Storia del ciclista che visse due volte: polvere e gloria, solitudine e rivincita.
La porta dell’inferno. Così è definito l’inizio della strada che conduce al Monte Zoncolan. Dieci chilometri con pendenza media dell’11,5 %, una delle salite più dure al mondo. E l’inferno, il 23 maggio 2010, fu redentore nei confronti di un uomo che l’Inferno, quello vero, lo aveva toccato con mano per almeno due anni. La gloria, la caduta fragorosa, la faticosa risalita. Quello che caratterizza la fragile esistenza umana. Rialzarsi dalle sconfitte e dalle umiliazioni. Rialzarsi, o fermarsi per sempre. In mezzo, la sofferenza, necessaria compagna di viaggio nella strada verso il riscatto.
Ma cos’è l’Inferno per un ciclista? Il mal di gambe, la crisi inaspettata, i postumi dolorosi di una caduta, ma anche il vedersi coinvolti in uno dei lati oscuri del ciclismo e dello sport in generale: il doping. Alla vigilia del Tour de France del 2006, esplode in tutto il suo clamore la Operacion Puerto, uno scandalo sportivo nel quale diversi atleti (per la maggior parte ciclisti) vengono accusati di far uso di sostanze dopanti sotto il consiglio e la supervisione del medico spagnolo Fuentes. Tra loro, il principale favorito per la conquista della Grand Boucle, Ivan Basso, il quale viene escluso dall’organizzazione di corsa prima della partenza del Tour.
Lo scandalo dopo la gloria, l’Inferno dopo il Paradiso. Basso, che un mese prima aveva vinto il Giro d’Italia dominando, si trova improvvisamente nel tritacarne mediatico, nella polvere. Il suo sogno di realizzare la storica accoppiata Giro-Tour si era infranto in un brusco risveglio, la sua immagine offuscata in un attimo. E la nube minacciosa che si era abbattuta su di lui era drammaticamente inaspettata e sorprendente. In fondo, il ciclismo ha purtroppo abituato i suoi appassionati a scandali doping, ma l’immagine che Basso aveva sempre dato di sé era tutt’altro: umiltà, sacrifici, crescita costante, linearità nei comportamenti. Erano questi i marchi di fabbrica del ciclista varesino.
I primi anni di Basso nel ciclismo che conta sono di apprendistato. La sua indole tranquilla e riservata non gli permette di dimostrare sin da subito il suo talento di corridore da corse a tappe, ma la sua serietà professionale lo aiuta a progredire passo dopo passo, anno dopo anno. Nel Tour del 2002, il primo posto nella classifica degli under 25. L’anno dopo, l’ingresso nei primi dieci della classifica generale. Ivan sembra essere contento dei suoi ottimi risultati, ma in tanti, tra gli addetti ai lavori, iniziano a chiedergli: “Perché non attacchi mai? Perché ti limiti a restare a ruota dei migliori? Perché non rischi l’impresa?” Ed in lui scatta qualcosa: la presa di coscienza che il suo talento poteva permettergli di diventare il migliore, la consapevolezza che coltivare le giuste ambizioni lo avrebbe portato a traguardi maggiori.
Così, nel Tour del 2004 arrivano il terzo posto finale e una entusiasmante vittoria di tappa a La Mongie, davanti al dominatore Armstrong. La crescita prosegue, tra grandi prestazioni e debacle che temprano il campione. Nel Giro del 2005, si presenta al via come uno dei principali favoriti, ma un virus intestinale lo colpisce il giorno prima della tappa con arrivo a Livigno. Si tratta di una delle frazioni più dure di quella edizione della Corsa Rosa: la scalata dello Stelvio, l’arrivo ad alta quota dopo 210 chilometri durissimi.
Un famoso detto afferma che quando la strada sale un ciclista non può in alcun modo nascondersi, e le cattive condizioni di salute del varesino vengono a galla durante l’interminabile salita che porta ai 2758 metri del Passo dello Stelvio. E su strade terribilmente esigenti anche con il fisico più in forma, avere malanni vuol dire vivere una agonia. Il suo direttore sportivo gli consiglia di ritirarsi, ma Basso decide di proseguire il suo calvario. Arriva sul traguardo di Livigno con 42 minuti di ritardo. L’obiettivo della vittoria del Giro è ormai compromesso, ma il varesino dimostra di saper soffrire anche quando in tanti avrebbero gettato la spugna. Ed anche questo fa la differenza tra un buonissimo professionista e un campione vero. Al termine di quel Giro, Basso vince due tappe, dà spettacolo ed entra definitivamente nel cuore degli appassionati.
Tutti i tasselli del processo di maturazione sembrano mettersi al loro posto, e Basso, all’età di 28 anni, si sente finalmente pronto per vincere una grande corsa a tappe. Domina il Giro del 2006, dando 10 minuti di distacco al secondo classificato. Dalla gloria al Tour 2006, dove inizia questa storia. Per quasi un anno, Ivan nega di essere realmente coinvolto nell’Operacion Puerto, ma nell’Aprile del 2007 gli sviluppi delle indagini lo inducono ad una inevitabile confessione dinanzi alla procura antidoping del CONI. Seguono due anni di squalifica, la massima pena prevista dal regolamento in quel periodo. La sua squadra lo scarica, i giornali mettono in discussione la sua intera carriera. Basso si rinchiude tra i suoi affetti, per ritrovare sé stesso prima ancora che la voglia di rimettersi in sella ad una bici.
Senza corse, senza squadra, e senza credibilità: è dall’assenza di quest’ultima che il varesino riceve la scossa per dare una seconda vita alla sua carriera. Basso capisce che, per tornare ad essere un campione, una semplice ripresa degli allenamenti non basta. Serve qualcosa in più. Serve ricostruire la fiducia dei tifosi attorno alla sua figura. Per far ciò, si affida completamente alla preparazione di Aldo Sassi, uno dei (pochi) simboli del ciclismo pulito. Senza alcuna certezza sul suo ritorno alle corse, si allena con ancor più scrupolo di quanto già fatto negli anni precedenti. Sul suo sito, pubblica costantemente i dati relativi ai suoi parametri sanguigni, per dimostrare la massima trasparenza e la rinuncia a qualsiasi forma di doping. Si tratta del “percorso di espiazione”, come lui ama definirlo: pagare per i propri errori, scontare i debiti col passato, sudare per riconquistarsi una dignità.
La Liquigas viene a conoscenza delle fatiche di Basso, e lo ingaggia un anno prima della fine della squalifica. La forma fisica del varesino è quella dei tempi migliori, e non resta altro che rimettersi il dorsale di gara, per puntare a nuove vittorie. Ma il primo anno dopo la squalifica non è esaltante. Un (deludente per i giornali) quinto posto al Giro, un quarto alla Vuelta, e niente più. “Il vero Basso è questo. Quello degli anni passati non era autentico”: questo il leit motiv dei commenti su di lui. Ma Ivan, dal carattere umile e paziente, sa che tutto il sudore versato da due anni a questa parte darà i suoi frutti. La strada parlerà per lui, in maniera inequivocabile.
La stagione successiva, Basso, a 32 anni, si ripresenta ai nastri di partenza del Giro d’Italia avvolto da un alone di scetticismo sulle sue reali possibilità di vittoria. Le prime due settimane gli sono avverse: lo rallentano una caduta sullo sterrato fangoso di Montalcino e un errore tattico della sua squadra che consente allo spagnolo Arroyo di guadagnare 13 minuti in classifica generale. Le speranze di ribaltare la corsa sono appese a un filo. Ma proprio sul finire della seconda settimana di gara, giunge una chiamata da casa. Ivan riceve la notizia che sua moglie aspetta un altro figlio, il terzo. La famiglia, il porto sicuro nel quale Basso aveva rinchiuso la sua disperazione nei periodi bui successivi alla squalifica, viene ancora una volta in soccorso del campione. E, ancora una volta, il campione si rialza. E si ritorna all’inizio della storia.
La salita dello Zoncolan diventa il teatro del definitivo riscatto: Basso stacca ad uno ad uno i suoi rivali, in una progressione inarrestabile. La sua scalata sembra mandare in fumo tutte le cattiverie dette sul suo conto da quattro anni a questa parte. Una feroce determinazione dipinta sul volto, una rabbia agonistica mai vista prima. Il varesino vince la tappa più temuta di quel Giro, e torna in corsa per la vittoria finale. Due giorni prima della conclusione della Corsa Rosa, l’acuto finale nella tappa col passaggio sul terribile Mortirolo.
Un perfetto gioco di squadra con il giovane compagno Nibali, la fuga che gli consente di indossare il simbolo del primato, la maglia rosa, quattro anni dopo l’ultima volta, e che sancisce una incontrovertibile verità: il più forte, in quel Giro, è proprio lui. L’ultima frazione, una cronometro con arrivo nella incantevole cornice dell’Arena di Verona, lo incorona vincitore. Con lui, sale sul palco delle premiazioni il dottor Sassi, gravemente malato ed il quale sarebbe venuto a mancare pochi mesi dopo. L’omaggio del campione ad uno degli artefici della sua rinascita. Il cerchio si è chiuso.
Sulla salita più dura d’Europa il capitano della Liquigas stacca tutti (a 31:22) e riduce a 3’33” il distacco sulla maglia rosa Arroyo. Evans ultimo a cedere, a 3,7 km dall’arrivo, ma perde 1’19”. Terzo Scarponi, quarto Cunego.
I successivi anni hanno visto Basso proporsi costantemente ad alti livelli, pur senza l’acuto di una grande vittoria. Dall’alto della sua esperienza di capitano, contribuisce alla crescita dei suoi giovani compagni di squadra. Non a caso Nibali (indubbiamente il più forte ciclista italiano degli ultimi anni) ha sempre indicato Basso come un esempio fondamentale per la sua crescita umana e professionale. Nelle ultime stagioni da professionista, il varesino si mette a disposizione di Contador come gregario. Tra i due c’è un rapporto profondo, di amicizia, che va al di là delle competizioni.
E un commosso Contador si ritrova seduto al fianco di Basso nella conferenza stampa in cui il varesino annuncia, durante il Tour 2015, di aver appena scoperto di essere affetto da un tumore per fortuna ancora in fase iniziale. Ivan si sottopone immediatamente a intervento chirurgico, e la guarigione completa è rapida. Contemporaneamente alla guarigione, arriva l’addio alle corse, ma non al mondo del ciclismo. Dapprima, la collaborazione, da consulente per l’allenamento, con la Trek-Segafredo. Ad oggi, il ruolo di general manager della squadra recentemente fondata da Contador.
“È da quando sono professionista che vivo sotto esame. Ma capisco da solo se ho fatto bene oppure no. Il giudizio altrui diventa così meno importante”. Ivan Basso a Sportweek, 6 maggio 2006
Un continuo lieto fine. Ivan Basso è l’uomo che visse due volte. Più semplicemente, è la dimostrazione che, nel raggiungere i propri traguardi con le sole proprie forze, senza scorciatoie e circondati da persone autentiche, si può essere veramente liberi.
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