.
Nelle ultime diciassette stagioni a vincere la Coppa è stato sempre un club con almeno uno Scudetto in bacheca e con campionati di vertice in serie negli anni. L’unica quasi-eccezione, a volerla trovare, riguarda l’edizione 2008/09 che vide trionfare la Lazio (decima in classifica) contro la Sampdoria (tredicesima): ma sia la Lazio che la Sampdoria avevano già vinto almeno uno Scudetto e una Coppa Italia nella loro storia. Non basta neanche il mezzo miracolo del Palermo arrivato in finale nel 2011: stesso epilogo. Una marea di aspettative frantumate dall’indefinibile arroganza della realtà, e delle grandi. Dell’élite.
Perché la FA CUP ci dà fastidio
Wigan, Portsmouth e le altre ci ridono in faccia: la FA Cup è il tema perfetto se vuoi improntare una discussione polemica su ciò che calcisticamente funziona in un altro Paese (sul resto, del “modello inglese”, bisognerebbe discuterne). L’ingresso ai trentaduesimi delle squadre di Premier League, con sorteggio integrale, è il metodo migliore per presentarsi alle fasi ultime con almeno un club outsider: e, com’è noto, funziona.
Questo non può che darci fastidio: perché le probabilità di assistere ad un “giant killing” o ad un ottavo equilibrato con l’eliminazione della grande squadrasono molto più alte, in termini di frequenza, di quelle che riguardano un’ipotetica sfida tra una provinciale di Serie C e un top club di Serie A (episodio comunque avvenuto di recente, nel 2016, con la sfida in semifinale tra Alessandria e Milan).
Tra imprese e scarso spettacolo
Quello della Coppa Italia è invece un format obsoleto che favorisce nettamente i più forti, nei tempi e nei modi: tralasciando la qualificazione diretta agli ottavi, un altro tasto dolente è il fattore campo: sostanzialmente gioca tra le mura amiche chi, in relazione alla stagione passata, ha un rank migliore, per posizione o categoria. In numeri tutto questo si traduce, nelle ultime dieci edizioni, in una sola partecipazione in semifinale di una squadra di C (ovvero la sopracitata Alessandria), in due presenze ai quarti di una di B (lo Spezia 2015/16 e il Cesena 2016/17), e nelle belle figure di Pordenone (2017/18), Virtus Entella e Novara (2018/19), club di Serie C arrivati agli ottavi.
Quanto sia difficile, ai limiti dell’impresa, raggiungere risultati simili lo testimoniano tutte quelle squadre che, nelle categorie minori, neanche ci provano ad andare avanti. Schiacciate dal peso di trasferte proibitive e dalla gestione di forze, che quasi sempre corrispondono a rose adattate agli obblighi economici del campionato d’appartenenza, sono tantissime le piccole squadre che fanno turnover nei primi turni schierando magari le riserve o i ragazzi della primavera. D’altronde il ragionamento è semplice: se per trionfare devo battere le squadre più forti d’Italia, per di più a casa loro, perché mai dovrei sprecare energie inutili per i trentaduesimi/sedicesimi di finale?
Sul fronte appeal, poi, la Coppa Italia non riesce nemmeno a divertire. Bene la riforma che dopo anni d’angosce ha eliminato la finale andata-ritorno, ma gli stadi restano sempre vuoti: simbolo di un trofeo che anche tra i tifosi non suscita passioni travolgenti. Se guardiamo alla percentuale di riempimento degli stadi delle ultime vincitrici, si va dal 30,2% dell’Inter nel 2011 al 27% della Lazio nel 2019, passando per i picchi offerti dalla Juventus (93,6% nel 2015, 87% nel 2016, 93,6% nel 2017 e 93,2% nel 2018 – dati ricavati da Transfermarkt). Da un confronto con gli altri Paesi, il calcio italiano esce con le ossa rotte.
Leggendo il consueto “Report Calcio” di PwC degli ultimi anni si registrano due cose: in primis il numero altalenante degli spettatori dei top club nelle partite di coppa (dal 29% nella stagione 2015/16 al 36% di quella 2017/18), ma soprattutto una netta differenza con il dato estero che, tra il 2017 e il 2018, ha segnato il 57%, l’82% e il 73% delle presenze rispettivamente in Spagna, Germania e Inghilterra. Tutta un’altra storia, che dovrebbe farci riflettere.
Non serve una laurea in matematica per capire che il 36% italiano neanche si avvicina al dato spagnolo, venendo invece più che doppiato in Inghilterra e soprattutto Germania.
Una questione sociale
Il fatto è che in ogni Italiano appassionato di calcio c’è questo insaziabile desiderio di belle storie da raccontare ai propri figli, contrastato costantemente dalla necessità quasi morale di veder vincere il più forte tra tutti, aggiungendo connotazioni nuove al concetto di supremazia. In poche parole, tutto questo si può tradurre nell’intento ultimo di non far morire mai un’abitudine ben consolidata, o se preferite lo status quo. Ed è per questo che la Coppa Italia rappresenta la bellezza spettrale della consolazione: elemento sociale che allontana la (necessaria) riforma.
«Il peggior conservatorismo che però si tinge di simpatia, di colore, di paillettes. In una parola: Platinette. Perché Platinette ci assolve da tutti i nostri mali, dalle nostre malefatte. […] Questa è l’Italia del futuro: un paese di musichette mentre fuori c’è la morte.»
Dalla puntata “Ritorno al futuro” di Boris
Senza troppi giri di parole, citando uno dei capolavori che mai invecchiano nel panorama delle serie TV italiane, la Coppa Italia è la locura di Boris. L’elemento che fa saltare il banco, formalmente nuovo, ma fondamentalmente identico. In qualche modo, come Platinette, ci assolve dai nostri mali: riusciamo persino a vederci un rimedio agli obiettivi falliti in campionato, offre speranza alle piazze di provincia che negli anni si sono trovate a marcire nelle categorie minori. Vanagloria senza rimedio, rivalsa irrefrenabilmente annichilita (in semifinale se va bene, ma deve andare proprio bene), dalla più forte di turno. Troppo più forte.
Ed è qui che sta il valore beffardamente e ingenerosamente salvifico della Coppa: perché alla fine, in questa competizione che per Stanis La Rochele sarebbe «troppo italiana», è quasi giusto che vincano i grandi, per farci sentire migliori. Per deresponsabilizzarci e farci sentire in pace, offrendo copioni elitari da seguire e, rare volte, storie nostalgiche di cui nutrirci per vent’anni.