Jvan Sica immagina il soggiorno romano di Garrincha, tra alcol, partitelle e perdizione.
Jvan Sica è un vero appassionato di calcio, e non passa giorno senza che sui canali social lo dimostri con un’immagine, una riflessione o un sondaggio riguardanti fatti “di campo” presenti o passati. Forse è per questo che quando si tratta di scrivere libri o sceneggiature si concede un diversivo: così lo sguardo ruota di 180° e il rettangolo verde tanto caro finisce con l’essere sorpassato, nella scala delle priorità, dagli appassionati stessi. Il campo resta sì sullo sfondo, precisamente alle spalle, ma a catturare l’attenzione dello scrittore sono gli effetti che il calcio ha prodotto e continua a produrre sulla gente, come dimostrano opere – scritte a più mani – quali Maradonapoli e Mosca Football Guide.
Garincia, ultima fatica letteraria di Sica, in questo senso si pone nel segno della continuità. Ne è una conferma già il particolare del titolo, che non rappresenta certo la storpiatura di “Garrincha” bensì il modo in cui il fuoriclasse brasiliano viene chiamato a Roma: la precedenza accordata al dialetto romano nella presentazione conferisce al libro quell’atmosfera che ambienta subito il lettore, e lo prepara a una narrazione non prettamente calcistica.
Per gli amanti del calcio l’approfondimento di Garrincha rappresenta una tappa obbligata per almeno due motivi: innanzitutto perché si sta parlando di uno dei più grandi calciatori della storia che ebbe un impatto decisivo – quanto o più di Pelé – sui titoli mondiali conquistati dal Brasile nel ’58 e, soprattutto, nel ’62; e poi perché i successi del campo non vennero replicati fuori: terminata la carriera, la caduta di Mané fu inesorabile sotto tutti i punti di vista e, si sa, le anime tormentate inclini all’autodistruzione sono calamite irresistibili e inesauribili.
Sica non poteva non cedere alla tentazione, e alla più grande ala destra di tutti i tempi ha pensato bene di dedicare addirittura un romanzo. Già, perché tutto ciò che troverete in Garincia, dialoghi compresi, è frutto dell’immaginazione dell’autore. Immaginazione che non si pone in antitesi con il concetto di verità, ma che anzi talvolta rappresenta l’unico strumento idoneo a tradurla e renderla fruibile, popolare e non banale. Tanto più che lo scenario in cui avvengono gli eventi immaginati è assolutamente reale.
La storia è ambientata nella Roma del 1970, dove effettivamente Garrincha accompagnò la moglie Elza Soares, nota cantante brasiliana ingaggiata per esibirsi in una serie di spettacoli al Teatro Sistina, e dove lo stesso Mané firmò un contratto come improbabile testimonial per l’Istituto del caffè brasiliano in Italia.
Garrincha ha da poco compiuto 36 anni e ufficialmente sarebbe ancora un calciatore, benché la sua ultima partita, un’amichevole con la maglia del Flamengo, risalga al mese di aprile del ’69, mentre sono quasi quattro gli anni trascorsi dall’ultimo match con la Nazionale (1966).
Tuttavia, l’ex stella del Botafogo è appunto già un “ex”, avendo imboccato un tunnel senza uscita chiamato alcolismo che lo porta giorno dopo giorno a congedarsi sempre più da se stesso, fino a diventare irriconoscibile nel vero senso della parola: spesso e volentieri i personaggi che incrocia durante il soggiorno romano manifestano seri dubbi sulla sua identità, tanto è malconcio.
Attratto com’è dai banconi dei bar e deciso a lasciarli solo strisciando, nel suo voltare le spalle al terreno di gioco Garrincha supera anche l’autore del libro. Sica allora si trova costretto a cambiare registro, e, preoccupato dell’inadeguatezza e dell’inconsistenza mostrate da Mané nel mondo dei grandi, cerca in tutti i modi di ricondurlo alla sua passione primaria, il calcio, puntando sul bambino che ancora resiste in quel corpo consumato dalla vodka, dai sensi di colpa (un anno prima Garrincha fu responsabile di un incidente stradale in cui perse la vita la suocera) e dalla depressione.
Eccolo dunque partecipare a partitelle improvvisate a Campo dei Fiori o sulla spiaggia di Torvaianica: il fatto che non siano contesti calcistici regolamentari e ufficiali avvalora l’opera di recupero della passione riportandola alla sua essenza.
È uno spettacolo per i ragazzini a cui si unisce, nonché un sollievo per il lettore, vedere Garrincha mettere da parte la vita e tornare di colpo se stesso, adesso riconoscibile, ovvero l’artista del pallone di un tempo. Dispensatore di assist, sombrero, e della celebre finta a destra, quella realizzata con la gamba più corta di 6 cm, quella che smentiva all’atto pratico i difensori avversari che pure giuravano di conoscerla a memoria: un vasto repertorio con cui arrivare con continuità al gol, in prima persona o con la mediazione di un compagno.
Ma proprio mentre il download della felicità sta per giungere a compimento, e la simbiosi con il pallone sta per convincere anche l’ultimo scettico rimasto su chi sia davvero quel fenomenale ragazzo invecchiato, il vizio e la tristezza trovano sempre il modo di interromperlo sul più bello, rivendicando a gran voce gli spazi arbitrariamente sottratti. A volte assumono le sembianze della stessa Elza Soares che reclama attenzioni a base di alcol e riporta Mané nella perdizione, compromettendo così il tentativo dell’autore di salvargli la vita. Ma averci provato ne è valsa la pena.