Un personaggio surreale, per cui la vita stessa era una combine.
Il 4 gennaio 1959 cadde di domenica. Fu dunque del tutto logico per Eugenio Gaggiotti presentarsi in quel di Parma, alla panetteria di via Garibaldi, due giorni prima, di venerdì. Vestito elegante, passo affrettato, un Jean Gabin in Alba Tragica, ma col paltò. Ecco l’ingresso: lo supera. Pane e dolciumi: farne scorta abbondante; o, almeno, fingere di farlo. Poi, con fare circospetto ma disinvolto, come lo è per deformazione chi fa il suo mestiere, attende che l’ultima cliente esca dal negozio e solo allora si avvicina alla cassa. Sfoggia il solito sorriso luminoso, i soliti modi affabili.
A specchiarsi in quei trentadue denti smaglianti, da venditore scafato, non c’è un garzone qualunque né una ragazza coi capelli raccolti in una cuffia bianca. Al di là del bancone, infatti, si vede il capitano del Parma Ivo Cocconi, che quando non si allena dà una mano alla piccola attività di famiglia. Un saluto d’intesa, i due si conoscono, non fosse che sono entrambi originari di San Secondo Parmense, poco fuori dal centro, dove inizia la campagna. Ed è proprio prima di andarsene che Eugenio Gaggiotti si trasforma nella versione più nota di sé.
Il Gaggiotti
All’epoca, infatti, chiunque legga i quotidiani e segua l’andazzo dei campionati di pallone sa che Eugenio Gaggiotti è l’eccellenza nel campo delle combine. Quando qualche anno più tardi Bruno Perucca ne darà un breve ritratto sulle colonne della ‘Stampa sera’, non farà a meno di esordire definendolo «uno dei più sconcertanti personaggi dell’ambiente sportivo italiano, l’uomo che trucca le partite e che ha suscitato tanti gravi incidenti con le sue opere».
D’altronde è per via di questo curriculum che Gaggiotti è il Gaggiotti fin dai primi anni ’50.
E così anche quella mattina di inizio gennaio avanza la sua offerta: meglio sarebbe se domenica il Brescia – che avrebbe affrontato proprio il Parma di Cocconi – facesse bottino pieno, alludendo ad un premio di 350 mila lire in contanti e in aggiunta, tanto per fare gola, un bel fucile da caccia. Cocconi pensa ad uno scherzo, o almeno così dichiarerà agli inquirenti in un secondo momento. Ma due giorni dopo la squadra emiliana perde con un passivo di due marcature, complice un’autorete causata proprio dal maldestro intervento del terzino-fornaio.
Gaggiotti perciò non si fa attendere e, credendo d’essere stato preso sul serio, si ripresenta in seguito con la cifra pattuita. Solo allora, dirà Cocconi, si capì che non si trattava di una burla, denunciando i fatti e facendo scattare le indagini, con Eugenio Gaggiotti che per un po’ si dà alla macchia.
Ecco, le indagini. In tutte le vicende giudiziarie che vedranno per protagonista il nostro macchinatore, si ripete sempre un canovaccio con alcune variazioni sul tema che hanno ora del ridicolo, ora dell’assurdo. Da diversi anni infatti il Gaggiotti, sempre intento a inventarsi un camuffamento, si era inserito negli ingranaggi oscuri del pallone come un granello deciso a sovvertire l’ordine naturale dei suoi meccanismi e dei suoi valori dichiarati.
Il metodo Gaggiotti
Il sio metodo funziona, cambia il corso di alcuni tornei e si ripresenta sulle scene con una metodicità collaudata: avvicinare il tal giocatore, sovente un portiere o un difensore, tentando di corromperlo in cambio di danaro. Basta una svista, gli si dice, un intervento velleitario, un’uscita calcolata male, il pallone che accidentalmente scivola dalla presa sicura dell’estremo difensore, una spinta goffa in area di rigore, un dettaglio fatale insomma, che porti a favorire l’avversaria, la quale in genere è una squadra in lotta per la salvezza.
Sono, si capisce, anni in cui il calcio comincia ad uscire da una semplice dimensione ludica, in campo entrano altri interessi (imprenditori, scommesse, conti da far quadrare, giornali da vendere) e già allora gli attaccanti ricevono compensi ben più alti delle linee arretrate. Ed è proprio a quest’ultime che Gaggiotti si rivolge, deboli sul piano economico e più facili dunque da corrompere. Del resto sono anni di pionierismo anche per le partite truccate e la FIGC deve ancora colmare certi vuoti giuridici, dei quali uno in particolare si rivela per Gaggiotti il rotto della cuffia attraverso cui farla ciclicamente franca:
ancora non esiste il reato di truffa sportiva e le squalifiche per chi alteri le gare colpiscono solamente i tesserati della Lega.
Ma Gaggiotti, che di tessere non ne ha nemmeno l’ombra, continua ad agire pressoché indisturbato. Sì, di tanto in tanto lo colgono in flagrante e sì, ogni volta le alte cariche diffidano giocatori e società dall’intrattenere ancora qualunque tipo di rapporto con quel faccendiere consumato. Ma quest’ultimo non si lascia intimidire, per un po’ si inabissa, salvo poi riemergere in qualche cono d’ombra lontano dai riflettori: un oscuro bar di provincia, una pompa di benzina dispersa nel nulla o il retrobottega di qualche trattoria. È in posti come questi, infatti, che Gaggiotti pare solito avvicinare i tesserati prescelti per il suo particolare tipo di avance.
Ma andiamo con ordine. All’epoca della sortita nel panificio di Cocconi, Eugenio Gaggiotti vive tra San Secondo Parmense e Brescia, città dove il padre è prefetto in un istituto agrario. Aveva due fratelli calciatori, di cui uno che raggiunge il professionismo. Mentre Gegio – soprannome bonario, da maschera della commedia dell’arte – non è altrettanto bravo coi piedi, e nondimeno il calcio è per lui una mania che lo accompagna fin da ragazzo.
La scintilla scatta quando diviene amico di Mario Rigamonti, conosciuto negli anni di Brescia, con cui era solito darsi a scorribande in motocicletta. Compare fedele, attaccatissimo al difensore del Torino, Gaggiotti spesso lo accompagnava nelle varie trasferte di club e con la nazionale. È presente anche in un celebre Italia-Ungheria del 1947, dove gli Azzurri schierano ben dieci giocatori granata; a bordocampo, Gegio osserva ansioso l’evolversi del match, lasciandosi sfuggire una frase che rivela profeticamente la sua idea non ortodossa di sport:
«Lasciate fare a me: mezzo milione a Puskas e Hidegkuti e l’Ungheria è sistemata».
Poi, però, in un pomeriggio di primavera, come una pellicola che si strappa lungo i rocchetti del proiettore nel bel mezzo della giovinezza, il buio. Quando nel ’49 il grande Toro scompare nell’incidente di Superga, per Gaggiotti comincia un periodo tetro. Per un anno porta il lutto in memoria di Rigamonti, dopodiché per uno come lui, che già era stato esonerato dalla leva per una presunta schizofrenia, il calcio si trasforma in una specie di tarlo, un disturbo, uno spazio di manovra dove ottenere riconoscimento, con la presunzione di saperne di più in quanto a tattiche e programmi di Herrera e Valcareggi («Una volta sola mi ascoltarono» sentenziò anni dopo in una delle rarissime interviste. «Vincemmo facile, un trionfo»).
Certo, non aveva mai tenuto in camera caritatis il desiderio di diventare allenatore della Nazionale, convinto com’era di avere tutte le doti per risollevare il calcio italiano dal tunnel oscuro in cui si era infilato ai suoi anni, segnati da sconfitte pesanti e mancate qualificazioni. Tuttavia, non avendo mai avuto risposta alle sue candidature da cittì, quest’uomo si mette in testa che una Federazione tanto sprovveduta non merita pace, e comincia a mettere in atto un piano a tratti rancoroso e a tratti intimidatorio per destabilizzare i campionati tramite una lunga serie di partite alterate ad arte.
Quante? Difficile dirlo. In alcune occasioni ne confessò una settantina, poi nella stagione del ritiro dalle scene a Beppe Braco di ‘Stampa sera’, che lo aveva intercettato nelle stanze dell’Hilton di Milano, forse alla ricerca di qualche spiraglio per rimettere in piedi la sua carriera di “compratore di partite”, confessò di averne influenzate più di venti, rivendicando i meriti per la salvezza in Serie A di non poche provinciali.
Cui prodest?
Un approccio quantomai logico alle cose, porta a chiedersi per quale ragione agisse Gaggiotti, chi traeva vantaggio dalle sue manovre. Già allora, era risaputo, si offriva candidamente un po’ a tutti, entrando nelle sale dell’Hotel Gallia, dove si svolgevano le diverse sessioni di mercato, a domandare se qualcuno avesse bisogno del suo aiuto. Definirne i tratti è difficile.
Di lui si sa ben poco, rimangono forse un paio di foto sgranate, giacca e camicia bianca, occhiale da motociclista, capello pettinato all’indietro, un po’ marpione, di quelli che al bar raccontano che se non era per quel crociato – nel mentre lo indicano – a quest’ora stavano a San Siro. Ma certo non è venale, questo no: delle somme che transitano per le sue mani trattiene sempre poco e a conti fatti quella vita non l’arricchisce. Benché si muova di volta in volta in accordo con società e giocatori, di frequente agisce perché mosso dalle sue personali simpatie, o da una sorta di spirito caritatevole:
«Comprar partite – spiegava ad un intervistatore – è quasi sempre azione di buon cuore».
Spiegando: «Quanti dirigenti si sono impegnati a sanare bilanci firmando cambiali? Una società che rischia la retrocessione perde gli incassi, rischia il fallimento e porta all’indigenza famiglie di chi, non disponendo di grandi mezzi, aveva confidato nel buon rendimento della squadra. Quanti giocatori disperati non sapevano come fare per sbarcare il lunario!». Gaggiotti il cane sciolto, dunque, ma anche il megalomane e, perché no, l’idealista.
Vanitoso, vanesio, fanfarone. Beffardo, figura da commedia nuova, il servo callidus, che vive di intrallazzi, astuto e furbo; tutto a ordire trame non per l’incontro amoroso del suo padrone, come in Plauto, ma incontri clandestini per i suoi sotterfugi. Artefice delle vicende, motore delle situazioni, appare e sparisce, senza troppe ipocrisie, orgoglioso del proprio operato, alle volte esagerando di proposito la cifra dei suoi pateracchi: «Squadre che dovevano retrocedere e son rimaste al loro posto, squadre che dovevano essere promosse e che invece avevano ripetuto la classe, giocatori fidatissimi che hanno mollato nell’attimo fuggente necessario».
«Un capolavoro, signori miei: anzi, una serie di capolavori».
Le sue “imprese”
Il primo episodio che lo fa balzare agli onori delle cronache è un Catanzaro-Reggina di Serie C del 1951 ma, già nel campionato 1952-53, mette spudoratamente lo zampino in una partita di massima serie, Pro Patria-Udinese. All’inizio va tutto liscio, e nessuno si sarebbe accorto di nulla, se non fosse stato per la confessione a giochi fatti di uno degli atleti bustocchi, tal Settembrino. Allora lì il copione destinato a ripetersi: giocatori e dirigenti squalificati, squadra penalizzata (l’Udinese viene addirittura retrocessa per illecito) e Gegio Gaggiotti che si defila per un po’, inattaccabile difronte alla legge.
L’opera del manovratore neanche troppo occulto persiste. E a seguire le pagine di cronaca di quegli anni emergono dettagli sempre più inquietanti, di un mondo in cui gli accordi sottobanco paiono essere all’ordine della domenica. Nel 1953 si scopre che il Fanfulla, militante allora in Serie B, aveva assoldato Gaggiotti per aggiustare il tiro delle partite, mettendogli a disposizione un fondo di 15 milioni purché si raggiungesse la quota salvezza, più mezzo milione extra per il disturbo. Il 4 dicembre, due giorni prima di Fanfulla-Alessandria, Gaggiotti incontra il portiere dei Grigi, Emanuele Dalla Fontana, per proporgli il solito affare.
L’unica foto presente sul web di Eugenio Gaggiotti. In compenso, per la partita Fanfulla-Alessandria, scoppio un caso che prese il suo nome: ‘Caso Gaggiotti’ per l’appunto, o anche ‘Scandalo Gaggiotti’.
L’estremo difensore inizialmente accetta, però poi si pente e allerta le autorità. Si finge così di organizzare un incontro, poco fuori dalla stazione dei treni di Alessandria. In realtà è un’imboscata e, invece del giocatore, Gaggiotti trova una pattuglia dei carabinieri. Viene quindi fatto salire sulla volante, ma alla prima curva si lancia dall’auto in corsa e comincia a sgambettare a perdifiato per i campi ricoperti di brina, dandosi alla fuga. Risultato: Gaggiotti a piede libero, Fanfulla penalizzato, e altro giro di giostra. Con Gaggiotti sempre a disposizione, perché, come scrisse il Guerino in quegli anni,
«di Gegio c’è sempre da fidarsi, se promette mantiene. E soprattutto non tradisce mai i giocatori, per questo si è formato una vasta e affezionata clientela».
Cominciano allora una serie di indagini serrate, una specie di pietra scoperchiata nell’orto sotto cui si scopre un brulichio forsennato di vermi. A spostare il sasso, in particolare, è il conte Alberto Rognogni. Personaggio poliedrico, polemico, a tratti geniale; già fondatore del Cesena Calcio e membro della Federcalcio, nonché proprietario del Guerin Sportivo dal 1953 al 1973 e figura di spicco di una Commissione di Controllo imbastita dalla Lega, egli si lancia in una personale crociata in nome del gioco pulito, in cui il nemico giurato è ovviamente il nostro mezzano di partite.
Questa specie d’agente segreto della FIGC lo perseguita a destra e a manca, si finge carabiniere, indaga, allestisce appostamenti; addirittura una sera per metterlo nel sacco si presenta a casa sua sotto le mentite spoglie d’un frate, salvo essere subito scoperto dal Gegio, che lo saluta con un sardonico «Buonasera, conte!». Il Gaggiotti, che da buon personaggio della commedia sa che la propria ragion d’essere si giostra su equilibri necessari, che senza un degno antagonista il suo carattere si ridurrebbe ad un mucchio di pose insignificanti, ne riconosce tutto il valore:
«Lei è molto bravo e anche simpatico – rivelò a Rognogni nel bel mezzo di un’inchiesta – sarei persino tentato di dirle tutto quanto so sulle mie 64 corruzioni andate a buon fine. Ma capirà: io sono un galantuomo, ho un segreto professionale anch’io. Come i medici. Come gli avvocati».
E così nel corso degli anni si scoprono una serie di incredibili illeciti tutti architettati dal medesimo losco, pittoresco figuro. Lo stesso che manda gli auguri di Natale all’inquirente che lo insegue in lungo e in largo per l’Italia, che sfida il conte Saverio Giulini, presidente dell’Aia, in un duello alla pistola, e che una volta chiamato a rispondere delle proprie azioni nella sede della Lega minaccia di lanciarsi dalla finestra, come ultimo clamoroso atto di una vita al delirio.
Gli ultimi colpi
Nel ’54-’55 interviene in modo subdolo sulla promozione del Padova in Serie A, e si ingegna per dare una spintarella al Palermo in una gara contro il Brescia, incitato a quanto pare da irrazionale predilezione, mettendo sul piatto una Fiat 1100 tutta fiammante al giocatore di turno. Più per manie di grandezza che per altro, giacché in quel periodo andava a spiattellare ai quattro venti che grazie alla sua mano invisibile, il Palermo sarebbe finito in A. Con quella spregiudicatezza tipica degli esteti, quel recondito desiderio d’essere scoperti che porta gli amanti a lasciare qua e là traccia del proprio tradimento.
La vicenda più clamorosa riguarda però il “caso Azzini”. Siamo nel ’58, e un Padova che ormai non può più chiedere niente al campionato si appresta ad affrontare un’Atalanta alla ricerca invece di preziosissimi punti salvezza. A Brescia Gaggiotti incontra a pranzo Renato Azzini, giocatore del Biancoscudo, a cui promette una cospicua somma di denaro per favorire la vittoria dei lombardi la domenica successiva. Dopo un lauto pranzo al ristorante, i due siglano l’accordo proprio a casa Azzini, dove ad attenderli per il caffè c’è la di lui fidanzata Silveria Marchesini, di professione indossatrice.
Indaffarata a preparare la moka in cucina, la Marchesini tende le orecchie e viene a sapere quanto si sta ordendo in salotto.
Un segreto che sarebbe stato destinato a rimanere in famiglia, se non fosse che Azzini questa ragazza non si decide a sposarla. E così lei, piccata per via di queste nozze sempre rinviate, ad un certo punto denuncia tutto alle autorità, aiutata da un secondo testimone, un benzinaio amico di entrambi, il quale rivelerà che proprio quel giorno il Gaggiotti gli aveva consigliato di mettere due fisso sulla successiva partita del Padova (e in effetti Azzini permette agli atalantini di vincere, con una prestazione indecorosa).
Poco importa che in un secondo momento si venga a sapere che i sopracitati testimoni erano stati pagati dalle altre squadre in lotta per la salvezza, Samp e Verona, per incentivare le loro dichiarazioni: l’Atalanta viene retrocessa in B e Azzini squalificato. È, di fatto, l’ultimo grande “capolavoro” di Gegio, perlomeno tra quelli venuti a galla, benché gli ultimi due raggiri registrati risalgano alla fine degli anni ’60. In ogni caso, poi non se ne sa più niente: a quarantatré anni Gaggiotti mette fine alla propria carriera di intrallazzatore e scompare nel nulla.
Con un’uscita di scena silenziosa, di chi ha interpretato il mondo come un palcoscenico e si è esasperato pur di avere una parte in questa commedia fin troppo umana. Senza dubbio la sua è stata quella del bottegaio del pallone, dell’esteta della truffa. Di lui Montanelli scrisse che «poteva diventare un eccellente tecnico, il destino invece ha fortemente voluto che diventasse Gaggiotti. Gaggiotti per i dirigenti del calcio italiano è come Satana, un angiolo perduto del Paradiso, un Maligno al quale nemmeno Papini, con un suo libro teosofico, avrebbe potuto schiudere speranza di redenzione». Di quest’ultima, forse, non gliene sarebbe nemmeno importato.
Tutta se la sarebbe giocata per un frammento di clamore, per l’ultimo trafiletto di giornale. Salvo poi tornarsene nell’ombra da dov’era venuto. Come Azzini, come Rognoni; come Marchesini, Cocconi e tutti gli altri personaggi di questa storia picaresca, tipicamente italiana. Come tante di quelle partite d’annata che resistono oggi solo su qualche almanacco impolverato. Là dove finiscono i compleanni dei cani e a cui, in fondo, è destinato ogni uomo incapace di sopravvivere alla propria maschera.