Poca teoria, tutto pragmatismo. Poco io, molto noi.
Mentre dagli spalti del San Paolo risuona il coro “Ottavio, Ottavio, Ottavio”, il volto glaciale del mister bresciano non tradisce alcuna emozione. Solo molto tempo dopo Bianchi confesserà che quello rappresenta il momento “più commovente” della sua vita calcistica. Infatti, nell’amara domenica in cui lo scudetto è scucito dalle maglie azzurre per finire su quelle del Milan, il popolo napoletano rende omaggio all’uomo solo al comando di una nave in tempesta, sfogando la propria delusione contro quella parte di spogliatoio responsabile dell’ammutinamento.
E pensare che dopo il comunicato contenente parole quali “rapporto mai esistito con l’allenatore” e conseguente epurazione dei responsabili (Garella, Bagni, Giordano e Ferrario) il mister si aspettava una contestazione rivolta proprio a lui. Un timore che evapora non appena la tifoseria partenopea manifesta tutto l’affetto e la gratitudine per colui che tre anni prima ritornava a Napoli, forte di cinque stagioni da giocatore sul groppone, per indicare, o meglio imporre, la via per raggiungere il traguardo.
TRA PESAOLA E NEREO ROCCO
Consapevole di vizi e virtù di una città unica, il mister accetta l’incarico, nell’estate 1985, solo dopo aver fugato i dubbi iniziali. D’accordo che l’offerta seducente presentatagli dal direttore generale Italo Allodi significa allenare Diego Armando Maradona, ma per il pragmatico Ottavio, da buon lombardo orientale, non è abbastanza per sentire le farfalle nello stomaco. A maggior ragione considerando la sua esperienza da calciatore al San Paolo dove, pur con compagni di squadra come Sivori, Altafini e Zoff, non erano arrivati i risultati sognati. Dove bastava un successo contro una grande del nord per vivere di rendita un’intera settimana e poi perdere puntualmente in trasferta sul campo di una provinciale. Insomma, Bianchi sa che per cambiare mentalità all’ambiente serve una “terapia d’urto”, in cui la gestione della squadra dipenda solo da lui, dalla scelta di ritiri e allenamenti al rapporto diretto con i vertici societari, prendere o lasciare.
“Una sensazione di freddo e pulito, come se gli fosse nevicato dentro. Un feroce autocontrollo. Un costante rifiuto dei luoghi comuni. Mi sa che questo Bianchi, disponibile e arroccato, andrà molto lontano”.
Un’attitudine, quella di navigare controcorrente, sperimentata da Ottavio sin dalla giovinezza, con la rottura dei legamenti del ginocchio sinistro non ancora maggiorenne. Nonostante un faticoso recupero e un’ottima annata disputata in cadetteria con le Rondinelle, arretrato da trequartista a mediano, la tempra di Bianchi viene ulteriormente messa alla prova con il no alla proposta di contratto del Brescia.
Conscio del suo valore e della sofferenza patita, il ragazzo cresciuto nel quartiere di Borgo Trento ritiene l’offerta più adatta a un giocatore delle giovanili piuttosto che a uno del suo livello. Ecco allora che Ottavio diventa un figlio rinnegato dalla sua città natia, innescando un coro unanime a lui avverso che va dalle tribune del Rigamonti al municipio, passando per la stampa e il pulpito della chiesa. Solo per tranquillizzare i genitori e portare a casa uno stipendio Bianchi deciderà di firmare, dopo alcuni mesi da disobbediente, ma inizia a esser chiaro nell’ambiente che “il guaglione tiene la capa tosta”, come avrebbe detto pochi anni dopo il proprietario della sua nuova squadra, l’armatore Achille Lauro.
Un impatto traumatico, quello con Napoli e il suo bailamme, oltre che improvviso, dato che, dopo la bella figura da debuttante in Serie A, Ottavio aspettava una chiamata dall’Inter di Herrera. Tuttavia il ragazzo bresciano scopre in fretta che la città partenopea offre incontri preziosi, tra cui il mister Bruno Pesaola con la sua proverbiale verve di “napoletano nato all’estero”. Un personaggio chiave, il Petisso, nell’iter di formazione di Bianchi, il quale ammira la capacità del coach argentino di entrare in empatia coi giocatori, in base alle peculiarità tecniche e caratteriali di ognuno, insieme a un’ironia in grado di alleggerire situazioni pesanti con una battuta al momento giusto.
Il rapporto tra i due si rinsalderà una ventina d’anni dopo quando Ottavio, da allenatore degli azzurri, si concederà una volta alla settimana l’immancabile appuntamento con il vecchio savio argentino-napoletano. Un legame d’amicizia che trova un punto d’incontro grazie all’eccezione alla regola di entrambi. Se per il bresciano quello sarà l’unico momento di convivialità all’interno di un isolamento monacale, per l’argentino sarà una delle rare occasioni per cenare a orari serali ed emergere così dalle viscere notturne di una Napoli profonda, avvolto dal fumo delle sue sigarette.
Un maestro, Pesaola, da affiancare a un altro incrociato nel giro d’Italia di Bianchi, ovvero Nereo Rocco, che lo vuole fortemente al Milan seppur nel declino dell’attività agonistica. Autentico artigiano da vecchia scuola del futbol, il Paron lo conquista per le stesse qualità viste nel Petisso e se Ottavio non può far sue certe peculiarità caratteriali innate, conserva almeno quelle relative al modo di intendere il gioco e al trarre il massimo dagli uomini a disposizione, senza richieste capricciose al club o approcci dogmatici alla tattica.
LA GAVETTA E LA CHIAMATA DEL NAPOLI
Insegnamenti da mettere a frutto in una nuova carriera d’allenatore che inizia dalle retrovie del professionismo, con offerte di panchine scottanti e situazioni a tratti parossistiche anche a livello societario. Dalla C2 a Siena, con dirigenza dimissionaria e giocatori senza stipendio, passando per Mantova, Triestina e Atalanta, nel punto più basso della storia dei bergamaschi sprofondati in C1 e riportati da Bianchi in cadetteria. Unica richiesta salvare il salvabile e unica soluzione fare di necessità virtù, il tutto iniziando ogni avventura mettendosi a bordo campo per osservare i calciatori giocare. Azzerando, quindi, voci giunte alle proprie orecchie su presunte gerarchie o eventuali liste di uomini in partenza perché ai margini della squadra, prestando inoltre attenzione alle nuove leve del vivaio.
“Non ho mai avuto la possibilità di imporre acquisti alle società in cui ho lavorato. Mai potuto dire: si compra questo o quell’altro. Dovevo riuscire a valorizzare i calciatori che avevo. Il bello era costruire una buona squadra, possibilmente vincente, mettendo le persone al posto giusto”. [i]
Istruzioni per l’uso buone per la prova del fuoco di Avellino, dove subentra in corsa con gli irpini in zona retrocessione e il patron Sibilia agli arresti domiciliari, per agguantare una salvezza lanciando elementi prima trascurati come De Napoli e Ramon Diaz. Un risultato ottenuto malgrado un clima incandescente, esemplificato da un confronto con la frangia più radicale degli ultras che irrompe negli spogliatori. Qui il freddo Ottavio ne esce rafforzato, dopo aver minacciato di dimettersi e aver suggerito ai tifosi di trovarsi un altro allenatore, ma di fare in fretta “perché il tempo rimasto per salvarsi è poco”.
Una gavetta che prosegue nel più disteso ambiente lacustre caro al Manzoni, con una squadra che si merita l’appellativo di Como rivelazione. Contro i pronostici, la piccola neopromossa combatte, bloccando il gioco degli avversari con trucchi del mestiere quali fallo tattico (all’epoca non punito col cartellino giallo) e pressing, tanto da subire solo 2 gol casalinghi in tutto il campionato, un record a oggi imbattuto. Inoltre, tra le astuzie del mister, per far fronte ai terreni del gelido e nevoso gennaio padano del 1985, spuntano delle scarpe da calcetto, dotate di ventose per una maggiore aderenza e fatte arrivare apposta da Monaco di Baviera, dopo averle viste indossare in allenamento dal centrocampista tedesco Hansi Müller. Un’idea che frutta punti d’importanza capitale e una storica vittoria a San Siro, contro il Milan, per 2-0.
Forgiato dai campi di provincia, Bianchi riprende così il filo di una vita napoletana interrotta 14 anni prima per una querelle legata ai premi classifica, quando Ferlaino decideva di cedere il “sindacalista” all’Atalanta. Con pressioni e aspettative ben superiori a quelle provate da calciatore, la prima stagione scorre via tranquilla, ma quella che porta alla vittoria tanto agognata prevede l’attraversamento della burrasca. In un mix di eventi che va dallo scoppio del caso riguardante la nascita del primo figlio di Maradona, su cui converge l’occhio indiscreto dei gossippari di mezzo mondo, all’eliminazione dal primo turno di Coppa Uefa per mano del Tolosa, la cappa che avvolge l’allenatore si fa sempre più pesante.
Una parte della stampa chiede alla società la sua cacciata, cosicché il bresciano fiuta un sentore d’imminente preparazione dei bagagli. Le valigie, invece, le fanno moglie e figli rispediti a Bergamo (la sua nuova base dai tempi di giocatore nerazzurro) visto che, per salvarsi, Ottavio assolutizza quella costante separazione tra famiglia e lavoro in vigore per tutta la sua carriera. Lasciata la villa di Posillipo divenuta troppo spaziosa, la sua nuova residenza sarà un albergo di fronte a Castel dell’Ovo perché “se devo vivere in hotel, che almeno abbia la vista sul mare”.
Una solitudine e un feroce autocontrollo, per dirla con Gianni Mura, non scalfiti neanche il 10 maggio 1987, il giorno dello scudetto. Nell’euforia collettiva, inseguito da Giampiero Galeazzi al termine del match contro la Fiorentina, il mister esprime tiepidamente la propria soddisfazione dirigendosi in fretta negli spogliatoi. Il primo pensiero è chiamare a casa per avvisare e poi c’è da pensare ai turni finali di Coppa Italia. Altro che rilassamento del vincitore, dato che l’isolamento di Ottavio raggiungerà l’acme nell’annata in cui il Napoli avrà tricolore e coccarda cuciti sulla maglia.
Proprio sul più bello, a un passo dal secondo titolo consecutivo e con una squadra resa ancora più forte dall’innesto di Careca, la nave inizia a fare acqua anche per lo scoccare della corsa al rinnovo. Una falla ampliata dalla firma del contratto di Maradona in diretta tv, nonostante l’invito dell’allenatore alla società di rimandare il discorso, per tutti, a scudetto acquisito. Cornuto e mazziato, Bianchi verrà anche additato come responsabile della disparità di trattamento da una parte dello spogliatoio, fino ad arrivare, appunto, al comunicato sopracitato.
Superata la tempesta, con il supporto della tifoseria e affamato di rivalsa, il mister si gode la sua ultima e nel contempo “più bella stagione in assoluto” alla guida degli azzurri, culminata con la conquista del primo trofeo continentale nella storia del club. Una cavalcata, quella in Coppa Uefa, impreziosita da un leggendario quarto di finale contro la Juventus, con il 3-0 di Fuorigrotta che ribalta il doppio svantaggio dell’andata. Partita iconica di un’intera epoca ormai agli sgoccioli, per l’allenatore e per Napoli tutta.
Il tempo restante vale per gustarsi ancora Maradona da vicino, come nel riscaldamento dell’Olympiastadion di Monaco che precede la semifinale col Bayern (quello sulle note di Live is Life) o negli assist a Ferrara e Careca nell’atto conclusivo di Stoccarda. Può bastare così per un Ottavio desideroso di cambiare aria, consapevole che il Diego di cui è rimasto estasiato infinite volte, ormai, è sempre meno afferrabile. Appurato che le loro vite vanno in direzioni opposte, un Bianchi impotente al riguardo non vuole rimanere ad “assistere allo scempio”, come ricorderà nell’intervista al Messaggero a un anno dalla morte di Maradona.
ALLENARE MARADONA
Un’esperienza, allenare il Pibe de Oro, custodita gelosamente nella memoria di Ottavio, nella quale a livello pubblico prevale il non detto sulle parole. In ogni caso, anche dopo l’ascesa di Diego a Mano di Dio, il mister ha sempre cercato di essere franco con lui, affrontandolo anche a muso duro e tentando, per quanto possibile, di comportarsi come un padre con il proprio figlio. Un approccio agnostico e tutto terreno che non svilisce l’affetto provato da Bianchi per il Maradona uomo e calciatore, anzi. Dalla sua visuale privilegiata, il mister si è goduto in ogni allenamento la versione più pura di Diego, espressa dalla sua gioia infantile per il gioco, e a tal proposito smentisce la vulgata secondo cui l’argentino si allenasse poco lasciando fare solo al talento. Nulla di più falso per Bianchi, dato che “più uno è un asso più lavora, come i grandi musicisti”.
“Dicevano che Diego si allenasse poco e male: frottole. Semmai il contrario. Non voleva uscire mai dal campo, si divertiva troppo. E pur di non tornare negli spogliatoi, si metteva in porta a parare. Anche se pioveva a dirotto e c’era tutto fango, anzi meglio, si tuffava con più gioia: me lo voglio ricordare così, allegro, che si rotola nelle pozzanghere mentre è quasi buio, e ride felice con la sua palla, almeno lì lontano dalle pressioni mostruose che aveva. Il mio povero Diego”.
Via da Napoli e da Diego, sarà lo stesso Ottavio anche nel crepuscolo di carriera, sempre alla ricerca di un equilibrio in mezzo agli scossoni societari, quale ideale chiusura di un cerchio aperto decenni prima. Vedi il biennio romanista nel pieno del passaggio dalla presidenza Viola a Ciarrapico, o all’Inter con l’avvicendamento tra Pellegrini e Moratti, per chiudere con una parentesi fiorentina tra panchina e scrivania in un club ormai in liquidazione, a proposito di scenari bollenti. Nel mezzo un altro ritorno a Napoli con il primigenio compito di salvare il salvabile, anche qui dividendosi tra campo e ufficio. Un ritorno fra i tanti, quello sotto il Vesuvio, in cui Ottavio verrà spesso accolto anche una volta conclusa la propria epopea silenziosa.
In pace col mondo, dal suo buen retiro di Bergamo Alta, Bianchi osserva il calcio di oggi con la placidità del monaco e la saggezza popolare degli anziani in certi bar di provincia. Non si affanna se, a differenza di altri allenatori della sua epoca, non è insignito del titolo di venerato maestro o se viene ricordato soprattutto per il suo lato da sergente di ferro. Sorride sul lessico aggiornato del futbol, in cui si chiama ripartenza un contropiede o scarico un passaggio all’indietro, e per prevenire l’irritazione data dai “tecnicismi dialettici” concede all’audio delle partite solo pochi minuti.
Del resto, per uno cresciuto giocando partitelle all’oratorio, in cui affluivano anche gli operai in uscita dalle fabbriche per il pranzo, e che ha allenato Maradona, risulta davvero difficile non seguire con una prospettiva disincantata un calcio lanciato alla massima velocità verso il futuro. Si emoziona ancora però, l’Ottavio, quando pensa a Diego e agli incontri che Napoli gli ha regalato: dalle persone divenute amici di una vita a quelle dietro le luci dei riflettori, che lo hanno accompagnato nella sua avventura umana prima ancora che professionale. La città partenopea, quello sì un posto dove qualcuno osa persino chiamarlo Maestro.
“Dai napoletani ho imparato tanto. Forse il dono più grande che mi hanno fatto è saper prendere la vita come viene, nel bene e nel male. Senza fasciarsi la testa prima di rompersela. Senza fretta, godendosi quel che c’è da godere. […] Quando le cose non vanno per il verso giusto ho imparato ad aspettare che la nottata passi, sono convinto che nisciuno nasce ‘mparato e ho fatto mia la massima San Gennà, futtetenne!”. [ii]
[i] O. Bianchi, C. Bianchi, Sopra il vulcano. Il campo, lo scudetto, la vita, Baldini+Castoldi (2020), p. 77.