Ilija Nestorovski, chi era costui? E, soprattutto, cosa diavolo centra con quella squadra dalle maglie nerazzurre, vincitrice dell’ultima Europa League, che siede al tavolo delle grandi d’Italia? D’altronde il trentaquattrenne macedone, nel suo peregrinare pallonaro, non ha mai toccato Bergamo. Palermo, Udinese, Ascoli. Gli è bastato, però, mettere il suo piattone destro in porta, alle spalle di un esterefatto Berisha, per dare la svolta alla storia ultracentenaria dell’Atalanta.
Il 21 settembre 2016, nel cuore della Lombardia, piove, fa freddo e iniziano a girare voci su un esonero imminente del nuovo tecnico Gian Piero Gasperini. Una vittoria in quattro gare. Poco gioco. Nessuna svolta promessa. Il Palermo di De Zerbi sbanca lo stadio Azzurri d’Italia al 90esimo, ma il presidente Antonio Percassi decide di non agire “di pancia”. Non ascolta le contestazioni, che aumentano di giorno in giorno, e conferma il mister. Da lì tutto cambia. Otto anni dopo, troppo facile ammettere che la scelta del boss, nonchè ex capitano della Dea negli anni Settanta, sia stata lungimirante.
Protagonista in Champions e in Serie A, tre finali di Coppa Italia, la stra vittoria contro il Leverkusen di Xabi Alonso nella magica notte di Dublino. Atalanta non fa più rima con rivelazione o sorpresa.
Certezza, realtà. “Una seduta dal dentista”, copyright Pep Guardiola. Quel dentista, però, che dalla cantera bianconera è arrivato sin sul tetto d’Europa, è un tipo particolare: duro, spigoloso, antipatico, eppure capace di trovare sempre la giusta miscela tra carneadi, promesse e vecchie certezze per spingere, un gradino alla volta, i bergamaschi nel gotha del calcio. Gasperini che gioca bene. Gasperini che conduce i suoi ragazzi oltre il limite. Gasperini che uccide i suoi figli non appena l’acceleratore della loro forza di volontà smette di indicare i 200km all’ora.
Senza mezze misure
Eccolo, il nocciolo della questione. Che gli allenatori, tutti, pretendano il massimo e spremano la ciurma, è noto, giusto e risaputo. E il conto dei sergenti di ferro si è perso negli anni. A Zingonia, però, ai primi segnali nuvolosi, l’aria inizia a trasformarsi presto in tsunami. Il Gasp è uomo diretto e, oramai, non si contano più i litigi con gli ex atalantini. Passati da stelle amate dai tifosi a scaldapanchina, quando va bene. Gomez, Muriel, Ilicic, Musso. Tra talenti e meteore, il filo sottile è quello di una guerra psicologica che nemmeno sembra cominciare. Basta un’avvisaglia di svogliatezza, la gamba che resta indietro e si finisce dietro la lavagna, in attesa di essere imbarcati per chissà quale destinazione.
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meglio di Contrasti.
Bistrattati, anche a mezzo stampa, vedi alla voce Teun Koopmeiners, altro big che rischia di finire nella lista della spesa di quelli che, usciti dalla Città Alta, hanno ridimensionato il proprio valore. Elenco infinito, dentro il quale salviamo per un pelo il Kessiè del Milan (non quello svogliato al Barçelona) e pochi altri. Dal lontano 2016, chi abbandona il Centro Sportivo Bortolotti sembra perdersi dentro la mediocrità. Come se il solo coach torinese sapesse estrarre il meglio, anzi l’eccellenza, da chiunque calchi il prato della bassa bergamasca.
Una volta usciti non si torna indietro e non per modo di dire. Con modi bruschi, talvolta violenti, e basta andare a rileggersi quella sorta di feuilleton di basso rango che è stato il caso Papu Gomez. Non c’è mistica, in questa storia. Semmai, e parlando di una “dea” pare quasi scontato, accenni di mito, come quello greco di Medea che ammazza i suoi pargoli per vendetta. La vendetta, nel severo mondo di Gian Piero Gasperini, non sembra esserci. Cieca fiducia nel suo metodo di lavoro, descritto come “dittatoriale” da vari suoi giocatori, ex al veleno degli anni d’oro della Dea.
Ne scrisse, tre anni fa orsono, Giancarlo Padovan. Ex direttore di Tuttosport, esperto di ciclismo e di calcio. Estate 2021. Il picco del periodo di rottura tra l’Atalanta di un tempo e quella che si stava consolidando. Da squadra altalena a next big thing sotto la gestione Percassi, sino a formazione di prima fascia, per la quale il posto in coppa o esiste oppure è un flop. L’epoca delle parole di Padovan si riferisce ai casi Gomez, rieccolo, e Gollini. I primi screzi di quel “metodo” ormai conclamato del caudillo piemontese.
“Si sa che non tratta bene i calciatori, che i suoi metodi sono duri e che, anche verbalmente, gli sfugge qualche parola di troppo”.
Dal passato, come un “It” qualsiasi, riemerge un personaggio ormai dimenticato, nella serie di scontri in stile wrestling, tra il mister e calciatori. Martin Skrtel. «Lo slovacco ex Liverpool, dopo una settimana di ritiro gli chiese un colloquio nel quale avrebbe voluto dirgli che con quei ritmi di allenamenti non si trovava bene. Gasperini non solo non gli parlò, ma dispose che venisse ceduto al più presto, cosa puntualmente avvenuta». Parabola che si è ripetuta con il difensore inglese Godfrey, preso dall’Everton in estate e ceduto all’Ipswich nel mercato invernale. E se pensate che la ruvidezza mista a spavalderia si riversi solo sulle “sue” creature, vi state sbagliando.
Comunicazione da Serie B
Della telenovela con il Chiesa dei tempi viola sappiamo tutto, anche perchè si misero di mezzo Commisso e il compianto Joe Barone. Del buon sangue che non scorre con nessuna tifoseria, Genoa escluso, è storia trita e conferma la poca simpatia che il fu mediano del Pescara intrattiene con tre quarti dell’Italia calcistica. Ma c’è di più. Scrive sempre Padovan:
«A far da sfondo almeno un paio di episodi che videro l’allenatore protagonista negativo. Nel primo caso, espulso durante un Sampdoria-Atalanta, Gasperini scagliò a terra, senza un minimo di ragione, il segretario generale della Samp, Ienca, che si trovava nel tunnel degli spogliatoi. Nel secondo, in un controllo antidoping a sorpresa, dopo Atalanta-Torino e prima di una gara di Coppa Italia, fu protagonista di un alterco dai toni eccessivi con il funzionario incaricato, che voleva fare il test dell’urina prima dell’allenamento».
Quando un gruppo è unito, di solito si fa quadrato per tenere tutti alla larga dalla squadra. Ipotizzando qualsiasi cosa, anche surreali complotti, per cementare la fame di vittoria. Nel caso del Gasp il cerchio magico si riduce a lui stesso. Solitario y final, forse più incazzato che triste e ci perdoni Osvaldo Soriano. Lo sguardo torvo come quello di un pistolero di Sergio Leone. Gli occhi come due spilli. Le urla che squarciano la sua gola e il cielo bergamasco. L’attitudine al meglio che si trasforma in odio. Parafrasando un suo corregionale dalla provincia di origine diversa, ma con medesimo carattere, Flavio Briatore, “sei fuori!”, gridato come nel talent di poco successo trasmesso anni fa.
«Non ti senti una persona, ti senti un numero. Non hai alcun rapporto con l’allenatore» confessò alla stampa danese Joakim Maehle, parlando di “approccio dittatoriale” e “gestione strana, basata sulla paura”. A fare da eco Timothy Castagne, ora in Premier, dalle colonne del Guardian. «Volevo un allenatore con cui avere un rapporto, che potesse aiutarmi a lavorare sui miei punti deboli e cose del genere. Gasperini non parlerebbe con nessuno. È ottimo tatticamente e ha ottime idee, ma non avevamo nessun tipo di rapporto». E ancora Merih Demiral: «Gasperini come allenatore non si discute, parlano i risultati per lui. Però a me non piace il suo modo di trattare i giocatori. Umanamente non ci andrei a cena».
Il mister torinese adora la sfuriata, forse troppo. Se lo scontro con i giocatori è fatto assodato, meno si è detto e scritto delle nevrosi del Gasp contro il mondo esterno. Ovvero, l’universo intero.
Senza ritornare al duello con Chiesa, basta prendere in esame episodi recentissimi. Vigilia di Coppa in Catalunya. Al centro delle domande dei giornalisti, l’infortunio di Lookman. Con Zaniolo ormai destinato a Firenze, ci vuole un sostituto del nigeriano. “Mercato? Chiedete alla dirigenza”.“Regali all’allenatore? Semmai all’Atalanta stessa!”. “Chi acquisterei dai blaugrana? La nostra società vende, non compra”. Se tre indizi fanno una prova, un trittico di risposte così taglienti non lasciano spazio alla fantasia. Maldini e Posch, arrivati nella Bergamasca pochi giorni fa, rischiano di diventare costosi comprimari, a cui Gasperini ha già indicato il loro ruolo. Panchina, come mosse della disperazione.
E dire che il coach ha sempre avuto la fama di manager alla Ferguson piuttosto che quella di tecnico puro. Celebre è la storia della presunta percentuale del 3% che la società gli riconoscerebbe sulle plusvalenze dei calciatori ceduti, dunque valorizzati durante la sua gestione. Il primo ad avanzare pubblicamente questa ipotesi era stato Brambati, al quale Gasperini aveva risposto laconico “Cazzate”, salvo poi ammettere in un’intervista al Corriere dello Sport di un anno dopo:
«La percentuale sulla plusvalenze? Ehm… Alla fine del primo anno, quello del boom, furono ceduti Caldara, Kessie, Conti, Bastoni, Gagliardini. Avevo uno stipendio basso (ride, ndr), Percassi premiò il merito, integrò. Questa felice tradizione si perpetua ogni anno».
Un tema che tuttavia infastidisce il tecnico atalantino, così come ultimamente quello del VAR. Dopo un gennaio complicato, ma soprattutto dopo il pareggio casalingo con il Torino, Gasperini ha sbottato: «Io sono assolutamente in difficoltà col VAR, credo che abbia completamente modificato il gioco del calcio. Non ha valorizzato il gioco del calcio, l’ha peggiorato enormemente. Nell’insieme ha creato tanta confusione, anche nei tifosi. Perché le polemiche sono triplicate in quanto non c’è certezza di regolamento. Può essere tutto e il contrario di tutto. È uno strumento che è diventato troppo poco utile». Poi dopo il Bruges: «Questo non è più calcio, non mi piace».
Grazie mille Gasp! Per fortuna che, dopo otto anni, ci sei arrivato anche tu. E dire che, sin dagli albori, e come tutte le squadre, anche la tua Atalanta ha beneficiato di questa cervellotica invenzione. Non ti ricordavamo d’accordo con il collega Max Allegri quando, nell’ottobre 2017, disse che si trattava di un marchingegno soggettivo e non oggettivo e che avrebbe trasformato il pallone in baseball. Era il post gara di un infuocato 2-2 tra la Dea e i bianconeri. Mandzukic che segna il 3-1, il ricorso al video, una manata di Lichsteiner mezz’ora prima e niente gol. Acqua passata. Eppure, il “nostro” prosegue nella sua trasformazione in Dottor Jekyll fine tattico da panchina e Myster Hyde pessimo comunicatore. O bianco o nero, non si scappa.
Alla ricerca di nuovi nemici
Pugno duro, modi militareschi, cultura del sospetto, tendenza all’aggressione verbale e non solo. Il tutto, unito a una sorta di maledizione per chi varca i cancelli del campo di allenamento in cerca di altri lidi. Per soldi o per vittorie, lasciando il talento dentro l’armadietto del nuovo stadio bergamasco. A Gian Piero Gasperini da Grugliasco, però, sembra andare bene così. La famiglia Percassi è dalla sua parte sempre e comunque, e i numeri non possono che dargli ragione. I soci americani lo sostengono con una campagna acquisti che ha registrato uscite faraoniche a fronte di ingressi contenuti. Profili richiesti espressamente dal tecnico.
Uno a cui piace mediare poco, anche in ambito calciomercato. Metodi spicci, richiamo al Lee Ermey di Full Metal Jacket.
Parole di compassione poche e il caso Scalvini, infortunatosi nell’ultima, ininfluente partita dello scorso torneo prima di Euro ’24, ne è la conferma. «È giovane, la vita è fatta anche di questi stop» come se fosse la normalità saltare il torneo continentale da papabile titolare. Il calcio come un conflitto che si combatte da solo. E, nel caso, si puniscono gli eventuali “traditori”. Avanti per la sua strada che, al momento, indica sempre la stessa direzione. Viale Giulio Cesare 18, dentro il catino che i tifosi della Dea riempiono di canti e tifo. La Champions da protagonista. Una piacevole abitudine. A otto anni da quel gol beffa del macedone Nestorovski. L’unico calciatore, forse, a cui il Gasp potrebbe anche accennare un sommesso “grazie”.