Storia di un binomio leggendario e con ogni probabilità, irripetibile: Schumacher e la Ferrari.
Ci sono rapporti professionali e umani che nascono per poi interrompersi. Nello sport, nascono collaborazioni tra gli atleti e le squadre a cui essi sono legati. Legami che, una volta stretti, prendono una vita propria, andando incontro al destino. Legami infruttuosi, che dopo poco tempo vedono la loro conclusione per incompatibilità tra le due parti. Legami di successo che, nonostante grandi imprese, si sfaldano improvvisamente per incomprensioni o per tradimento. Ma anche relazioni che prendono strade diverse soltanto per via dell’inarrestabile incedere del tempo: la nascita, le vittorie, la fine inevitabile. È la parabola della vita, ma anche la sintesi delle migliori collaborazioni sportive. La conclusione condivisa e serena dopo anni di imprese storiche, e un viatico per la leggenda.
Jean Todt fu un elemento fondamentale per le vittorie di Michael Schumacher. (Photo by Andreas Rentz/Bongarts/Getty Images)
La collaborazione in Formula 1 tra Michael Schumacher e la Ferrari nasce verso la fine del 1995. La stella di Schumacher è luminosa e splendente: ha vinto il campionato del mondo nel 1994 e nel 1995 con la Benetton. È il pilota più forte e completo del momento: una specie di robot programmato per vincere e che, in alcune gare, riesce persino a dare spettacolo con rimonte entusiasmanti. Nell’ultima stagione il suo rendimento è stato impressionante: un autentico dominio nonostante il rivale più insidioso (il britannico Damon Hill) disponesse della fortissima monoposto Williams. È il nuovo fenomeno della Formula 1 dopo il ritiro di Prost e la tragica morte di Senna. Al contrario, la gloriosa e blasonata Ferrari è reduce da stagioni deludenti e sconfortanti.
È dal 1979 che la scuderia di Maranello non vince il mondiale e dal 1990 che non riesce ad essere competitiva per il vertice. La squadra è in netta difficoltà tecnica: non a caso, nel 1991 Prost paragona la propria monoposto Ferrari a un camion. La FIAT, infastidita dagli scarsi risultati e dalle ingenti risorse economiche impiegate senza successo, accarezza il pensiero di chiudere la scuderia.
Nessun pilota sembra in grado di condurre la macchina al titolo mondiale. Nessun dirigente (nemmeno il general manager e guru Jean Todt) sembra poter migliorare la situazione. Per Schumi, è un salto nel vuoto: ha lasciato la vincente Benetton per la derelitta Ferrari. La dirigenza Ferrari rassicura il pilota tedesco sulle possibilità di tornare a competere per il titolo nel giro di due anni. È più di una scommessa. È un azzardo, ma a volte per entrare nella leggenda (e nel cuore degli appassionati) serve anche saper rischiare.
Sin dai primi test, Schumi nota pregi e difetti della propria monoposto: un motore potente, ma poco affidabile, una aerodinamica di livello minore rispetto ai team migliori. L’obiettivo della stagione che sta per iniziare è semplice: tornare a vincere almeno una gara ed essere costantemente competitivi per il podio. Ogni grande risalita va svolta a piccoli passi, soprattutto nel mondo ingegneristico e spietato della Formula 1. Un mondo in cui la realtà dei fatti dà ben poco spazio ad interpretazioni, speranze e sogni.
La prima vittoria di Schumacher in rosso (immagine tratta da www.corriere.it)
Nelle prime gare del 1996, il rendimento di Schumacher oscilla tra ottime prestazioni e ritiri in gran parte dovuti alla scarsa affidabilità della vettura. Poi, nel Gran Premio di Spagna, la prima perla. La pioggia incessante si abbatte sul circuito. Dopo una brutta partenza che lo fa scivolare in sesta posizione, il tedesco inizia a recuperare. È nettamente il più veloce in pista: le condizioni meteorologiche frenano gli altri piloti, ma lui danza sulla pioggia. Compie sorpassi sia all’esterno che all’interno, gli avversari superati come birilli, e in una ventina di giri si porta al comando della gara. Il resto della corsa è trionfale: gli altri arrancano, lui vola.
Vince con 45 secondi su Alesi e 48 su Villeneuve, tutti gli altri sono doppiati. Sono distacchi abissali, dati da una Ferrari non ancora competitiva per raggiungere gli obiettivi di lungo termine.
È l’impresa del pilota: dopo tanto tempo, l’uomo torna dominante nei confronti della macchina.
Seguono altri due acuti, in Belgio e nel GP di Monza. Nelle due occasioni, la Ferrari non è la macchina più veloce in pista, ma una ottima strategia di corsa ed i ritiri di alcuni degli avversari più ostici consentono a Schumacher di arrivare alla vittoria. A Monza, è un tripudio di bandiere ferrariste, un entusiasmo contagiante. C’è ancora da lavorare per stazionare stabilmente ai vertici, ma la strada è quella giusta. Con rinnovato ottimismo, la Ferrari e Schumi si avviano alla stagione 1997. È l’anno del salto di qualità: la macchina è competitiva e affidabile, il tedesco ne è una sapiente guida. Per tutto il campionato, è un duello tra Ferrari e Williams, tra Schumacher e il canadese Jacques Villeneuve. La scuderia inglese può contare per l’ultimo anno sulla potentissima motorizzazione Renault e su una vettura degna delle migliori annate dei trionfi con Mansell, Prost e Hill. La monoposto rossa è leggermente inferiore, ma il talento di Schumi consente di prolungare la lotta al titolo fino all’ultima gara, il GP di Jerez. I due rivali arrivano all’ultimo appuntamento stagionale separati da un solo punto in classifica e fanno segnare lo stesso tempo in qualifica. È un finale incertissimo.
Alla prima curva Schumacher è in testa. Villeneuve è a debita distanza. Il distacco tra i due dapprima aumenta, poi si stabilizza. A un certo punto, il canadese inizia a recuperare. La monoposto di Schumi non ha particolari problemi, ma il tedesco perde lentamente colpi, quasi logorato dalla tensione. Il robot programmato per vincere sta mostrando un volto inedito, estremamente umano. Villeneuve attacca il ferrarista: Schumacher chiude il rivale, lo colpisce e termina nella ghiaia. Nonostante il contatto, Villeneuve prosegue la corsa e si invola verso il titolo. Una mossa disperata, da kamikaze, quella di Schumi. Ha perso la lucidità nel momento cruciale della stagione. D’un tratto, la perfezione lascia spazio all’irrequietezza, all’insofferenza. Uno dei lati oscuri del campione: un uomo deciso, che ha grande fame di vittorie, ma con debolezze caratteriali nello scontro diretto con gli avversari. Limiti che lo portano a manovre avventate, a volte ai confini, altre volte al di là del regolamento. Così, il titolo mondiale del 1997 sfuma sul più bello, ma si mette in vetrina una Ferrari in continua crescita e finalmente in grado di lottare costantemente per il gradino più alto del podio.
Con queste premesse, la stagione 1998 dovrebbe essere quella della definitiva consacrazione. La Williams non è più al livello degli anni precedenti: ci si aspetta così il dominio della Ferrari, ma spunta la McLaren. La scuderia britannica ha messo nelle mani del suo primo pilota, il finlandese Mika Hakkinen, una vettura veloce e affidabile, e ha scelto di utilizzare copertoni Bridgestone. Una mossa azzeccatissima. I classici copertoni Goodyear, di cui la Ferrari dispone, non garantiscono la stessa resa. La scuderia di Maranello fornisce a Schumi una macchina oggettivamente inferiore.
L’avvio di stagione di Hakkinen è fulminante, e soltanto i miracoli del tedesco lungo tutto l’arco del campionato consentono di mantenere il titolo in bilico fino all’ultima gara. Si corre a Suzuka, Giappone: Hakkinen si presenta al duello finale con soli 4 punti in più rispetto al ferrarista, e Schumacher conquista la pole. Tutto è ancora possibile. Ma, al momento della partenza, il motore della monoposto di Schumi si spegne. Il tedesco è costretto a ripartire in ultima posizione. Hakkinen si ritrova in prima posizione e la mantiene saldamente. Sembra finita. Con la forza della disperazione, Schumacher si lancia in una rimonta entusiasmante: dopo 30 giri, è terzo. Ma, ad un tratto, una delle due gomme posteriori esplode: il tedesco è costretto al ritiro. Ancora una volta, svanisce all’ultimo Gran Premio l’obiettivo di una stagione intera. Una nuova dura sconfitta da digerire.
Il drammatico incidente di Schumacher a Silverstone (foto xbp)
Nel 1999 si rinnova il continuo scontro al vertice tra Ferrari e McLaren, ma la stagione di Schumacher viene di fatto dimezzata dal brutto incidente occorsogli a Silverstone. La frattura di tibia e perone della gamba destra lo costringe a saltare diverse gare. Schumi riprende il suo posto in griglia nel penultimo Gran Premio della stagione, in Malesia. Nel frattempo, il suo compagno di squadra Eddie Irvine è in lotta con Hakkinen per il titolo mondiale. A Sepang, al suo rientro, il tedesco guadagna la pole position, conduce una gara perfetta e, sul finire della corsa, lascia la prima posizione ad Irvine. È doppietta Ferrari. L’irlandese vince e sale al primo posto in classifica. La conquista del titolo piloti è possibile, ma, ancora una volta, nell’ultima gara il sogno svanisce. Per il secondo anno consecutivo, è Hakkinen a vincere il titolo. Per la scuderia di Maranello c’è una piccola ma significativa consolazione: il titolo costruttori, dopo 16 anni, è suo. È il segnale che i tempi sono maturi per il grande successo. Con queste premesse, nei primi Gran Premi del 2000 la Ferrari e Schumacher fanno incetta di successi.
Sembra definitivamente l’anno giusto, ma nella seconda parte di stagione Hakkinen si riporta pericolosamente in vantaggio in classifica.
Quindi, nella gara di Spa, il tedesco subisce una sconfitta bruciante. È in testa per quasi tutto il GP, ma negli ultimi giri viene beffato da Hakkinen con un sorpasso che rimarrà nella storia: su un rettilineo, il finlandese affianca contemporaneamente il rivale e la Bar del doppiato Zonta, per poi passare all’interno all’inizio della curva seguente. Una manovra incredibile e spettacolare. Hakkinen giunge primo al traguardo e consolida il vantaggio.
Anno 2000: Bernie Eccleston abbraccia Schumacher tra Coultard, Hakkinen e Barrichello. (Foto di Andreas Rentz/Bongarts/Getty Images)
Il morale di Schumacher è sotto i tacchi, ma nei momenti di maggiore difficoltà il grande campione sa reagire. Nella successiva gara, a Monza, il ferrarista domina, vince e scoppia in un pianto liberatorio in conferenza stampa. Il tedesco di ghiaccio si lascia andare, si dimostra fragile, piange. Lacrime che sembrano contenere anni di delusioni e di sconfitte cocenti a un passo dall’obiettivo, per chi come lui ha la vittoria nel sangue. Ed una volta liberati i sentimenti più intimi, Schumi diventa un tornado, una furia che si abbatte su ogni restante chilometro di pista da lì alla fine del campionato. Continua a vincere e, finalmente, conquista il titolo mondiale a Suzuka.
21 anni dopo Jody Scheckter, il mondiale piloti torna ad essere della Ferrari. È un trionfo storico, che proietta il tedesco nella leggenda e nel cuore degli appassionati. Il viaggio nel deserto iniziato 4 anni prima è giunto nella meta desiderata. In cima al mondo.
Da qui al 2004, sono 5 titoli mondiali consecutivi. La parabola è nel suo punto più alto. Vittorie a ripetizione, un dominio più o meno incontrastato. Il saltello di Schumi sul podio, l’inno tedesco e poi quello italiano, la gigante macchia rossa dei tifosi sotto il palco delle premiazioni: sono piacevoli consuetudini domenicali, ricordi nostalgici e pieni di significato per quegli appassionati che (come chi scrive) erano soliti pranzare in compagnia dei parenti per poi seguire, con attesa febbrile, la partenza del Gran Premio di Formula 1 in diretta sulla Rai.
Anni di successi straordinari che terminano, bruscamente, nel 2005. È una stagione difficile, mesta, per certi versi disastrosa. La monoposto non è competitiva come negli anni precedenti. L’incantesimo è svanito: Schumacher e il compagno di squadra Barrichello si ritrovano a lottare nelle retrovie. Sembra di essere improvvisamente tornati all’inizio degli anni ’90. E Schumi, all’età di 36 anni, sa di non avere più molte occasioni per rivincere il mondiale. Il tempo passa, anche per lui. Non resta che vivere la prossima stagione come una sorta di ultima spiaggia.
Il re abdica, è il turno di Alonso (foto tratta da www.formulapassion.it)
L’avvio del campionato 2006 non è del tutto positivo: la Ferrari è tornata nelle prime posizioni, ma la Renault di Alonso sembra irraggiungibile. Il cavallino rampante non è più la scuderia dominatrice, ma l’affetto dei tifosi è immutato. È stato così negli anni più bui, figurarsi adesso. E di fronte agli appassionati Schumacher rinasce, ancora una volta. Trionfa nella gara di Imola, davanti alla festa dei tifosi italiani. Da Imola, la Ferrari e Schumi rinvigoriscono, lanciandosi all’inseguimento di Alonso. Dalla fine del 2005 girano incessanti voci su un prossimo ritiro di Schumacher: non vi è ancora conferma ufficiale, ma, in cuor suo, il tedesco sa che sarà la stagione dell’addio.
Le sue motivazioni sono a mille: per lui, chiudere la carriera con la conquista del titolo piloti è un obbligo. Nella seconda parte del campionato, Schumacher compie una prodigiosa rimonta che culmina con la vittoria del Gran Premio di Monza. Durante i festeggiamenti, l’annuncio del ritiro dalle corse al termine della stagione. A due gare dalla fine, il tedesco e Alonso sono a pari punti. A Suzuka, Schumacher è al comando della corsa davanti ad Alonso. Il mondiale 2006 pende finalmente dalla sua parte. Sarebbe l’ottavo titolo, la degnissima conclusione di una carriera da leggenda, un nuovo sogno che sta per avverarsi. Ma la realtà, a volte insensibile nei confronti dei meriti umani, confeziona un brusco risveglio: a 17 giri dal termine, il motore della Ferrari cede. Non accadeva da 6 anni. È il segno che la traiettoria della parabola è al suo epilogo.
L’auto di Schumi giace abbandonata e spenta nell’erba giapponese di Suzuka,l’8 ottobre 2006. Foto di Paul Gilham/Getty Images
La monoposto di tanti successi ha tradito il pilota nel momento più importante, ma la reazione del tedesco è di grande umanità: giunto ai box, ringrazia uno ad uno i suoi meccanici e ingegneri per avergli concesso la possibilità di lottare nuovamente per il titolo, quando all’inizio del campionato la Renault sembrava irraggiungibile e il finale già scritto. Alonso vince il Gran Premio e mette le mani sul mondiale. Soltanto una improbabile serie di circostanze nell’ultima gara in Brasile può negargli il titolo. Nell’autodromo di Interlagos, l’ultimo weekend di Schumacher da pilota della Ferrari inizia nel peggiore dei modi: un nuovo problema alla monoposto nelle qualifiche lo costringe a partire dalle retrovie. Non ne va più bene una. È una situazione che non si può più ribaltare. Scattato in decima posizione, Schumi si lancia in un disperato inseguimento. È quinto dopo soli sette giri, ma è costretto a rientrare ai box per una foratura. Dopo il pit-stop, è ultimo: da qui, una rimonta feroce, entusiasmante. Il campione ferito vuole dare una definitiva dimostrazione della sua classe. È un’ultima bellissima recita, a tratti commovente.
Il 29 ottobre 2006 ai Ferrari Days a Monza Schimacher saluta i suoi tifosi per l’ultima volta con la tuta da pilota ufficiale. Al termine della stagione avrà vinto 91 Grand Prix wins e 7 titoli mondiali. (Photo by Flavio Mazzi/Bongarts/Getty Images)
Conclude quarto, ai piedi di un podio che innumerevoli volte è stato suo. Il titolo mondiale va ad Alonso. A Schumacher, un immenso grazie. La parabola è giunta al termine. Quello di Schumacher e della Ferrari è stato un binomio vincente nonostante i dubbi iniziali e le peripezie dei primi anni. È stato un rapporto che ha saputo unirsi e consolidarsi anche dopo la fine del periodo d’oro, per dar voce ad un ultimo tentativo, per mettere la ciliegina sulla torta. Un binomio che è leggenda.
In copertina foto di Alexander Hassenstein/Bongarts/Getty Images