Il manifesto dell'unicità, al Tour de France.
Passeggiando in quel mirabile lembo d’Oltralpe che si chiama Provenza, capita spesso di volgere in alto lo sguardo. La maestosità della vista provoca una sorta di timoroso rispetto che si deve a quello che tutti chiamano “Gigante di Pietra”. D’altronde, un senso di inquietudine lo deve per forza trasmettere. Altrimenti non si spiega una frase che, come il Mistral, soffia poderosa da Carpentras sino alle paludi della Camargue. “Non è folle chi sale sul Ventoux, ma chi vi torna un’altra volta”. Il Monte Ventoso è il manifesto dell’unicità. Piantato in mezzo al nulla. Nè Alpi, nè Massiccio Centrale. Poco più di 1900 metri di candide pietre abbracciate a qualche sparuto cespuglio. Eroici fili d’erba che resistono a un microclima particolare. Nudo da ogni vegetazione.
Dentro uno spicchio di Francia dove i colori esplodono in tutto la loro potenza, fonte di ispirazione per gli impressionisti di fine Ottocento. Uno spuntone di roccia gettato tra le bellezze che i Romani hanno esportato nel Midi e il caotico melting pot dei vicoli di Marsiglia. Triste, solitario y final lo avrebbe definito Osvaldo Soriano. Eppure, colmo di fascino. A volte sinistro, altre volte epico. Denso di Storia vergata da penne raffinate. Solcato da cantori, narratori, ciclisti. Lo scorrere lento dei secoli tra le immutate pietruzze che dipingono questa perla rara, tormento ed estasi nel periodo d’oro del Tour de France.
Prima della Grand Boucle, centinaia di anni prima della creazione del mito della bicicletta, un particolare “scalatore” si arrampicò sino alla vetta del Ventoux, dove ora sorge l’osservatorio metereologico. Un ragazzo aretino, poco più di trent’anni. Discendente di una famiglia di guelfi bianchi, l’amore per gli studi classici. L’eterno dissidio tra la vanità dei piaceri e la ricerca di Dio. Travaglio combattuto nel corso del suo peregrinare. Francesco Petrarca, pietra miliare della letteratura rinascimentale, aveva in sogno i 1912 metri della cima sin da quando aveva messo piede ad Avignone. Osservava il gigante da lontano, stagliarsi tra Bèdoin e Malaucène. Desiderava l’impresa, nella sua volontà di recidere il cordone ombelicale dal mondo terreno per avvicinarsi all’Altissimo, rappresentato dai sassi del Ventoso.
La notte del 25 aprile 1336 decide che il momento tanto atteso è giunto. Sceglie come angelo custode il fratello minore Gherardo, giovane monaco. Il percorso è tutt’altro che semplice. Un conflitto interiore, unito alla massacrante fatica fisica, lo logora. Sostenuto dall’andatura agile del fratello, in una sorta di trasposizione tardo medievale di gregario e capitano, giunge sulla sommità. Osservando la vista e in grazia a Nostro Signore, legge un passo delle Confessioni di Sant’Agostino. Trovandovi parole che dipingono il suo stato d’animo. Quello che lo tormenterà vita natural durante.
“E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano loro stessi”.
Passano i secoli, all’ombra della cappelletta di Santa Croce. I sentieri sono calpestati da soldati in marcia a procurar battaglia per l’Europa, ma il Ventoux non perde il suo influsso. Guardiano silenzioso e austero di una terra di briganti, gitani e principesse, ritorna preponderante tra le pagine della Storia nel secondo Novecento. Il ciclismo è sport nazional popolare per eccellenza in Francia. Robic, Bobet, Anquetil sono i suoi assi. Non è più l’era dei “forzati della strada” raccontata da Albert Londres e impersonificata da Henri Péllissier. Resta l’epica di uomini comuni, volti scavati dalle rughe come vallate pirenaiche. Al Tour si continua a salire Galibier, Var, Izoard. Jacques Goddet, che ha ricevuto il testimone dal padre – padrone Henri Desgrange, decide di portare all’Inferno gli aspiranti maglia gialla e si inventa l’arrivo sul “Gigante di Pietra”. Nella crono del ’58 trionfa Charly Gaul.
Ciclisti e organizzatori si rendono subito conto di cosa significhi questa montagna. Un manto di cedri e pini che li accompagna sino al punto di non ritorno. D’improvviso, il verde lussureggiante finisce e dinanzi si apre il nulla. Pietraia lunare, dove il respiro manca senza avvisare e la calura non concede tregua. Arido calvario, sferzato dalle violente frustrate del Maestrale. Roland Barthes, saggista transalpino, lo definisce con questa frase: “il Ventoux ha la pienezza della montagna, è un dio del male al quale bisogna offrire sacrifici”. Dea Kalì mediterranea, alla quale il destino ha deciso di porgere in dono ragazzi tra i 20 e i 30 anni. Il gusto incosciente dell’impresa, una pettorina colorata indosso, una borraccia che non può bastare. In sella a due tubi di metallo, le gomme sottili come le loro ombre chine sulla schiena per lenire la sofferenza. Sbuffi, sputi e bestemmie sino al traguardo.
Non una vittoria, ma la fine della tortura. Un’attrazione funesta comincia ad aleggiare da queste parti.
Il 13 luglio 1967 si parte da Marsiglia direzione Carpentras. Nello stillicidio di giornata, si nota la figura del numero 49. Maglia chiara, il cappello come inutile protezione da un’afa desertica. Procede a zig zag, come un ubriaco che barcolla fuori da un pub. Tom Simpson, iridato due anni prima, è in grave crisi. Si trascina spingendo le spalle con forza, senza dare impulso alle gambe. Si ferma, riparte, si blocca. Qualcuno tenta di rimetterlo in carreggiata. Il corpo piegato, la testa nascosta sotto il manubrio. Vuole proseguire per i tifosi, ma lassù non ci arriverà mai. Ha un collasso cardiaco. Un elicottero riesce a trasportarlo al più vicino ospedale. Invano. L’inglese spira a 29 anni, vittima di un mix letale di caldo, alchool e anfetamine. Combinazione illegale alla quale il suo cuore non regge. Da quel giorno, nel vocabolario di questo sport maledetto entra una parola. Doping. In pochi hanno il coraggio di sussurrarla. C’è stato un tempo in cui era pratica comune, ma con il passaggio di Tommy ad altra dimensione cambia tutto.
E il Ventoso diventa il simbolo di nefasti presagi.
Pur vantando campioni come Merckx, Poulidor e Thevenet nell’albo dei trionfatori, non riesce a scrollarsi di dosso un’infausta reputazione. Accostare il suo nome alla morte diviene esercizio banale. Per anni la Grand Boucle gira alla larga da queste pallide rocce. La paura che possa succedere ancora ammanta la corsa. Alimentando la sua leggenda. Monte impossibile, come l’Angliru per la Vuelta e lo Zoncolan per il Giro. Nel 2000 ritorna in calendario. Di nuovo il 13 luglio. Arrivo in quota, dopo 149 chilometri di angoscia. Domina la corsa l’americano Armstrong. Dal pèloton sbuca fulminea una singolare maglia rosa. Le gambe mulinano sui pedali. La bandana, il suo simbolo, è sparita. Gioca a carte scoperte Marco Pantani. Come se sentisse dentro di sè di essere alle ultime curve della sua esistenza, cerca una vittoria in grande stile. Il suo testamento sportivo.
Si erano punzecchiati, lui e Lance. Un dualismo che dura lo spazio di un mattino. Due, tre, quattro scatti per spaccare il gruppo di testa. Ullrich, Botero, Beloki si piantano. Passa davanti al monumento a Simpson insieme al texano. Non riesce a staccarlo, ma la folla impazzisce. Sull’ultima rampa il Pirata allunga di un metro. Quanto basta per vincere. Il suo sguardo, come spesso accade, non lascia trasparire gioia. Per poco non ha un malore come Eddy il Cannibale nel ’70, poi la rabbia lo pervade quanto il rivale dichiara di avergli lasciato il successo. Per un istante i tifosi sognano il ritorno. La mitica “gialla” non è più un’utopia. Il fato, invece, ha in serbo un altro finale, sottoforma di una squallida stanza dentro un motel romagnolo, nell’inverno di quattro anni dopo.
Lassù, su quell’asfalto che profuma di torrida lingua di fuoco, il gruppo ha seguitato a passarci. Masochismo allo stato puro. Gioia nell’autoinfliggersi il supplizio.
E la tetra nomea che continua ad circondarlo. Un mito nero. Nel 2002 ci arriva in solitaria l’idolo di casa Virenque. Lo fa dopo aver passato, anche lui, le forche caudine dei farmaci proibiti. Sospeso per un anno dalle gare, cerca il riscatto nel luogo meno adatto al Perdono. Dove la strada sembra non finire mai. Dove i tornanti per lasciarsi alle spalle il peggio non esistono. Lui, Simpson, Pantani. E poi Armstrong, arrogante e senza vergogna anche davanti alle tv, nel dire che sì, aveva assunto l’illegale e lo avrebbe rifatto.
Infine Iban Mayo, recordman nel 2004 e squalificato per Epo. Una catena di maledetti su due ruote. Tutti protagonisti su queste diaboliche rampe. Tutti con il marchio del doping stampato a fianco del dorsale. Hanno attraversato le torbide acque di questo sport, che per anni non è riuscito a ripulirisi la coscienza da un sistema che lo aveva fagocitato. Ci sta provando ora, alla fine di un periodo buio, con meno campioni e più pulizia. Almeno sembra. La Grand Boucle ’22 ha scelto altre montagne. L’ultimo passaggio sul Ventoso è di un’estate fa. Un transito, nascosto dentro una tappa. Quasi a non voler disturbare il sonno del Gigante di Pietra. Severo custode di dolore e gloria. Chimera rocciosa per poeti, pirati e scrittori. Tutti alla disperata ricerca del proprio Paradiso, distante venti chilometri di infernale salita.