Italia
12 Maggio 2022

Non si vince per caso

Se non ci credete, chiedete a Marotta.

E sono due. L’Inter dopo la Supercoppa si aggiudica anche la Coppa Italia, e si prepara a un finale di stagione da brividi in cui proverà a fare tripletta beffando sulla linea del traguardo i cugini milanisti capitanati da Stefano Pioli. Quanto alla Juve, chissà se come diceva ieri Ivan Zazzaroni ora tutti se la prenderanno con Max Allegri. Di certo, i bianconeri per la prima volta dopo undici anni non alzano un trofeo – a proposito di Inter, Milan e ricorsi storici, l’ultima volta era successo nel 2011, quando i nerazzurri si erano aggiudicati la Coppa Italia e i rossoneri lo Scudetto, chissà. Ma prima partiamo dalla cronaca.

Diciamo che se esistesse un girone dell’inferno riservato unicamente a un profeta del pragmatismo e del cortomuso come il buon Max, beh sarebbe probabilmente molto simile al primo tempo cui gli è toccato assistere ieri sera: un diavolaccio lo obbligherebbe per l’eternità a guardare continuamente la sua Juve giocare un gran “bel calcio”, e intanto sbagliare tutte le occasioni create. Una pena in tutto simile tra l’altro a quella patita nel corso dell’ultimo derby d’Italia di marzo, in cui alle varie occasioni sbagliate dalla Juve aveva risposto il rigoretto di Calhanoglu.

Eppure stavolta il vento sembrava cambiare. Dopo il gol di Barella infatti, carico come una molla e che già al sesto minuto l’aveva messa dentro disegnando una bella parabola arcobalenosa, la Juventus inizia a guadagnare campo, anche grazie all’inserimento di Morata per Danilo (infortunato) al 40′, con Cuadrado arretrato a terzino e un assetto molto più offensivo. Assetto che porta a un sorpasso un po’ “madrileno” a inizio secondo tempo, quando nell’arco di due minuti i bianconeri ribaltano il parziale e si portano sul 2-1. Sono però ancora una volta i cambi a indirizzare l’inerzia del match. Al 63′ Inzaghi inserisce Dimarco, Correa e Dumfries al posto di D’Ambrosio, Dzeko e Darmian, mentre Allegri risponde con Bonucci e Locatelli per Bernardeschi e Zakaria.

«La squadra ha fatto bene per settanta minuti ma poi siamo un po’ calati nella parte finale: avevamo bisogno di cambi, con giocatori che rientravano e ne avevano poco nelle gambe», si giustificherà Allegri a fine partita, accusato oggi di aver abbassato troppo, quasi per maoschismo difensivista, il baricentro della sua squadra.

La partita a questo punto perde il ritmo sincopato avuto fino a quel momento, mentre l’Inter dà la netta sensazione di essere sempre più fresca, reattiva e cattiva della Juve, tornando a farsi vedere nei pressi della porta di Perin come non gli capitava dai primi dieci minuti del match. Così poco prima dell’80esimo minuto, sul controcross di Perisic, Lautaro si libera dentro l’area piccola e viene tamponato (lievemente) da De Ligt e Bonucci: rigore abbastanza generoso, che altrove probabilmente non sarebbe stato fischiato – a proposito, per l’uso del VAR in generale si consiglia di guardare al modello inglese, che tanto ci piace – ma in Italia diventa una sentenza. Tiro dagli undici metri che Calhanoglu realizza magnificamente. L’inerzia del match cambia qui definitivamente: fino al triplice fischio, la Juventus diventa spettatrice non pagante dell’incontro, che si protrae ai supplementari.


Lo diciamo sin dal primo giorno, e siamo lieti che oggi il partito “anti-modernista”, ma in realtà critico sull’UTILIZZO italiano del VAR, stia crescendo domenica dopo domenica


Allegri tradisce la tensione percepita (e mediaticamente assai alimentata) e in barba al suo mantra della “halma” prima si prende un giallo andando quasi testa a testa con Farris, il vice di Inzaghi, e poi dice a Valeri di essere pronto pure a prendersi il rosso: detto, fatto, al 103esimo minuto. In campo nel frattempo sale in cattedra Ivan Perisic, autore della miglior stagione della carriera, che prima trasforma al 99′ un altro rigore dato da Valeri su indicazione del VAR, poi lascia partire al 102′ uno splendido missile terra-aria in controbalzo di mancino, roba che manco Kim Jong-Un. 4-2 e tripudio nerazzurro, con lo stesso Perisic che a fine partita dirà polemico nei confronti della dirigenza:

«Il rinnovo? Non si aspetta l’ultimo momento con i giocatori importanti, non si fa così».

Già, la dirigenza e i grandi giocatori, qui arriviamo al tema scottante. Le telecamere Mediaset immortalano a fine partita il solito Beppe Marotta, finalmente rilassato, sfoderare il suo sorriso migliore e poi, come tante altre volte, il pugnetto rabbioso della vittoria. Ed è come un deja vu quello che ci assale, perché le cose nel calcio cambiano velocemente ma lasciano comunque tracce, immagini, sensazioni. È impossibile allora evitare di pensare che solo tre anni fa, ovvero fin quando il buon Beppe sedeva nell’altro angolo della tribuna, il suo pugnetto sarebbe stato rivolto magari a Pavel Nedved anziché al giovane Steven Zhang. L’abbraccio con Piero Ausilio sarebbe stato un’elegante stretta di mano col presidente Andrea Agnelli e l’occhiolino a Zanetti sarebbe stato l’occhiolino al compare Paratici. Insomma tutto sarebbe cambiato tranne che per un dettaglio: Beppe Marotta avrebbe comunque continuato a festeggiare.

Questo signore venuto da Varese per dominare il calcio italiano, questa figura a metà tra un manager e un uomo di campo, che per mezzo della sua sagacia e conoscenza del gioco ha ormai imposto alla Serie A una sorta di tirannia della competenza, nascosta e insieme formidabile. Sembra passato un secolo da quando si consumò il suo clamoroso addio a Torino, e invece sono solo tre anni. Tre anni in cui nel mondo è successo praticamente di tutto mentre nel piccolo universo del calcio italiano si è materializzata la “caduta di un regno”, con la Juventus che ha perso progressivamente i gradi, fino a trasformarsi in una squadra normale. Che ciò sia avvenuto dopo il passaggio di Marotta all’Inter, e che l’Inter abbia iniziato proprio da quel momento a fare lei “la Juve”, ovvero a progettare e costruire con un raziocinio forse mai visto prima, non può essere ovviamente un caso.



Basta vedere i cambi di ieri, del resto, per farsi un’idea della differenza insita nella composizione stessa delle due rose. Gli ingressi dell’inter, molto banalmente, hanno un senso: se esce Dzeko entra Correa, se esce D’Ambrosio entra Dimarco (poi sostituito a sua volta negli ultimi minuti dei supplementari da Bastoni), se esce Darmian entra Dumfries, se esce Calhanoglu entra Vidal, se esce Lautaro entra Sanchez. La specularità di caratteristiche tecniche tra fuoriusciti e subentranti mette quasi i brividi, sono cambi che raccontano di una rosa ben pensata in cui praticamente ogni calciatore in campo ha il suo “doppio” in panchina. Una squadra costruita con un criterio, con un senso. Una squadra seria e solida, che deve i suoi bassi – e il suicidio in campionato, perché di questo si è trattato – alla propria anima pazza e inaffidabile, non certo a questioni tecniche o tattiche.

Guardiamo invece ai cambi effettuati dalla Juve: quando si infortuna Danilo, Allegri è costretto a mettere Morata, stravolgendo l’impianto della squadra e relegando Cuadrado a fare il terzino destro, alternative del resto non ce ne sono. Poi esce Bernardeschi per il subentrante Bonucci, e ancora una volta cambia tutta l’impostazione. E la sostituzione Arthur-Chiellini? Cos’altro ci racconta se non le difficoltà dei bianconeri nel trovare un nuovo leader difensivo nonché la schizofrenia del mercato paraticiano dello scorso anno, che portò a Vinovo il misterioso brasiliano al posto di Pjanic (in un affare per giunta da 70 milioni). Per non parlare di quando al 100esimo minuto uno spompato Dybala lascia il posto a Moise Kean, di cui scrivevamo anni fa che “la Juventus aveva fatto bene a disfarsi”, e invece ricomprato (anche abbastanza a peso d’oro) per sostituire in extremis Cristiano Ronaldo (sic!).

Kean al posto di Dybala rappresenta – simbolicamente ma anche concretamente – la resa della Juventus.

Errori figli di errori partoriti dalla presidenza bianconera, che da quel famigerato 2019 non ne ha azzeccata una: innanzitutto decidendo di cambiare stile di gioco e disfacendosi del tecnico che l’aveva portata a vincere cinque scudetti consecutivi – e a raggiungere due finali di Champions –, e procedendo invece a una rivoluzione abortita, mancata e vigliacca all’insegna del “bel calcio”, prima di Sarri e poi di Pirlo, ma senza il coraggio di portarla fino in fondo. Mossa poi pagata a caro prezzo e rinnegata, quando nella consapevolezza che le rivoluzioni non si fanno a Torino la dirigenza è tornata a Canossa da Allegri. Ma poi ancora peggio la Juventus ha fatto nella costruzione della rosa, con una gestione scellerata del mercato trasferimenti – tecnica ed economica insieme – e campagne acquisti perennemente confuse e prive di un criterio e di una direzione (e teniamo fuori da questo discorso l’operazione Cristiano Ronaldo, su cui ci può essere ancora discussione).

Così si arriva alla finale di ieri sera, ma a dire la verità si arriva a tutti gli incontri disputati finora tra la Juve e l’Inter nonché tra la Juve e le altre big d’Italia e d’Europa. Partite magari anche giocate discretamente dai bianconeri, perse o pareggiate in apparenza per via dei famosi “episodi” (arbitrali e non), in realtà rivelatori di differenze sostanziali nelle costruzioni della rosa, nelle convinzioni espresse in campo, nei valori tecnici dei calciatori. Inter e Juventus sono, ad oggi, due squadre dal peso specifico diverso. Costruite in modo diverso: una meglio, l’altra peggio; una con un senso evidente e riconoscibile, l’altra davvero difficile da inquadrare e maneggiare, persa in equivoci tecnici, tattici, caratteriali, generazionali.

Ieri allora l’Inter non ha disputato la sua miglior prestazione stagionale, eppure è sembrata sempre la favorita per la vittoria finale. E ciò non dipende semplicemente dal “gioco” o dagli “interpreti”, ma da come queste cose si saldano insieme nel progetto, nell’assemblaggio della rosa, nella convinzione di alcuni singoli e della squadra in generale. Perché alcune partite si possono vincere per fortuna o grazie a episodi, ma con i titoli solitamente non succede mai. Se non ci credete, chiedete a Marotta.  

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