Ritratti
23 Ottobre 2022

Domenico Luzzara, il presidente-ultras

L'uomo che ha amato e reso grande la Cremonese.

Nonostante gli amici gli abbiano sconsigliato di recarsi allo stadio in quella domenica invernale padana, il presidente grigiorosso non riesce a starsene lontano dallo Zini. Infatti, seppur reduce da una crisi cardiaca della settimana precedente, che seguiva l’intervento di pochi mesi prima, il vecchio dirigente segue dagli spalti un combattuto match contro la Juventus, in cui i suoi vanno pure in vantaggio col momentaneo 3-2 di Tentoni. E in effetti sono troppe le emozioni per il cuore di un Domenico Luzzara che alla fine di quella gara, il cui risultato di parità si fisserà solo nel recupero, verrà ricoverato presso l’unità coronarica dell’ospedale Maggiore. Insomma, non si rassegna ancora l’anziano presidente, in quel gennaio 1996, a rinunciare di partecipare alla festa della Serie A, che sia in casa o in giro per l’Italia, così come la sua Cremonese, ormai impantanata nella zona retrocessione, non rinuncia a vendere cara la pelle ai prossimi vincitori della Champions League.

“Io, quando giochiamo fuoricasa, salgo ancora sul pulmino con gli amici: abbiamo le provviste e quando siamo sul ponte del Po mangiamo un uovo sodo per scaramanzia. E se la destinazione è in un’altra direzione, ugualmente facciamo il giro per passare sul ponte del Po: e poi, se posso, mi vado a vedere la partita tra la gente. Io ho dato tanto al calcio ma il calcio ha dato tanto a me”.

Una passione, tinta di grigiorosso, che dopo quasi trent’anni di presidenza non è ancora scalfita dal passare delle stagioni, corse via come l’acqua del grande fiume che scorre alle porte della città separandola dal territorio emiliano. Difficile d’altronde per Mènech disunirsi dalla propria creatura dopo averle dato vita grazie a un impegno di lunga lena, di stampo artigianale, quasi come nello stile dei liutai, artefici nei secoli della notorietà mondiale di quel capoluogo di provincia.

Del resto, in una trasposizione sportiva e novecentesca della sapienza artigiana dello Stradivari, era toccato proprio a Luzzara inserire sulla mappa una Cremona prima immersa nell’anonimato del calcio professionistico, accendendo i fari tra la nebbia della pianura padana e quel grigio, tipico del Po, descritto da Cesare Zavattini.

luzzara cremonese
Luzzara in curva, insieme alla sua gente

Riflettori che allo stadio Giovanni Zini si accendevano letteralmente con i lavori per il sistema di illuminazione, realizzato dall’azienda di impianti elettrici di colui che sarebbe diventato il timoniere del club grigiorosso, per un incrocio del destino. Infatti, nel 1967, con il mancato incasso della cifra per il servizio svolto, dovuto a una società sull’orlo del fallimento, il ragionier Domenico prendeva in mano le sorti dell’Unione Sportiva Cremonese, per cercare in qualche modo di rimediare a una spesa non rimborsabile, pur “non capendo niente” di pallone (come avrebbe ripetuto negli anni).

Un’operazione incentivata dal figlio Attilio, il più accanito tifoso di quei colori all’interno della famiglia Luzzara, la cui prematura scomparsa in un incidente stradale avrebbe lasciato al padre il senso della sua avventura nel mondo del calcio.

“Per me questa è diventata una missione. La Cremonese è stata l’anello di congiunzione con mio figlio Tete in cielo. Tutto quello che ho fatto è stato per lui”.

Allora, la tutt’altro che esaltante cornice della Serie D, in cui si trovano i grigiorossi nel 1970, diventa il punto di partenza per tessere una trama attraversata da un filo diretto col figlio, e per fare del club un’isola felice in cui rifugiarsi. Un progetto la cui bontà convince Aristide Guarneri, colonna difensiva della Grande Inter, che scende in quarta divisione pur di disputare gli ultimi anni di carriera a casa e con la fascia da capitano al braccio. Nella pronta risalita in C, agli ordini del mister Titta Rota, il contributo del veterano stopper rappresenta, tuttavia, una prestigiosa eccezione della gestione Luzzara. In effetti, la strategia societaria sarà quella di puntare poco su nomi altisonanti, facendo invece del vivaio la linfa vitale che permetterà alla società di sopravvivere, crescere e rigenerarsi nei successivi tre decenni.

luzzara tognazzi
Luzzara insieme a Ugo Tognazzi, suo grande amico

Un settore giovanile che può sfoggiare un fiore all’occhiello come Antonio Cabrini, nato e cresciuto in una cascina della campagna cremonese e lanciato tra gli adulti appena sedicenne, prima del corteggiamento di Atalanta e Juventus, in un percorso analogo poi compiuto anche da Cesare Prandelli, un altro allievo pescato dalla Bassa Bresciana.

Oltre alla passione, a Menico non manca quindi il fiuto per la scoperta di talenti. Una vocazione, quest’ultima, già sperimentata in gioventù frequentando l’avanspettacolo e scovando un attore, suo coscritto e concittadino, di nome Ugo Tognazzi e diventandone il suo primo impresario nel debutto al Teatro Ponchielli. Anche il naso per gli affari, necessario per resistere nel fútbol, risale agli anni della guerra, dalle parti della stazione di Orte l’indomani dell’8 settembre 1943, con l’acquisto di quindici muli rivenduti nelle campagne circostanti, guadagnando più di dieci volte tanto, per poi salire su un treno verso casa.

“Forse siamo stati i primi di una lunga serie, ma ci siamo riusciti perché mai abbiamo fatto il passo più lungo della gamba, perché abbiamo sempre speso i soldi secondo la logica contadina che mi ha sempre guidato”.

Il primo affare nel calcio, invece, riguarda Emiliano Mondonico, con la cessione al Torino nel 1968. Un personaggio chiave, il Mondo, che rientra in quell’intreccio di amicizie tanto care a Luzzara e che compie un viaggio inverso rispetto alle nuove leve, rigettato in fretta dai grandi palcoscenici a causa delle sue intemperanze giovanili. Con un contributo sul campo, negli anni Settanta, quel secondo figlio si laurea il miglior marcatore della storia grigiorossa e, cosa ancor più importante, con l’aiuto di Menico scopre la sua vocazione di allenatore, o meglio di educatore, lontano da una mera trasmissione di nozioni tattiche ai polli d’allevamento. Infatti, consapevole della sua maturazione, il presidente gli affida le chiavi del vivaio.



Qui c’è l’incontro con un quattordicenne Gianluca Vialli, un diamante grezzo che nel giro di soli due anni debutta tra i grandi con mister Vincenzi, in concomitanza con la promozione in cadetteria. Una reunion, quella tra Mondonico e Vialli, che si concretizza nel 1982 con l’arrivo del giovane allenatore a 7 giornate dalla fine, il quale guida i grigiorossi a una salvezza miracolosa, frutto di 5 vittorie e 2 pareggi, preannunciando il via all’età dell’oro del club.

Infatti, bastano un paio di stagioni per vedere la Cremo conquistare la Serie A, 54 anni dopo l’ultima partecipazione, con Gianluca capocannoniere della squadra. Troppo forte, Stradivialli (cit. Gianni Brera), per restare in provincia e quindi, a malincuore, Luzzara lo vende alla Sampdoria, ottenendo in cambio Alviero Chiorri. Un archetipo del talento inespresso che allo Zini troverà un suo luogo d’elezione, restandoci per il resto della carriera e ammaliando il pubblico col suo mancino.

“Un ambiente che porterà certamente, nel panorama di una Serie A ormai intossicata dall’iperprofessionismo e dal divismo, il contributo insostituibile, a nostro avviso, di umanità e di genuinità comportamentale, che probabilmente possiamo ormai attenderci solo dalla provincia più evoluta e intelligente”.

Sandro Ciotti, Tutto il calcio minuto per minuto, 3 giugno 1984

Nonostante quel ritorno in A sia solo una breve apparizione, il mister non viene mai messo in discussione dal presidente, che anzi gli rinnova la fiducia a stagione in corso. D’altronde sono due fiumi che s’incontrano, Mondo e Menico, come l’Adda che va a confluire nel Po, i rispettivi posti del cuore appunto. Allora tenendo fede alla loro infanzia, passata nelle osterie delle rispettive famiglie, e al loro modo di vivere il calcio come mezzo di condivisione, l’annata si chiude con una cena in trattoria, sfociando in un brindisi tra amici per festeggiare il trascorrere di un’altra stagione e programmare la successiva. Poi verrà il tempo di salutarsi, con Mondonico e Luzzara attesi da nuove sfide, affrontate sempre restando se stessi e con i piedi ben piantati a terra.



In ogni caso la Cremonese è una società ormai solida, dato che il presidente è affiancato dal vice Giuseppe Miglioli, a cui si aggiunge il direttore sportivo Erminio Favalli, uno nato a due passi dallo stadio e rientrato in città dopo aver trovato in Palermo la sua seconda casa. Più che colleghi di lavoro, un amico e un altro figlio con cui parlare in dialetto anche in occasioni formali, come davanti a un giocatore che chiede un rinnovo di contratto.

Del resto, è difficile resistere al richiamo di Mènech, mai arrabbiato di fronte alle ingiustizie della vita e sempre col sorriso unito a quello sguardo affabile, lievemente nascosto dalle lenti sfumate dei suoi occhiali. Tant’è vero che anche Ugo Tognazzi, sodale di vecchia data, quando può non perde occasione per tornare nella natia Cremona a trovare Luzzara e tifare per i grigiorossi, perché se “il Milan è la moglie, la Cremonese è l’amante”.

Intanto, i ragazzi del vivaio crescono, mentre la prima squadra può contare su giovani acquisti mirati, come il portiere Michelangelo Rampulla e l’ala destra Attilio Lombardo, che finiranno rispettivamente a Juve e Samp, per poi ritrovarsi nella rosa bianconera campione d’Europa nel decennio successivo. Con una gestione familiare, pane e salame, in cui i giocatori trovano in “Luzzara il papà, Miglioli lo zio, Erminio Favalli il cugino” (cit. Rampulla), la Cremonese torna nella massima serie nel 1989 sotto la guida di mister Mazzia, con una difesa presidiata da Mario Montorfano e Gigi Gualco. Due bandiere di quella grande famiglia, questi ultimi, con il primo destinato ad allenare giovanili e prima squadra, mentre il secondo a essere nominato presidente al termine dell’avventura di Menico.

“Per una società come la nostra non ci sono vie di scampo, tutto dipende dalla capacità di allevare giovani calciatori e poi venderli per dare saldezza al bilancio. Non sono un mecenate, non potrei esserlo […] Certo, per noi i giovani sono un patrimonio, ma è un vanto sapere che le famiglie sono contente di mandare i loro ragazzi a giocare per la Cremonese”.

Poco importa che a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta i grigiorossi svolgano il ruolo di squadra ascensore tra A e B, visto che allo stadio di via Persico si può comunque ammirare l’attaccante argentino Gustavo Dezotti, in tandem con Chiorri, castigare un Milan campione d’Europa oppure segnare una doppietta a San Siro contro l’Inter. Ciò che conta davvero, però, è che dal vivaio arrivi nuova linfa, costituita dai debuttanti Favalli (Giuseppe), Marcolin e Bonomi, i quali dopo essersi affermati finiscono alla Lazio per 15 miliardi di lire, nell’estate 1992. Un’operazione resa possibile anche dalla galanteria di Paolo Mantovani, che rinuncia a rendere Favalli un blucerchiato per consentire a Luzzara di concludere l’affare coi biancocelesti, disposti a comprare le tre promesse in blocco.

In un contesto in cui, a prescindere dal risultato, a fine stagione si brinda senza rimpianti al lavoro svolto con i propri mezzi, il presidente chiede a Gigi Simoni la semplice permanenza in cadetteria, ignaro che per la Cremo il meglio debba ancora venire. Una scelta audace quella di optare per un allenatore già dato per bollito dalla critica, che invece si rivelerà un altro uomo del destino della storia grigiorossa.

Infatti, con un mercato di basso profilo, pescando giocatori dalla C come Andrea Tentoni e Ciccio Colonnese, e con un gioco semplice da far storcere il naso alla nouvelle vague sacchiana, la Cremonese macina gol trascinata proprio dalla rivelazione Tentoni, accompagnato da Dezotti e Florijancic. Si viaggia così un’altra volta verso la massima serie, togliendosi pure lo sfizio di vincere la Coppa Anglo-Italiana nel tempio di Wembley, contro il Derby County, regalando a Menico il momento più bello dei suoi decenni di presidenza.

“Per l’ultimo consiglio, quello dei complimenti e delle delibere di fine stagione, del voto al bilancio e dei denari da investire per fare la squadra che giocherà in A, il presidente Luzzara ha dato appuntamento per le 21, in cascina. Con l’ordine del giorno c’era anche il menù: affettati misti, pasta e fagioli fredda, verdure e carni alla griglia, dolce, frutta, caffè, liquori e naturalmente vino a piacere. Che l’anno si chiuda con una promozione in A o una retrocessione, all’ombra delle bandiere grigiorosse, usa così”.

Gianni Piva, la Repubblica, 11 giugno 1993

Un ritorno tra i grandi tutto da gustare, lungo un triennio aureo in cui capitan Verdelli e compagni, anzi fratelli, conquistano due salvezze consecutive grazie a un gruppo solido, frutto di quella cara filosofia contadina, in cui diversi giocatori sono nativi di Cremona o delle province limitrofe, come il portiere Turci e i centrocampisti Maspero e Giandebiaggi. Una formazione capace di battere (un’altra volta) un Milan campione d’Europa in carica sul prato dello Zini, dalle cui parti transita anche Enrico Chiesa, enormemente valorizzato dalla sua unica stagione all’ombra del Torrazzo. Il presidente, quindi, si gode ancora la sua creatura che sopravvive in mezzo alle superpotenze di un calcio sempre più diverso rispetto ai tempi del suo insediamento.

Tuttavia, la fine della festa si presenta in maniera inesorabile, nonostante il vecchio Menico si riprenda dalle crisi cardiache di quel 1996. Del resto, alle soglie del nuovo millennio il mondo è troppo cambiato per resistere e alla retrocessione in B segue una discesa ripida fino alla C2, in uno scenario in cui lo stadio di via Persico diventa un ritrovo per pochi intimi, facendo sentire l’anziano presidente abbandonato dalla città.

“L’epoca dei miracoli, purtroppo, è finita”, ma ciò che ferisce maggiormente è la deriva mercantilistica presa dal calcio professionistico in ogni suo aspetto, a partire dalle spese esorbitanti tutt’altro che sostenibili per una piccola realtà. Inoltre, Luzzara deve pure fare i conti con una mutazione antropologica dei presidenti delle altre società. Non più amici e compagni di viaggio con cui condividere la stessa passione, ma alfieri di un nuovo business di fronte ai quali risultare ormai come un oggetto d’antiquariato.

“Con Boniperti e Mantovani, bastava una stretta di mano: oggi per un contratto ci vogliono dieci avvocati. […] In Lega a volte ho provato a parlare, ma i miei colleghi presidenti neanche mi ascoltavano. Sei una moneta fuori corso, mi diceva scherzando qualcuno. E allora è tempo che la moneta fuori corso si faccia da parte”.

Uscito di scena nel 2002, dopo un triennio ormai buio in cui la cessione del club sfuma varie volte all’ultimo, Menico trascorre il periodo finale della sua vita dimenticato da quel mondo a cui tanto aveva dato. Difatti, come confessato dalla bandiera grigiorossa Montorfano al Foglio Sportivo: “Un po’ è stato abbandonato anche da noi, mi fa male ammetterlo”. Insomma, una beffa per chi ha vissuto il calcio come mezzo di aggregazione e condivisione.

Allora, forse, può almeno confortare che l’esempio di Luzzara non sia stato buttato del tutto via se, proprio nel centenario della sua nascita, la Cremonese torna tra i grandi, grazie a una squadra costruita senza nomi a effetto e valorizzando giovani parcheggiati in prestito dalle grandi piazze. In fin dei conti, costringere di nuovo i grandi del fútbol nostrano a rimettere i piedi allo Zini, dove ora la tribuna centrale è intitolata al leggendario presidente e la Curva Sud al fedele amico Erminio Favalli, sembra un buon modo per ricordare chi allevò la sua creatura nella quiete della provincia. Là dove, tra il Po e la nebbia, da padre e mai padrone, Domenico Luzzara trovava nel calcio un antidoto per riempire giorni altrimenti destinati al dolore e all’oblio.

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