Inter vs Milan, bauscia contro casciavit, Beppe contro Franco.
C’è un Milan-Inter che non si è mai giocato a San Siro. È quello di Beppe, quello di Franco, cavalieri di un calcio in via d’estinzione. I fatti esprimono il contrario, ma è così. Una sfida che continua a ripetersi ciclicamente soltanto nella nebbia medievale dello Stadio Comunale di Traaiàt (Travagliato, per i non bresciani), dove le carte sul campo terroso – a prova di ginocchia – si mescolano in maniera imprevedibile: lì le trame del talento non logorano.
Correre in provincia con garbo e sacrificio agli inizi degli anni Sessanta, con l’obiettivo di arrampicarsi sul Duomo meneghino, era complicato, e non bastava provarci in due con pepite di coraggio nei calzettoni. Ma loro si nutrivano già d’idee chiarissime e nessuna avversità avrebbe potuto arginarli: Giuseppe, detto Beppe, e Franchino, detto Piscinin, due anni più piccolo. Ragazzi di nervo, di concetto, educati all’amor proprio fin dal seno materno.
Il maggiore, mediano metodista, il minore, libero, alla Franz Beckenbauer. Sui loro passi l’onda di un baffetto, un osservatore, il mister dell’Aurora Travagliato: Guido Settembrino. Tocca a lui lanciare la monetina non solo sulle sorti di una raziocinante famiglia che all’anagrafe titola “Baresi”, bensì su quelle del derby più fine e luminescente del mondo: la stracittadina della Madonnina.
Settembrino bussa alla porta dell’Inter di Ivanoe Fraizzoli e Peppino Prisco proponendo allo staff tecnico della primavera le prestazioni dei fratelli nel pallone. È qui che la monetina diventa inafferrabile, scrivendo un capitolo del romanzo di Eupalla molto simile a La coscienza di Zeno dello Svevo. Beppe supera il provino e dal ritiro del 1976 entra nell’universo del Biscione: diciassette stagioni, una fascia da capitano, coppie di Scudetti e Coppe Italia, una Supercoppa Italiana, una Coppa Uefa.
Franchino viene silurato, ma si consola celermente. Un altro provino alla corte del Milan di Buticchi e Carnevali: il successo non poteva più rimandare, e si celebra uno dei matrimoni meno attesi più riusciti della storia, addirittura superiore a quello tra Grace Kelly e Ranieri III. Ventiquattro anni di vessillo rossonero in diversi continenti, una fascia da capitano nello spogliatoio più forte di tutti i tempi, quello del Milan di Arrigo Sacchi: sei Scudetti, tre Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali, due Supercoppe Europee, quattro Supercoppe Italiane.
Immaginate uno scenario differente: anche Franco in sella al rettile dell’altra sponda del Naviglio. I due fratelli avrebbero studiato da Grimm della Beneamata, affiancando Angelino Moratti ed Helenio Herrera nella pubblicazione di fiabe ganassa a livello internazionale. Oppure, con più distensione, avrebbero indossato gli occhialetti nella fascia centrale del campo, col maggiore a picchiare in mediana e il minore a spazzare caviglie e fili d’erba dinanzi la sua area, emulando Dan Aykroyd e John Belushi in The Blues Brothers. L’avvocato Prisco, da sorniona volpe societaria, mandava messaggi inequivocabili al popolo nerazzurro, in primis a tutti i suoi tesserati:
«Io sono contro ogni forma di razzismo, ma mia figlia in sposa a un giocatore del Milan non la darei mai».
Il fratello maggiore doveva ingoiare il rospo, battagliando: questo il mantra del club.
Beppe e Franco diventano dicotomici rivali, cuori di pulsante contrasto, parenti marcanti. Decine di derby disputati con alterne fortune, guidando i propri uomini come generali di guerra civile, poiché conoscono bene le radici del condottiero nemico. A San Siro hanno chinato il capo entrambi, nella casa natìa hanno pagato la cena entrambi, a margine di succulente scommesse. Il 12 novembre 1978, il primo incrocio, quello da non dimenticare più, vinto da Franco di misura con rete di Maldera.
L’ultimo, quello da rimpiangere per sempre, in scena il 18 aprile 1992, aggiudicato ancora dal Piscinin, nuovamente di misura, con firma di Massaro. In mezzo, il 2-0 di Beppe siglato dal doppio Beccalossi il 28 ottobre 1979, nella fortunata stagione terminata con lo scudetto dell’Inter di Bersellini; lo 0-3 di Franco il 19 dicembre 1989, rifilato all’Inter campione d’Italia del Trap all’alba dell’epopea berlusconiana, con firme di Van Basten, Fuser e Massaro. Sentimenti altalenanti vissuti su ogni tackle, come quelli raccontati perfettamente in Brothers In Arms, brano del gruppo rock più incline al sapore degli assoli di lotta: i Dire Straits.
Attraverso questi campi di distruzione
Battesimi di fuoco
Ho assistito alla tua sofferenza
Mentre la battaglia imperversava
E sebbene mi abbiano fatto molto male
Nella paura e nell’allarme
Non mi hai abbandonato
Tatticamente e tecnicamente Franco ha cambiato la storia del calcio italiano. Unico libero in grado di: possedere la stoffa del marcatore arcigno, alzando la spingarda con la Nazionale in una testuggine catenacciara abile ad agire di contropiede; guidare la prima difesa alta di una formazione di Serie A, quella di Sacchi, mettendo in pratica i concetti cardine del gioco totale: pressing ultraoffensivocon recupero celere del pallone, giro palla veloce dal basso, fuorigioco sistematico per gli attaccanti avversari. No, nemmeno Franz Beckenbauer. No, nemmeno Gaetano Scirea.
La capacità di lettura delle linee di passaggio nella propria trequarti, fusa al tempismo espresso con brutali anticipi, ne fanno un manuale aperto per i difensori del corrente secolo. La scelta di France Football di non destinargli un Pallone d’Oro rimbomba come una bestemmia, ma detiene i contorni della sfortuna: in quegli anni regnavano incontrastati Van Basten e Gullit. Il 3 gennaio 1992, Gianni Brera descrive epicamente su La Repubblica il “Baresi II” così:
«è dotato di uno stile unico, prepotente, imperioso, talora spietato. Si getta sul pallone come una belva: e se per un caso dannato non lo coglie, salvi il buon Dio chi ne è in possesso! Esce dopo un anticipo atteggiandosi a mosse di virile bellezza gladiatoria. Stacca bene, comanda meglio in regia: avanza in una sequenza di falcate non meno piacenti che energiche: avesse anche la legnata del gol, sarebbe il massimo mai visto sulla terra con il brasiliano Mauro, battitore libero del Santos e della nazionale brasiliana 1962».
Baresi I è il classico mediano sul quale si può costantemente contare: gregario dal lavoro sporco che permette al cucitore di passaggi di agire indisturbato, fungendo da strumento di disinnesco: spesso i mister gli consegnano l’onere di annullare il dieci avversario, col diktat di togliergli il respiro, sfruttando ogni mezzo plausibile, come Clint Eastwood in una pellicola di Sergio Leone.
Ci è riuscito con Maradona, ha attenuato Gullit, ma è stato beffato da Michel Platini nella fallimentare marcatura dell’ottavo Italia-Francia ai Mondiali in Messico del 1986: era il 17 giugno, un brutto giorno per Beppe, i galletti passeggiarono 0-2. La carica agonistica mista alla pulizia degli interventi in ripiegamento, lo hanno portato in linea difensiva ad arginare fior di bomber, ma il paragone in campo con Franchino è schiacciante: il numero 6 milanista, ispiratosi da bambino al fratello più grande, è leggenda planetaria.
Chissà quanto hanno bruciato nella testa di Franco le due retrocessioni in Serie B del suo Milan nel 1979 e nel 1982. La sfida familiare in stand by due primavere: sono anni terrificanti per la torcida diabolica e Beppe porta con orgoglio i gradi più alti in casa. Eppure, nonostante l’incubo, per il fratello minore si aprirono le porte dell’olimpo calcistico: il Mundial di Spagna ’82. Forse Beppe ha provato umana invidia nel maggio nero di quell’anno, quando Bearzot decise di regalare un sogno a Franco, convocandolo nella più incredibile impresa della gipsoteca azzurra: campioni del mondo contro tutto e tutti.
Ma nel film della famiglia Baresi, i mondi si rovesciano in maniera inaspettata. Sicuramente, il 17 luglio 1994, Baresi I, osservando il forno tropicale di Pasadena coi glaciali rigori tra Brasile e Italia, avrà menato lacrime torrenziali alla visione dell’errore del Piscinin, arrivato eroicamente in finale con la fascia al braccio, dopo l’atroce sofferenza di un infortunio al ginocchio. Sconfitta tremenda all’ultimo atto, il dolore è condiviso dall’intera famiglia.
Gli equilibri tra fratelli sono appannaggio del minore solo fino alla fine del calcio giocato. Franco ha allenato le giovanili del Milan negli anni Duemila, ma la panchina della prima squadra non l’ha nemmeno sfiorata. Beppe ha raggiunto l’apice della sua vita calcistica sulla panca dell’Inter: viceallenatore e assistente nella gloriosa cavalcata di Mourinho, terminata con l’ineguagliato triplete.
La saggezza di Baresi I è stata determinante per l’italianizzazione dello special one: gli ha trasmesso calma, gesso e sapienza tattica in grado di portare una formazione a trazione anteriore, disposta con un 4-2-3-1 dove stazionavano Milito, Eto’o, Pandev (o Balotelli) e Sneijder, a difendere con la furia di una provinciale, per poi colpire a freddo nei punti deboli del contendente. Sorpassi e controsorpassi nel romanzo sportivo dei Baresi.
Oggi Franco è il simbolo del milanismo nell’ellisse, uno dei primi cento calciatori della storia. Oggi Beppe è il simbolo dell’interismo nell’ellisse, ricordato come uomo dell’en plein, adempie alla sua carica di osservatore per la famiglia Zhang, un po’ alla Guido Settembrino. Alti circa un metro e settantacinque, peso tra settantadue e i settantacinque chili, stesso sangue, stesso modo d’issare la bandiera nei cuori di un popolo: pelle diversa.
Se osservate due sessantenni, uno a strisce nerazzurre, l’altro a strisce rossonere, battagliare sul manto polveroso del Comunale di Traaiàt, senza senso del gol, ma con l’istinto di evitarlo, non preoccupatevi, il derby di Milano è anche il gusto di una scommessa tra fratelli: chi perde paga la cassoeula, chi vince fa il brindisi in dialetto con un buon franciacorta.
Per la prima volta il derby di Milano si disputerà all'ora di pranzo per venire incontro alle esigenze cinesi. Il rischio è che la dicotomia nostalgici-moderni perda di vista i veri problemi delle due milanesi e del calcio italiano in generale.