Nella mitologia greca, dopo una punizione divina, il cacciatore Narciso s’innamora della sua immagine riflessa nell’acqua. La coccola al punto da immergere le braccia per toccarla, ma puntualmente questa svanisce. Una filastrocca quotidiana che continua fino a quando Narciso decide di lasciarsi morire, proprio a due passi da dove si vedeva riflesso.
Nel calcio dei giorni nostri, dopo aver ricevuto un dono divino, il calciatore Hazard s’innamora del suo talento. Lo coccola, talvolta ne abusa, incantando sé stesso e chi lo osserva. Si specchia nelle sue doti magiche in un riflesso ingannevole che piano piano, però, lo risucchia nell’oblio. Perché tra qualche anno, alla domanda: “Chi sono stati i giocatori più forti degli anni ‘10 del nuovo millennio?” a molti – purtroppo – non verrà in mente il piccolo folletto belga.
A soli 32 anni Eden Hazard ha deciso di smettere, chiudendo definitivamente la parabola da amor perduto che aveva imboccato negli ultimi anni.
Le quattro stagioni al Real Madrid ne hanno sancito il lento declino, in quella che per lui è stata una vera e propria gabbia dorata, fatta di tanti milioni di euro ma anche di infortuni e prestazioni altalenanti. Fino a che, dopo l’ultimo anno in cui già aveva ammesso a l’Equipe quanto sarebbe «difficile tornare al livello di un tempo», e nel quale aveva puntato tutto su un Mondiale rivelatosi poi – per lui e il suo Belgio – un buco nell’acqua, Hazard ha annunciato il ritiro. Non ne poteva più. «Devi ascoltare te stesso e dire ‘basta’ al momento giusto», ha scritto su Instagram nel post con cui ha ufficializzato il suo addio al calcio.
Eden ha così deciso di dare ascolto al suo corpo e soprattutto alla sua testa, che forse negli ultimi anni lo aveva abbandonato. «È ora di godermi la vita con la mia famiglia e i miei amici. E bermi qualche birra Jupiler», aveva detto ridendo (come Pulcinella) nel documentario sulla nazionale belga uscito a settembre. Intenzione mantenuta, laddove nemmeno i dollari statunitensi o i riyal sauditi lo hanno fatto cadere in tentazione. Perché, comunque sia, il belga è uno che in campo ha sempre voluto divertirsi e far divertire.
Hazard è bianco o nero, tutto o niente. Lo avevano deciso i suoi genitori, dopo pochi istanti di vita. Quel bambino dagli occhi chiari e dal viso angelico non poteva che chiamarsi Eden. E il futuro veniva così tracciato, con il suo talento paradisiaco che lo ha consacrato in campo. Ma il cognome nascondeva l’altro lato della medaglia. Hazard, l’azzardo, il rischio. Quello che lo fa inciampare quando decide di scommettere troppo sulle sue doti innate e sui suoi dribbling, adagiandosi e trascurando aspetti cruciali come la forma fisica e la concentrazione.
I suoi ex compagni al Chelsea hanno confermato questo paradosso. John Obi Mikel, mediano dei blues per più di un decennio, lo definì “the laziest player I’ve ever seen”, “il giocatore più pigro che abbia mai visto”. Filipe Luís, compagno di staffetta di Hazard sulla fascia sinistra, ha raccontato di averlo visto giocare a Mario Kart nello spogliatoio a pochi minuti dall’inizio del riscaldamento prepartita. E sullo stesso tenore si sono espressi addetti ai lavori come Carlos Forjanes, giornalista di AS e inviato al seguito del Real Madrid, che ha ricordato la difficoltà di Hazard nel non «intrufolarsi in cucina e mangiare snack in continuazione».
Ma poi in campo, almeno ai tempi del Chelsea, il belga spostava clamorosamente gli equilibri. Una spensieratezza, o se volete chiamatelo un menefreghismo, che di fronte agli avversari diventava un fiume in piena di dribbling e gol. Molti straordinari, come quello segnato all’Arsenal nel febbraio 2017, votato dai tifosi come il più bello della sua carriera. In quell’azione personale, che inizia nella propria metà campo e termina nell’area avversaria, c’è tutto Hazard: controllo, baricentro basso, palla incollata ai piedi, dribbling e freddezza sotto porta.
Non è un caso se tra i suoi più grandi estimatori c’è Josè Mourinho, che negli anni al Chelsea lo ha valorizzato e protetto, soprattutto contro arbitri e avversari. «Se si continuerà così, rischieremo di non vedere più Eden Hazard», aveva detto in una conferenza stampa, dopo l’ennesima dose di falli subita dal belga. «Mi protegge, mi lascia libero di esprimermi, senza riempirmi la testa di dettagli», aveva risposto Eden, consapevole che il tecnico portoghese lo stava trattando come un figlio. Ma Mou è lo stesso che un paio di estati fa, quando il dieci dei Diavoli Rossi era stato accostato alla Roma, si era dimostrato pungente:
«È un giocatore straordinario che si allena in modo terribile. Quando gioca non vedi il riflesso di una settimana di lavoro, vedi solo il riflesso del suo talento».
Un talento che – génération dorée del Belgio a parte – è riuscito a vincere tutto, da leader tecnico e da trascinatore, spesso anche con la fascia di capitano al braccio. Lo storico double – Ligue 1 e Coupe de France – con il Lille di Rudi Garcia nel 2010-11 lo ha fatto conoscere al mondo. Le due Premier e le altrettante Europa League con il Chelsea lo hanno fatto sedere al tavolo dei migliori. La Champions da attore non protagonista con il Real Madrid lo ha reso più vincente, ma anche più fragile. Ed è nella parentesi con i blancos che Eden è parso spento, quasi appagato, sprofondato in un loop da cui non è più riuscito ad uscire.
Una crisi esistenziale che, è questo forse il grande tema, nemmeno lui è in grado di spiegare. «Per me è stato difficile capire il perché. Cosa avevo fatto di sbagliato?», ha detto parlando delle sue stagioni nere a Madrid, senza riuscire infine a trovare una risposta. Perché Hazard non è il classico amor perduto che sacrifica e immola il suo talento sull’altare della bellezza, o che lo getta via per un rifiuto ideologico delle perversioni del calcio moderno: non è il Trinche Carlovich o George Best, non è una rockstar o un poeta maledetto del pallone, né è uno che banalmente fa le ore piccole nei locali tra alcol e donne.
Hazard mangia dolci e schifezze, gioca alla Play Station, si allena male perché indolente, pigro, ma il tutto in modo piuttosto nichilista. Magari si tratta semplicemente di accidia, o mancanza di fame, o mancanza di testa per rimanere a certi livelli, ma nel lento declino di Hazard – e questa forse è la cosa peggiore – è mancata la poesia. E così l’impressione è che Eden sia stato una vittima dei propri tempi, come tanti trentenni al giorno d’oggi che non sanno perché eppure stanno male, sono stanchi, e nascondono negli occhi un disagio inesprimibile, senza un perché.
Eppure, ogni tanto, qualche squarcio il belga ha lasciato intravederlo. Qualche possibile appiglio per spiegare un così grande ma al contempo silenzioso oblio. È il tema di Narciso che ritorna, il quale a forza di specchiarsi si lascia infine morire. E il narcisismo di Hazard è racchiuso in un concetto, metaforico ancor prima che pratico: il dribbling. «Quando inizio una partita mi dico che devo dribblare: ‘oggi non devi segnare, oggi devi dribblare‘».
Così parlava il belga in una bella intervista rilasciata a Panenka. «È la mia qualità principale, quando ho la palla e vedo che c’è la possibilità di fare un uno-contro-uno, o un due-contro-uno, non ci penso un attimo. È solo all’ultimo momento che decido se posso fare qualcosa di diverso: continuare a dribblare, tirare in porta o passare. Gli spettatori vengono allo stadio per questo. E spesso, un dribbling è più piacevole di un gol. È allora che la gente si alza per applaudire». E ancora:
«La mia riflessione è che il pubblico paga per vedere una partita di calcio, uno spettacolo, sei un attore e devi dargli piacere».
Concetto ribadito in un’intervista di qualche anno fa con Thierry Henry, quando disse che nel dribblare gli avversari agiva d’istinto, senza preoccuparsi di chi aveva davanti, per il gusto poi di rivedersi su YouTube. Eccola ancora, la sua natura di Narciso inquinata però con la morale, con ciò che richiede il pubblico. L’estetica mischiata con l’etica. E in effetti Hazard lascia questo amaro in bocca: una carriera a metà tra l’attore e il professionista, tra il fenomeno e l’incompiuto, tra il bravo ragazzo e il menefreghista. Tra l’amore per il calcio e l’insofferenza per il calcio; e non per il football in genere, sua grande passione, ma per i suoi ritmi, per la sua disciplina e le sue gerarchie.
«Un allenatore non è come un insegnante di scuola che ti dice “devi fare questo o entro domani devi svolgere questi compiti”. Io sono riuscito a dare il meglio di me con gli allenatori che mi hanno dato libertà».
Così parlava Hazard, che forse voleva semplicemente essere lasciato in pace, nulla più di questo. In pace a vivere e sprofondare nel suo talento, non sacrificato ma lentamente scaduto, tant’è che ciò che veramente lo definiva come calciatore e come uomo era quell’istinto lì: quello che in campo prima di ogni insegnamento lo portava naturalmente a scartare l’avversario, a tentare quel dribbling che non a caso Carmelo Bene definiva la evasione dal corpo (a corpo), e quindi anche dal campo. Eden dribblando voleva fuggire da se stesso, dalla fatica, dalla dottrina. Fino al punto di arrivare a rivederseli in loop a casa, quei dribbling: per evadere ancora, per evadere meglio. Fino al punto di sprofondarci dentro.