Ho appena fatto il check in e, attraversando I labirintici corridoi di questo ostello di Melbourne, cerco le aree comuni. L’animo del backpacker in queste situazioni è come una bambola di pezza, tirata per le braccia da due bambine litigiose. Da una parte la voglia di socializzare, dall’altra, specie dopo i 30 anni, la paura di risultare ridicoli o disperati, che è sempre la paura del rifiuto. Da un tavolo vicino alla tv ascolto provenire suoni castigliani e drizzo le orecchie.
Noto, dietro al braccio del ragazzo che sta parlando, un tatuaggio. È una figura stilizzata dai bordi neri, una silhouette che sono certo di aver già visto ma che non riesco a ricordare. Il numero 23 campeggia al centro. Mi faccio coraggio ed un po’ per fare amicizia, un po’ per sana curiosità, mi siedo vicino a lui ed iniziamo a parlare. Dopo i classici primi convenevoli gli chiedo finalmente del tatuaggio.
“Il 23? Il Dibu!” mi fa, mentre spalanca un sorriso da festa di compleanno.
Ma certo, il “Dibu” Martinez penso, avrei dovuto arrivarci non appena mi aveva detto di essere argentino. Un ragazzo francese seduto di fronte a noi, a sentire quel nome, si accartoccia in una strana smorfia, come fosse un neonato che ha leccato un limone per la prima volta. Si ride e si scherza, e mi sento più vicino a casa. Da poco si è svolta la premiazione del pallone d’oro in cui l’argentino ha vinto il premio Jascin sotto una grandinata di fischi del pubblico transalpino, così continuiamo a parlare ancora un po’ del portiere.
Mi spiega di cosa significhi per lui quella figura, la sua teatralità. Uno sberleffo in faccia ai potenti, la rappresentazione antropomorfa di quei sentimenti di riscatto e rivalsa tipicamente argentini. Poi mi racconta di cosa significhi proprio il soprannome “Dibu”, la genealogia dell’ennesimo apodo sudamericano, che è già romanticismo di per sé.
Mi spiega che in Argentina alla fine degli anni ’90 era spopolata una serie tv chiamata “Mi familia es un dibujo“ (La mia famiglia è un disegno) dove tutto ruotava attorno alle avventure di questa famiglia a cui era nato un figlio con le sembianze di un cartone animato, “Dibu” per l’appunto. Sembra che il giovane Emiliano Martinez, una volta approdato nelle giovanili dell Independiente, gli somigliasse particolarmente. Qualcuno deve averlo notato e chiamato così per la prima volta: il resto è storia.
Per me però Martinez ha iniziato ad avere un nome ed un volto, ma soprattutto una bocca, in quelle calde nottate di coppa America del 2021, aspettando sognante che l’Italia diventasse campione d’Europa. «Te como hermano» (‘ti mangio fratello’). «Te ries pero esta nervioso. Ja te conozco» (‘ridi ma sei nervoso, già ti conosco’). Ed ancora un bel “ti mangio” mentre il giocatore colombiano sta prendendo la rincorsa.
Emiliano Martinez carica sulla gamba d’appoggio e si lancia come una fionda alla sua sinistra, respingendo il rigore calciato da Yerry Mina, difensore colombiano con corpo da Frankstein, spesso sopra le righe, arrivato questa estate a Firenze e poi finito su “Chi l’ha visto”. Mina guarda per un istante la scena e si mette la mano tra i capelli, e stavolta non balla. È si perché nel turno precedente, contro l’Uruguay, il colombiano aveva segnato il suo rigore portandosi il pollice alla bocca a mo’ di ciuccio, ed esibendosi in un antipatico balletto che a molti non doveva essere andato giù.
Viene inquadrato Messi in lontananza che urla “adesso non balli più eh?”. L’evil Messi, quello cattivo che imbruttisce van Gaal, è nato quella sera.
È solo il terzo rigore della semifinale di coppa America tra Argentina e Colombia, eppure il risultato sembra oramai scontato, e così sarà. Dopo aver parato il rigore Martinez compie un gesto eloquente con il corpo, rimette al suo posto le cose, sodomizza il prendersi gioco degli altri; nello sport dove questo, sia nel bene che nel male, è considerato come peccato mortale da girone Dantesco, tra il conte Ugolino e l’abisso più profondo.
Martinez non balla, bada al sodo. Martinez leader senza fronzoli venuto dal nulla. Anni di anonimato in Inghilterra tra prima e seconda serie. Portiere nomade spedito dall’Arsenal come un pacco qualunque di brochure del supermercato per nove anni, dal 2010 al 2019, sempre in prestito senza mai credere in lui. Poi il turning point. Per una serie di eventi si ritrova titolare sempre con l’Arsenal con la quale vince la FA cup 2020 da protagonista; da cuore caldo latino piange al momento dell’intervista a bordocampo, ripensando a quanto era stato difficile imporsi, ai sacrifici fatti, ai pregiudizi.
Poi finalmente, sempre nel 2020, viene venduto a titolo definitivo all’Aston Villa dove si afferma per l’ottimo portiere che è – basta vedere la stagione in corso, nella quale la squadra di Birmingham sta volando anche grazie al suo arquero (chiedere a Haaland per credere, che ieri è stato neutralizzato dal Dibu nell’1-0 dei Villans contro i Cityzens). Un punto di riferimento, un leader senza fascia, la perfetta conclusione della storia? Forse. Perché c’è una frase che abbiamo sentito mille volte da“ Il cavaliere oscuro” di Nolan, e fino ad adesso non mi ero mai fermato a lungo a pensarci. “O muori da eroe o vivi così a lungo da diventare il cattivo”.
Ed è questo che per molti, non solo suoi avversari, è un po’ diventato il Dibu Martinez.
Il trash talking esiste da sempre nello sport, si può non condividere ma esiste, e ci sono giocatori capaci di ricamarci carriere sopra; eppure la linea tra provocazione e derisione è spesso labile, basti pensare al caso generato recentemente da Soteldo in Santos-Vasco da Gama, il quale salendo con i due piedi sulla palla, come a prendersi gioco degli avversari, ha provocato una rissa conclusa con tre espulsi – tra cui la nostra ‘vecchia’ (e non certo tranquilla) conoscenza Gary Medel.
Allora cosa pensare di quell’Emiliano Martinez che a tanti, comprensibilmente, proprio non va giù? Quello ad esempio che zompetta al secondo rigore della partita contro l’Olanda nell’ultima coppa del mondo, dopo aver neutralizzato il tiro di Berghuis: balletto che, forse non solo a me, ha ricordato quello fatto proprio da Yerry Mina qualche anno prima – e dato che poi la fortuna gira, l’Argentina ha rischiato di perderla quella sfida ai rigori.
Cosa pensare di quello stucchevole movimento delle spalle esibito in finale dopo il rigore calciato fuori da Tchouameni, un ragazzo che a soli 22 anni si era caricato di forza la Francia portandola in finale? Il suo penalty finisce di poco alla destra del palo e Martinez esulta in modo francamente antipatico, neanche l’avesse parata lui quella palla. E ancora cosa pensare del Dibu sul bus a tetto aperto che, durante la sfilata argentina, porta in braccio un bambolotto con la faccia di Mbappe a mo’ di scherno? – proprio quel Mpabbé, l’unico calciatore oltre a Geoff Hurst capace di segnare una tripletta in una finale mondiale. Pararne uno a lui Emiliano no eh?
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Da eroe a cattivo il passo è spesso breve, ma proprio quando il portiere argentino sembrava aver fatto tutto il giro arriva il 22 novembre e si gioca Brasile contro Argentina, gara qualificazione al mondiale del 2026. Al Maracana, e dove sennò, va in scena un match che è già storia, e non tanto per il risultato sportivo che vede la “scaloneta “ vincere per uno a zero, quanto per ciò che succede prima della partita. Il clima è teso, forse nell’aria ci sono ancora gli strascichi dell’ultima Libertadores. La polizia brasiliana caricaall’interno dello stadio con eccessiva leggerezza, specialmente nel settore dedicato ai tifosi argentini.
I video che si trovano in rete sono brutali, e la cronaca già racconta di due persone con evidenti ferite caricate sulle barelle e trasportate in ospedale. In mezzo a questo delirio la “Seleccion” decide di andare sotto al settore ospite per provare a ricomporre la situazione, invitando la polizia alla calma. E cosa deve essere passato per la testa di Martinez, in quegli istanti, quando decide di arrampicarsi sulla balaustra per fermare la mano manganellatrice del poliziotto brasiliano?
“Che stai facendo? Che stai facendo?!” gli grida in uno stato di trance, mentre i compagni a fatica tentano di trascinarlo via.
Con quella maglia rossa, l’unico in mezzo a tutte le altre biancocelesti, sembra ancora più grande. Lo studente ripetente che prende per il colletto il bullo della scuola che vuole i tuoi soldi della merenda. E come fai a non volergli bene ad uno così?
Ma allora, qual è il vero Emiliano Martinez? Quello osceno che si porta il guanto d’oro appena vinto a mo’ di fallo, che nemmeno gli adolescenti in crisi puberale? O l’uomo fatto e finito che si erge a parafulmine di un intero popolo? Il professionista che parla un inglese invidiabile? Il brutto anatroccolo che a forza di parate è diventato principe? La verità è che probabilmente non esiste risposta, o almeno non una sola. Come diceva Dostoevskij l’uomo non può mai essere solo qualcuno o qualcosa, buono o cattivo, così come la realtà non è unicamente bianca o nera.
E ciò è ancor più vero per uno come il Dibu Martinez.
In questa società così tendente al piattume allora, a quello che una volta si definiva con un’etichetta sbrigativa ‘politicamente corretto’ ma che ormai è diventato una censura preventiva del gesto, del linguaggio, del pensiero, ben venga il Dibu Martinez con le sue molteplici facce, almeno avremo qualcosa di cui parlare. Le personalità divisive stimolano, creano frizioni, inducono al confronto che è cardine di ogni esistenza. O lo ami o lo odi, si dice in questi casi, ed è bello così. Ma in fondo a volte cosa mai è l’odio, catullianamente, se non parte integrante dell’amore?