Il budget cap (tetto agli stipendi per i piloti) divide il Circus.
La pandemia ha scalfito le poche certezze rimaste. La Formula 1 camminava su un filo sottile, mantenendo con fatica l’equilibrio. Il Covid ha dato la spallata alle velleità di ripartenza: di dollari ne girano sempre meno, ora l’obiettivo è contenere le spese. Prima il congelamento degli sviluppi su telai e motori, poi il famigerato budget cap. Ora il mirino è puntato sull’ultimo anello della catena: i piloti. Folli, tenaci, belli e soprattutto ricchi. Uno stereotipo che – almeno sotto l’aspetto economico – stride con i conti malconci della F1 odierna.
La Federazione Internazionale e Liberty Media (proprietaria della F1) stavolta fanno sul serio. La soluzione per evitare di imboccare un sentiero estraneo e tenebroso si chiama “salary cap”. Termine spesso abusato nel calcio ma che è realtà soprattutto negli sport americani: basket (in NBA), ma anche football (NFL) e hockey su ghiaccio (NHL). I vertici della Formula 1 stanno per avanzare una proposta ai team per istituire un tetto massimo agli ingaggi dei piloti. Le indiscrezioni della stampa internazionale parlano di un limite di 30 milioni di dollari per i due piloti titolari più le riserve. Sarebbero esclusi i bonus legati ai risultati e i diritti d’immagine.
Una spada di Damocle che rischia di far deragliare i piani dei top team. Per intenderci: Mercedes e Lewis Hamilton hanno un contratto da 40 milioni di dollari per il 2021. In doppia cifra anche il compenso elargito al “brutto anatroccolo” della casa di Stoccarda, Valtteri Bottas (10 milioni). Conti che non tornerebbero nemmeno in Red Bull (Verstappen incassa 30 milioni a stagione). La Ferrari – insieme alla linea giovane – ha sposato anche quella dell’austerity rispetto agli ingaggi extralarge del passato (da Schumacher a Vettel passando per Alonso): Leclerc 16 milioni, Sainz 6.
Ma i numeri non dicono tutto: i conti in banca dei piloti vengono frequentemente rimpinguati da lauti contratti pubblicitari. Proprio sulle sponsorizzazioni ha fatto leva la difesa di Lewis Hamilton contro il salary cap.
Il sette volte campione del mondo non ha mai nascosto la propria contrarietà alla riforma. Hamilton ha paragonato il Circus agli sport di squadra americani i quali, secondo molti, rappresenterebbero dei modelli di equità sportiva proprio grazie al tetto sugli stipendi degli atleti. Secondo il pilota britannico, gli sportivi americani sarebbero più liberi di gestire i diritti d’immagine rispetto ai piloti di Formula 1, dove sono i team a controllare l’immagine dei piloti.
Già nel novembre 2020, Hamilton parlava così dell’ipotesi budget cap: «La differenza (con gli sport americani, ndr) sta nel fatto che gli sportivi in questi campionati possiedono la propria immagine in molti aspetti, e possono provare a massimizzarla altrove. Questo sport invece controlla quasi del tutto l’immagine del pilota». Uno sguardo rivolto anche al futuro:
«Penso ai futuri assi e non vedo perché dovrebbero essere ostacolati se porteranno qualcosa di grosso allo sport. Il nostro è uno sport multimilionario e dovrebbero essere ricompensati per quello che portano».
Questione di immagine, verrebbe da dire. Lewis ha però trascurato un dettaglio: l’incidenza degli sponsor personali (sempre in voga in Formula 1) con il salary cap. Il messicano Sergio Perez percepisce dai brand di fiducia un ingaggio di quasi tre volte superiore a quello garantito da Red Bull. Se è vero, dunque, che la casa austriaca ha firmato un contratto con Verstappen a 30 milioni di dollari l’anno, lo è altrettanto il fatto che possa permettersi un importante risparmio economico grazie all’accordo con Perez (che percepisce 2 milioni).
Altro caso limite sarebbe quello di Lance Stroll. Il papà Lawrence è il proprietario della scuderia in cui corre il figlio, l’Aston Martin. Con il tetto sugli stipendi, il team avrebbe ampi margini di manovra per ingaggiare top rider a cifre considerevoli (sulla falsariga dell’ingaggio strappato da Sebastian Vettel per il 2021). Altro precedente sarebbe quello del rookie Nikita Mazepin.
Il pilota russo ha portato sulla livrea Haas il marchio UralKali, azienda produttrice di potassio in cui il padre Dmitry, multimilionario e proprietario dell’industria chimica Uralchem, nutre diversi interessi commerciali. Dai rubli portati nelle casse di Hass, scuderia americana motorizzata Ferrari, Mazepin jr percepisce una ghiotta percentuale mentre dalla squadra incassa ‘appena’ 840 mila euro.
Le sponsorizzazioni private rientrerebbero, a questo punto, nel tetto massimo dei 30 milioni? Nodi che Fia e Liberty saranno chiamate a sciogliere prima del semaforo verde al salary cap. Così come resta irrisolta la questione legata alla retroattività dei contratti. Lo scorso anno Charles Leclerc ha firmato un contratto di quattro anni con Ferrari a circa 16 milioni l’anno. Fernando Alonso percepisce da Alpine – secondo quanto riportato da Spotrac – più di 17 milioni. In doppia cifra anche l’accordo che lega Daniel Ricciardo alla McLaren (14 milioni) e Seb Vettel all’Aston Martin (15 milioni).
Ma il salary cap ha ottenuto anche consensi nel paddock. Diversi team principal si sono espressi a favore del tetto sugli ingaggi per contenere le spese folli della F1: Zak Brown della McLaren, Gunther Steiner della Hass e Franz Tost dell’AlphaTauri. Insomma, la rinuncia ai contratti faraonici del passato è più di una tentazione. Il budget cap, in vigore da questa stagione, ha posto il limite di spesa a 145 milioni di dollari per ogni scuderia. Esclusi i costi di marketing e logistica.
In questo senso può essere intesa l’introduzione del salary cap: impedire che i limiti sullo sviluppo tecnico delle vetture possano portare i team a ingaggiare top rider a cifre esorbitanti. A oggi gli ingaggi dei piloti, insieme a quelli dei tre dirigenti più importanti, non rientrano sotto l’egida del budget cap.
Mentre la nuova Formula 1 punta alla sostenibilità economica, finanziaria e ambientale, non vanno sottovalutate le ultime indagini di mercato. Nel 2020 l’audience media per ogni singolo gran premio (87,4 milioni di telespettatori) è scesa del 4,5% rispetto al 2019. I dati, superiori alle annate precedenti, deriverebbero – secondo quanto spiegato dalla stessa F1 – dalla contrazione del calendario causa pandemia (17 gare anziché 23) e dalla prevalenza di gran premi tra Europa e Medio Oriente, con orari penalizzanti per altri mercati (l’Asia). Il circus sembra così aver resistito con onore all’uragano Covid, ma è vietato crogiolarsi.
Diversa la situazione in Italia. Secondo una ricerca Sponsor Value di StageUp e Ipsos, in esclusiva per La Gazzetta dello Sport, nel 2020 gli italiani interessati alla F1 sono 27,3 milioni contro i 31,5 del 2002 (piena era Schumacher-Ferrari). Crollo verticale per gli appassionati, vale a dire coloro che seguono la F1 con frequenza: 7,3 milioni di italiani contro i 14,7 milioni del 2002. Uno degli effetti della crisi della Ferrari, a secco di titoli dal lontano 2007.
L’Italia potrebbe aver acceso un focolaio: da fenomeno nazional-popolare, la Formula 1 si sta affermando come un prodotto segmentato. Il neo direttore di Liberty Stefano Domenicali guarda alle sfide future. Sostenibilità, budget cap e salary cap in testa. Aggiungiamo noi: non dimenticate gli appassionati.