Calcio
17 Dicembre 2020

Genoa-Siena: tra farsa e realtà

Una tragedia inscenata sul palcoscenico dello Stadio Ferraris.

Si può ancora parlare di curva? Nel senso, si deve ancora parlare di una cosa che molti di noi probabilmente hanno vissuto ad un livello tale da interiorizzarla, e quindi da non sentire il bisogno di analisi accademiche o risvolti filosofici? Molto probabilmente la risposta sarebbe no.

Non serve parlare della curva: basta andarci, salire i gradoni, passare tutti ammassati dal buio alla luce, infine vedere quella porzione di mondo tanto agognata per capire quanto essa sia una cosa pratica. Eppure, adesso lo stadio è vuoto e il calcio che vediamo su ogni tipo di piattaforma è solo un lontano parente di quello che abbiamo conosciuto. Quindi, forse si.

Tutto sommato serve parlare di curva – proprio perché manca la sua fisicità – e forse adesso con un po’ di distanza si potrebbe parlarne anche in maniera diversa. E dato che ormai è un luogo comune definire la curva come un palcoscenico, dunque, come si potrebbe raccontarla se non attraverso una rappresentazione teatrale?

 

Quello che voglio proporvi è uno spettacolo immaginario basato su un evento molto discusso – ed oltremodo ambiguo – di qualche anno fa, ovvero, la protesta dei tifosi genoani contro la loro squadra nella partita del 22 aprile 2012 persa contro il Siena (1-4). La partita della famosa spoliazione dei giocatori.

 

Quanto successo quel giorno ha tutti gli elementi di quella che può essere definita come una vera e propria performance, in grado, nel suo mimetismo tra realtà e finzione, di confondere lo spettatore lasciandolo inerme innanzi agli avvenimenti. Siamo infatti di fronte a quella confusione dei piani che la studiosa Erika Fischer-Lichte ha descritto come meccanismo di imprevedibilità del loop di feedback, nel suo Estetica del Performativo (2004).

Ovvero, l’impossibilità di collegare una determinata azione a una diretta conseguenza, dal momento che i due quadri (quello performativo e quello della realtà) non vengono apertamente dichiarati, chiamando di fatto in causa lo spettatore a prendere consapevolezza della sua risposta in base al quadro d’azione che sceglie di seguire.

In questa confusione, giocatori, tifosi, dirigenti e poliziotti possono essere visti sia come officianti di un rito collettivo reale – la partita e i suoi disordini – in altre parole, attori di una messa in scena. Sta soltanto a noi scegliere il piano di comprensione. Immaginiamo per un attimo, dunque, di essere a teatro, spettatori paganti di un evento di finzione programmato ad una certa ora ed in una certa data.

Pensiamo dunque di essere ad una rappresentazione che fonda insieme diverse opere, magari quelle di uno dei più famosi drammaturghi, William Shakespeare. In particolare pensiamo di assistere a due delle sue opere più celebri: il Macbeth e l’Amleto. Il dramma in questione, in quanto si tratta di una narrazione del conflitto, narra le vicende di un popolo umiliato dal suo sovrano che, come gesto estremo, si solleva per attaccarlo all’interno del suo castello.


PRIMO ATTO


In questa piece sono vari i protagonisti: dal capitano (poco) coraggioso, al ciambellano arbitro di corte, dai poliziotti consiglieri oscuri, all’ambiguo eroe dal passato torbido che si erge a garante della pax-ultras.

Torniamo ora al 22 aprile 2012, al Genoa che stava affrontando la sua ennesima stagione in apnea. Il campionato 2011/2012 si rivelò, infatti, essere uno dei più travagliati degli ultimi anni per il Grifone. La squadra, allenata in quel momento da Malesani (al suo ritorno dopo la parentesi di Marino e prima del suo secondo esonero), aveva visto la sua ultima vittoria il 7 marzo nella sfida contro la Lazio.

Sulla sponda rossoblù del Bisagno, il clima era a dir poco teso e già nella partita contro il Novara, terminata con il risultato di 1-1, i tifosi avevano avuto modo di manifestare il loro malcontento in una protesta che La Repubblica (edizione Genova), definì come un “vivace ma civile faccia a faccia”.

 

Ecco, fermiamoci qui e, da questo punto di realtà, facciamo partire la nostra trama shakespeariana-calcistica. Il sipario si alza all’8° minuto del secondo tempo quando, sul risultato di 0-4, entra in scena l’attore principale: La Gradinata Nord.

 

Il fatto che siamo entrati nel mondo del performativo lo suggeriscono anche gli articoli pubblicati nei giorni successivi, come quello de Il Fatto Quotidiano che scriveva: “Agli osservatori più attenti delle cose del calcio quanto è successo allo stadio Luigi Ferraris di Genova avrà ricordato la performance di Ivan Bogdanov, tifoso serbo che il 12 ottobre del 2010 salì su una balaustra a due passi dal campo per mostrare il proprio coraggio ai propri compagni di viaggio.”

 

All’8° minuto del secondo tempo, dunque, la Gradinata Nord prende vita, libera i suoi piedi dal cemento e si muove verso la tribuna. Un corpo unico, eterogeneo nei suoi singoli, entra in scena preannunciato dalla nebbia dei fumogeni. La direzione della curva è il tunnel degli spogliatoi, che al Marassi è posizionato in una sorta di cunicolo senza vie di fuga. Il corpo si muove come la foresta di Birnam nel Macbeth di Shakespeare.

Nel momento in cui la Gradinata Nord si palesa con le sue intenzioni e la sua fisicità, la partita viene sospesa ed entrano in campo le forze dell’ordine. I giocatori del Siena continuano a scaldarsi facendo dei passaggi, consapevoli che la foresta di Birnam non è venuta per loro.

Invece i rossoblù sanno cosa significa tutto questo e, riuniti a testa bassa vicino al cerchio di centrocampo, sono tutti un solo Macbeth che mormora tra sé “Sento venirmi meno la fiducia/ e mi s’affaccia il dubbio/ sull’equivoco profetar del diavolo/ che ti mentisce facendoti credere/ di dirti il vero: “Non devi temere/ fintanto che non vedrai avanzare/ la foresta di Birnam verso Dursinane…”/ Ed ora una foresta/ si muove veramente verso Dunsinane” (Macbeth, Atto V, Scena V) .

Dall’alto del tunnel momentaneamente occupato, e liberato dalla sua funzione di mero passaggio, qualcuno tra i tifosi si erge a rappresentante della voce corale e cerca l’altro capo per eccellenza, il capitano. Marco Rossi con la fascia in mano e non al braccio, perché ormai detronizzato e paralizzato come i suoi compagni da tutto ciò che sta avvenendo, si avvicina ai tifosi scortato dalla polizia.


SECONDO ATTO


Il risultato, la classifica ed il calcio stesso, ora sono fuori dallo stadio di Marassi: quello che sta avvenendo è l’espressione più alta del sentimento di rabbia e frustrazione, che sublima la curva come corpo, liberandola dal recinto in cui è confinata e solitamente si esprime, lasciando tutti spiazzati perché elemento fuori copione (momentaneamente).

La curva non è più dietro il campo, bensì lo sta fagocitando. I “prigionieri” rimasti sul prato verde si affannano in telefonate, confabulazioni e interpretazioni. Nessuno sa esattamente cosa fare perché questo gesto va fuori dall’ordinario. In questa confusione il capitano, dopo il suo dialogo con il corpo-curva, torna a testa bassa verso i compagni. I poliziotti in borghese attorno a lui diventano i saggi consiglieri dell’ordine prestabilito. Lo abbracciano, lo proteggono e forse tramano anch’essi.

 

La novella che il capitano detronizzato porta al suo popolo è inaudita: “Bisogna levarsi la maglia”. Ecco che Rossi diventa un boia che raccoglie gli scalpi rappresentati dalle maglie dei suoi compagni, come se stesse sottraendo loro un pezzo di identità, per lo meno quella professionale.

 

L’atto è doloroso e tragico nella sua forma più sublime, così inaspettato (alcuni fonti giornalistiche hanno parlato invece di una premeditazione) che qualcuno non regge l’emozione. Giandomenico Mesto scoppia a piangere. Proprio lui, un Gosens ante-litteram dell’ultimo Genoa europeo targato Gasperini. I compagni lo abbracciano ma Giandomenico sa che è finita, tant’è che a fine stagione andrà al Napoli.


TERZO ATTO


Il telecronista di Sky commenta: «Questo non è più calcio» e infatti siamo nel mondo performativo e teatrale, che esagera emozioni e pulsioni regalandoci la rappresentazione simbolica di uno stato d’animo. O per meglio dire, siamo esattamente a metà di due mondi, sta a noi decidere cosa seguire. Solo che in quel momento nessuno riesce a capire su quale piano si stia svolgendo l’azione.

Durante l’attesa, il corpo-curva fa una concessione agli “innocenti”: il Siena, la terna arbitrale e tutti coloro che non appartengono a questa faida, vengono lasciati liberi di passare imboccando il tunnel. L’ex Mattia Destro (tra l’altro a segno durante la partita) passando sotto il corpo-curva accenna un saluto, quasi a voler ribadire una vicinanza o a voler ringraziare per la liberazione.

Marco Rossi, con le braccia piene di storie personali, si appresta così a portarle in sacrificio alla curva-corpo. Ma ecco il colpo di scena che inizia a dipanare le nebbie della trama. Se ci trovassimo infatti nella realtà, l’imprevedibilità regnerebbe sovrana e ogni riposta sarebbe inadeguata. Invece siamo a teatro e, come da copione, ci deve essere un personaggio che si muova affinché la storia giunga ad un finale.

Così, nel momento in cui Rossi sta per consegnare le insegne, ecco arrivare Beppe Sculli con la sua maglia ancora indosso, l’81 che nella smorfia napoletana simboleggia i fiori, la sfera sentimentale, l’affettività e la rinascita. Il numero che preannuncia lo sviluppo della trama e identifica i ruoli dei protagonisti.


COLPO DI SCENA


Sculli, che fino quel momento (per lo meno a favore di telecamera) era rimasto dietro le quinte, invade la scena catalizzando l’attenzione su di sè. Sovrasta la figura del capitano ormai disconosciuto e viene (letteralmente) innalzato dal corpo-curva. L’attaccante si fa avanti allargando le braccia in segno distensivo, ma allo stesso tempo deciso.

Non vuole togliersi la maglia, ribadisce la sua volontà in maniera interrogativa «La devo togliere anche io?». E così chiedendo, si avvicina al tunnel degli spogliatoi. Il suo parlare è concitato, sovrastato dal coro di urla in sottofondo: allora viene issato da uno dei rappresentati del corpo-curva e stretto in un abbraccio catartico.

Quel conciliabolo racchiude il teatrale non detto per gli spettatori: quello che non sapremo mai, anche se l’evidenza della confabulazione all’orecchio non può non rimandarci ancora una volta a Shakespeare. In questo caso all’Amleto, dal momento che il Re Claudio uccise suo padre versandogli il veleno fatale proprio nell’orecchio.

È una stretta veloce ma forte che descrive un mondo arcaico assolutamente etero normato e socialmente certificato, attraverso il quale si palesa quel ritualismo che, in un continuo gioco di rimandi, questa volta ci permette di tornare al mondo che conosciamo. Qui, dove il cambiamento è concepito solo come momentaneo e straniante. E così, nell’orecchio di Beppe vengono detti i segreti della finzione teatrale.


ULTIMO ATTO


Marco Rossi riacquista i gradi di capitano e riconsegna le maglie ai compagni, un gesto che simboleggia la pax-ultras raggiunta: la partita può ricominciare. I due piani sono stati sciolti al punto che, in quei restanti 37 minuti di gioco, il Genoa segna (autorete di Del Grosso quasi un gesto di ringraziamento per lo scampato pericolo). É il ritorno all’ordine, dove la sconfitta è accetta solo se la rabbia può essere sfogata, non repressa e teatralmente performata. Il colpo di teatro del corpo-curva è servito più ai suoi attori che non al calcio.

Il mondo reale, scandito dai processi che hanno seguito la vicenda, ha poi dimostrato tutta la durezza della realtà che riprende il pieno controllo degli eventi e del corso della storia dopo il momentaneo sbandamento. Solo la possibilità di una lettura altra, performativa e teatrale, ci ha potuto regalare una versione diversa, in grado di toccare il nostro animo (o per lo meno quello di chi scrive), portandoci a riflettere su elementi simbolici e non contingenti come la questione della legittimazione del potere, la divisione dei ruoli, il valore dell’identità e i limiti della protesta.

 


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