Vita, vanità e avventure di un uomo totale.
Costa Azzurra, Francia, agosto del Cinquantadue. Alle 4 del mattino, sfreccia una Fiat Spider fino allo scontro fatale con un furgone: al suo interno quattro macellai, due di loro muoiono sul colpo. A bordo dell’automobile, accanto alla giovane Anne-Marie d’ Eistainville, il responsabile del tragico impatto è il trentenne Gianni Agnelli. Un eccesso imperdonabile, una scena degna del Sorpasso di Dino Risi, taciuta dai media italiani ma destinata a stravolgere la vita del rampollo torinese che, sventata miracolosamente l’amputazione di una gamba e costretto a vita all’utilizzo del bastone, decide di sposarsi. Così, ancora claudicante e retto dall’ausilio di due stampelle, si unì l’anno successivo a Marella Caracciolo: cessarono, almeno formalmente, gli anni ruggenti di donne e dive, di viaggi e cocaina e notti d’azzardo.
Nel giro di qualche lustro, Gianni Agnelli sarebbe definitivamente diventato l’Avvocato.
Seppur all’epoca dell’incidente la storia della famiglia Agnelli fosse già da decenni tutt’uno con quella d’Italia, fino al ‘66 la vita di Gianni scorre parallelamente a quella del Paese: dopo aver rifiutato, nel ’45, il timone della FIAT offertogli da Valletta, Agnelli vivrà un ventennio di formazione e mondanità tra Capri, la Costa Azzurra e l’America. Sono anni in cui il dandysmo d’ispirazione materna lo rende un’icona mondiale, nonostante la drammatica vicenda familiare lo inchiodi ad una tragica realtà personale e intima.
Gianni Agnelli si era infatti ritrovato orfano di padre a quattordici anni per un incidente, per un altro incidente aveva perso la madre a ventiquattro, quella madre che follemente aveva amato Curzio Malaparte, con Mussolini costretto ad intercedere per evitare un’insanabile spaccatura familiare. Sempre nel ’45, quindici giorni dopo la madre muore il nonno. Più tardi, un fratello schizofrenico (di cui i media nulla hanno mai detto) muore trentacinquenne e forse suicida, mentre sul finire del secolo Giovannino, nipote 33enne designato al comando Fiat, viene divorato dal cancro. In ultimo Edoardo, figlio incompreso e suicida, chiude il tragico cerchio di un destino infido che neanche il più beffardo degli uomini d’Italia poté beffare.
Malgrado tutto, oltrepassando una vita crivellata di lutti e intemperie, Gianni Agnelli riuscì ad essere il gattopardesco demiurgo del capitalismo d’Italia, multiforme superuomo della storia del Paese. Dannunziano, esteta e futurista, di aristocratica e febbrile vitalità, di lui dicono “apprezzava il coraggio come principio”, rimarcando un attributo che certo gli servì per salire al comando della Fiat, nel ’66.
Quarantacinquenne, alla vigilia del maggio francese e degli anni di piombo, Gianni Agnelli è ormai re d’Italia: incanutisce, mette la cravatta col pullover, crea stili e modi di dire, di fare, di vivere. Si muove in elicottero, i media ne celebrano il mito e l’intera storia d’Italia coagula intorno al vertice dell’azienda più “filogovernativa” e controversa dell’Italia unita, che tra sospetti aumenti di capitale, delocalizzazioni e incentivi di stato – secondo l’analisi di Federcontribuenti (2012) circa 220 miliardi di euro dal 1975 in poi – ha fatto degli Agnelli la famiglia probabilmente più ambigua e divisiva del Paese.
Tuttavia, nonostante critiche e contestazioni anche feroci, il carisma e la fama dell’Avvocato apparvero l’efficace panacea di ogni torbidezza: in questo senso, oltre al decisivo controllo della stampa, fu determinate l’ammaliante popolarità acquisita grazie allo sport, che l’Avvocato seguiva e praticava con lo stesso charme con cui viveva e con cui solo si può nascere . . .