Dopo nove anni di passione termina l'esperienza romana del finanziere di Boston.
Pallotta ha ceduto. Per quelli della mia generazione, orfani di Franco Sensi, cresciuti tra gli orfani di Dino Viola, la questione di chi, e a quale fine, decida di detenere la proprietà della Roma non è banale. La squadra è vittima di una continua attività di destabilizzazione da parte dei media, della politica e di alcuni potentati economici della capitale. Così per anni la chimera di un passaggio di proprietà, l’erotismo per un magnate, i rumor di un fondo russo o la speranza di un arabo hanno esposto la Roma a imbarazzi e umiliazioni.
Il Godot del romanismo, vivere nelle perenne attesa di uscire dalla prigionia del sogno, come diceva Viola. E non possiamo elencare tutti gli episodi grotteschi che si affastellano negli anni duemila giallorossi. Un vociare continuo di radio romane, di ‘ha firmato’, di cugini che lavorano all’aeroporto, di sedicenti intermediari emiratini, di tycoon col culo degli altri, di sceicchi umbri (sic!), di questo c’ha i sordi pe davero. Tutte fandonie, buone solo a far istruire una procedura Consob o una notizia di reato di aggiotaggio. E così pareva l’inizio dell’Era Pallotta. Quando sbarca a Roma il primo zio d’America, Thomas Di Benedetto, la minaccia di una farsa è concreta.
È un uomo mite, sovrappeso, spaesato. Per quelli un po’ veloci di pensiero pare chiaro sia una testa di legno. Di mestiere è socio del gruppo Fenway, neofondato all’epoca, conglomerato di partecipazioni azionarie nobili: un po’ di Celtics, tanti Red Sox, buona parte di Liverpool. La compagine romanista è al momento bicefala: 60% il consorzio americano, nell’ombra si intravede Pallotta, e 40% Unicredit a copertura dell’enorme debito della famiglia Sensi. Noi romanisti siamo creduloni e ci facciamo abbindolare: iniziamo a credere sia la svolta da tempo attesa. A nove anni di distanza, al termine di questa era, è tempo di bilanci.
Marchio
Abituati ai fasti del capitalismo familiare, una squadra di calcio non dev’essere gestita secondo logiche manageriali ma al più educata e adorata come un figlio. Così Berlusconi, Moratti, Agnelli, Cecchi Gori, Tanzi, Cragnotti, Sensi e altre decine e decine di imprenditori che hanno incondizionatamente speso, o finito, risorse per il proprio amore. Non nel calcio contemporaneo. Pallotta ha un passato chiaro nell’essere opaco: una carriera iniziata da Tudor, un hedge fund piccolo ma agguerrito nella finanza americana. Poi fonda Raptor, family office della propria ricchezza personale. Nella Roma Pallotta non ha visto altro che un ghiotto investimento da venture capital: buttar danari in qualcosa che ha un enorme potenziale di crescita.
La strategia: sfruttamento intensivo del marchio Roma, rebranding, trasformazione in media company, crescita smisurata sui social network. L’equazione è semplice: monetizzare i milioni di nuovi appassionati che puoi ‘creare’ negli anni a venire. Com’è andata? Non male, sicuramente. La crescita costante del brand Roma è stata innegabile, e secondo il KMPG Football Benchmark la società è saldamente tra le prime 20 d’Europa per valore. La strategia digital, curata dall’ex Liverpool Paul Rogers, ha confermato la Roma come vero e proprio study case mondiale per la straordinaria ironia mostrata sui vari social network, tale da aver creato un vero e proprio culto intorno i profili giallorossi.
Se la società è stata valutata quasi 600 milioni in questa acquisizione, possiamo dire che la presidenza Pallotta ne ha davvero cambiato per sempre la storia, portandola per sempre fuori da una dimensione provinciale.
Risultati sportivi
I cugini laziali ridono su un fatto tanto vero quanto misero: la Roma non vince nulla dal 2009. Undici anni di digiuno son tanti persino per una società avara di successi come la nostra. Tanti perché le premesse storiche dello scudetto del 2001 erano tali da dover posizionare la squadra al massimo livello di competizione per il prossimo decennio (secondi posti nel 2002 e nel 2004, risultati tragicomici negli altri anni). La Roma roselliana, con i conti della serva, era riuscita ad allestire nello Spalletti primer una rosa competitiva per la Serie A post calciopoli: gli anni del duopolio con l’Inter varranno due Supercoppe, una coppa Italia e due scudetti davvero sfiorati nel 2008 e nel 2010.
“So quanto siano pazzi i tifosi della Roma, ma non sanno quanto pazzo sono io”.
Innumerabili le dichiarazioni entusiastiche di Pallotta nel decennio romano: un fiume di ‘vincere e vinceremo’ andato presto in secca, parole di parolaio smarritesi tra plusvalenze e Financial Fair Play. Pur non considerando il rapporto tra promesse-aspettative e realtà, l’enorme delusione di questo decennio è rappresentata dall’incoerenza decisionale e strategica nelle scelte tecniche. Per un projecto di Luis Enrique—macchietta nell’ambiente romanaro, arcicampione nel prosieguo della carriera—abbiamo la farsa Zeman, collassata nella tragedia del 26 maggio a marca Andreazzoli.
Il triennio di Garcia, scelta all’epoca davvero esotica, seppur positivo in termini di rendimento ha segnato comunque una enorme confusione programmatica, compensata unicamente dal genio mercantile di Walter Sabatini. Lo Spalletti bis e il record di punti in campionato, una rosa trasbordante per la storia giallorossa ed un numero di campioni che a ripensarci oggi vien da piangere. Tutto merito di grandi acquisti, poi svaniti tra rigori contabili che la società ha dovuto rispettare per non crollare a terra.
Roma-Barcellona rimane l’acme di questa era ma chi sa di calcio conosce perfettamente la casualità di eventi di questo genere. La Roma di Di Francesco, a fronte di un cammino di coppa davvero notevole, presentava lacune incredibili e fu tatticamente smascherata dopo appena due mesi. Un sogno quella notte all’Olimpico, ma non può dirsi merito della società.
Società
Una Caporetto totale. Anni di discontinuità, programmazioni fallaci, uomini inadatti. Una governance costruita sulle macerie dell’enorme debito dei Sensi con Unicredit, ingegnerizzata nelle stanze dello studio Tonucci, con una proprietà che ha speso più tempo a Boston e a Londra che a via del Babuino, dove James amava soggiornare nei primi anni di vacanze romane (nello splendido Hotel de Russie).
Baldissoni, manager acefalo per anni insignificante nelle decisioni chiave, ma prima Fenucci, a garanzia bancaria, e la sua ineffabile inconludenza. Sabatini, unico cavaliere, cacciato a pedate perché faceva troppi scambi, sostituito con il Re Mida andaluso, quel Monchi fuggito di notte come un ladro. Ora Fienga, testa di legno che ha traghettato la S.p.A. nei due anni di passione in cui Pallotta ha fatto e disfatto tutto pur di vendere la baracca. Nel mezzo un board sempre costellato di grandi personalità della finanza, del marketing, del Real estate, nomi e profili di prim’ordine mai messi nelle condizioni di incidere. Anni di sbruffonate e colpi di coda confindustriali che nemmeno una fabbrica di scarpe marchigiana, altro che MBA dall’Ivy League.
Tanto tanto fumo e poco arrosto—neppure quello del ristorante bostoniano delle sorelle Pallotta. Spesso smarriti, i topi a Trigoria hanno ballato finché il gatto non s’è presentato. I due valzer finali: la sceneggiata napoletana Francesco Totti, il processo rocambolesco a Petrachi durante una pandemia. In questa penombra ha sempre agito il Rasputin Baldini, mai figurato in un organigramma ma da vent’anni l’eminenza grigia della prima squadra della Capitale. Speriamo che il vento texano la dirami per sempre questa nebbia.
Risulta estenuante dover ripetere la cronistoria di un romanzo italiano come la vicenda Stadio della Roma: tra giunte radicali (Marino) e circhi pentastellati, procure della repubblica, palazzinari d’alto bordo, archistar e grattacieli caduti prima di esser progettati. James era venuto essenzialmente per questo megalomane progetto edilizio che al suo punto più alto di ambizione prevedeva un nuovo quartiere per la città di Roma, un nuovo quadrante di sviluppo della metropoli in direzione porto e aeroporto di Fiumicino sotto la targa infranta della ditta Alitalia-Etihad.
Un progetto come quelli che a Milano fanno parlare e pontificare per anni. Una zona ecodepressa della città da poter completamente riqualificare (Tor di Valle), un ippodromo fatiscente sede di ratti e prostitute da far rinascere. Un iter burocratico che nemmeno durante i fasti dell’impero bizantino, una inestricabile rete di atti e documenti di uno, nessuno e centomila enti locali più o meno deputati ad esprimersi. Sullo sfondo, sulla cornice, nel quadro e nel pittore la tetra presenza di qualche mammasantissima dell’edilizia romana, vien da credere d’origine siciliana, non invitato al banchetto. Una vicenda che ha dell’incredibile e che si può davvero credere abbia condotto Pallotta alla nevrosi.
Cosa pensare di questa era firmata JJ Pallotta? Una attitudine al buon governo di una società di capitali da lodare, senza se e senza ma. La Roma esce da questa fase storica estremamente più solida di come ci era entrata. Un brand riconoscibile, un valore commerciale netto ed ineludibile. L’arrivo di un gruppo come quello di Friedkin lascia intendere che una zavorra stile Ciarrapico non possa mai più verificarsi.
Ma a pallone non ci si gioca coi bilanci o coi social network. Una prima parte di programmazione tecnica ed investimenti, anche generosi, ha lasciato ben presto spazio ad una fase di trading compulsivo, in cui la Roma è stata un acceleratore europeo di talenti più che una squadra che ambiva a competere. Troppi scambi, troppo tempo perso e troppe decisioni sbagliate. Ma come diceva Renato Rascel: la Roma non si discute, si ama. Salutiamo quindi la nuova presidenza ringraziando la vecchia, per i meriti e i demeriti, continuando a sperare di uscire dalla prigionia del sogno.