Padre tempo direbbero quelli ‘bravi’. Noi, che cerchiamo quantomeno di essere razionali, preferendo opinioni sgradite ma sincere rispetto alla prassi del conformismo ideologico, diremo che ha parlato il campo: quello che tutti, dal tifoso al mero appassionato, riconoscono come giudice supremo. Era il lontano settembre del 2022 quando la Roma di Mourinho, fresca vincitrice della Conference League in quel di Tirana, perdeva due a uno sul campo del Ludogorets, modesta compagine bulgara, in occasione della prima giornata di Europa League.
Nell’etere capitolino, e in parte in quello nazionale, numerose furono le recriminazioni e svariati i processi al tecnico e alla squadra, rei di aver conquistato un trofeo europeo pochi mesi prima e pertanto costretti, secondo i più, a lottare per le posizioni di vertice in quella stagione. Non ci sarà bisogno di ricordare in modo approfondito le vicende sportive di quell’anno, in cui la compagine giallorossa, sapientemente guidata (a 360 gradi) da Mourinho, raggiunse la discussa finale europea di Budapest, laddove soltanto gli ‘episodi’ le impedirono di alzare al cielo la seconda coppa continentale in due anni. A margine della sconfitta patita dalla Roma in terra bulgara, esponemmo la seguente riflessione
«Il problema della Roma non è tanto l’assetto tattico, per carità migliorabile ma comunque sottoposto alla supervisione di Mourinho; il problema atavico della squadra giallorossa risiede nella sua ossatura […] Noteremo che fra i nomi di spicco risultano quelli di Pellegrini, Mancini, Ibanez, Cristante, Karsdorp, calciatori che, tolta la piacevole eccezione di Smalling, non rappresentano profili di alto livello, di affidabilità assoluta, al netto di buone prestazioni e periodi positivi».
Furono parole forti, ritenute fuori luogo da molti, specie considerando la coppa vinta dalla formazione romanista pochi mesi prima. Eppure, rimamendo ora sull’aspetto tecnico del club, senza indagare i suoi vuoti strutturali a livello dirigenziale, quella evidenza era celata a molti soltanto dall’estemporaneità di qualche risultato e dalla maestria del tecnico portoghese. Un’evidenza divenuta poi manifesta nel periodo immediatamente successivo alla cocente sconfitta di Budapest e – solo nei mesi seguenti, specialmente dopo l’esonero di Mourinho – riconosciuta dalle masse come verità di senso comune.
Non ci interessa prestarci qui al giochetto del ‘noi lo avevamo detto’, quanto sottolineare una necessità fondamentale, quella di abbandonare la tendenza a giudicare i fatti sull’onda dell’emotività e sulla scorta dell’estemporaneità. Perché chiunque sbaglia letture, a partire da noi, ma oggi la narrazione ha totalmente abdicato al suo compito di approfondimento e interpretazione per diventare racconto da ‘social’, basandosi sull’ultimo risultato, seguendo il trend del momento, pronta a smentirsi magari due settimane dopo, appena cambiata la direzione del vento – anche per questo, tra le decine di motivi, è calata la fiducia nei media tradizionali: se le analisi corrispondono a quelle di una pagina in cerca di viralità sui social, tanto vale volgersi altrove.
Tornando alla Roma, e ripetiamo senza approfondire qui il vulnus societario, con tutte le sue lacune e contraddizioni che solo uno come Mourinho era riuscito a nascondere – “vorrei/volevo solo fare l’allenatore“, ha ripetuto più volte, anche dopo essersene andato – ebbene scrivevamo all’epoca di una struttura debole che, ripetiamo, non vuol dire scarsa: nessuno qui vuole sminuire le prestazioni europee di Pellegrini, Cristante e gli altri sopracitati, ma si vuole porre l’accento sull’importanza di Matic, che alla formazione di Mourinho garantì nei mesi decisivi la sostanza utile per arrivare fino a Budapest; sull’estro di Dybala, decisivo con Salisburgo, Feyenoord e con il Siviglia solo per metà; sulla solidità di Smalling, l’attore principale di tutto il pacchetto difensivo, per poi giungere al nome più discusso, quello di José Mourinho.
In tanti, nei mesi dopo la notte di Budapest, hanno attaccato la sua figura, ritenendola eccessivamente divisiva, anacronistica e ormai superata.
Proprio lui, che a Roma ha quasi realizzato forse la sua impresa più grande, è stato tacciato di essere il limite alla decisiva maturazione della squadra. Qui, senza scadere nella dietrologia, potremmo dire che se il portoghese ha commesso un errore nella sua esperienza in giallorosso, è stato proprio quello di affidarsi a una tale debole struttura di calciatori per troppo tempo, contando di poter sopperire alle carenze che lui stesso aveva individuato e denunciato – complice l’impossibilità di agire sul mercato, con i trasferimenti in entrata fermi e magicamente sbloccatisi (130 milioni da gennaio ad oggi) dopo il suo esonero. Qui sotto invece, in foto, i numeri delle ultime due campagne trasferimenti con Mourinho in panchina.
Quella struttura debole, per larghi tratti celata dalle cavalcate europee rese possibili attraverso la maniacale preparazione tattica e psicologica di Mourinho, fenomenale nell’esaltare i pregi di un gruppo e nasconderne i limiti, ha ritardato l’ineluttabile, ovvero l’implosione di un sistema fallaceche si reggeva su un’ipervalutazione dei calciatori posti a rappresentarne le fondamenta. Seppur riconoscendo a De Rossi, subentrato a Mourinho nel gennaio 2024, la capacità di tirare fuori l’ultimo canto del cigno europeo ad alcuni giocatori, fermati soltanto da uno straripante Bayer Leverkusen in semifinale, non ci limiteremo a fare mera cronologia degli eventi sportivi, quanto a riconoscere come la stragrande maggioranza degli appassionati, imparziali e non, oggi convergano su una posizione chiara:
la Roma deve essere rifondata.
Ebbene questa narrazione poteva e doveva essere abbracciata prima, specie dagli addetti ai lavori. Non saremo presuntuosi e anzi, diremo che probabilmente dopo la sfida contro il Ludogorets in pochi di noi credevano possibile che Mourinho riuscisse a portare la squadra fino a Budapest, ma resta il fatto che se magari a settembre era un po’ troppo presto per auspicare una totale rifondazione, già la mattina dopo Budapest, Tiago Pinto, i Friedkin e José Mourinho stesso, avrebbero dovuto riconoscere che l’inevitabile chiusura di un ciclo fosse ormai giunta, operando la rifondazione tanto auspicata oggi.
Quella che vive l’ambiente giallorosso in questa fase storica è un’inspiegabile reticenza verso il rinnovamento della rosa, processo rimandato persino da De Rossi, che non più tardi di qualche mese fa prometteva che la sua Roma avrebbe avuto un volto diverso, che avrebbe chiesto alla società gente di gamba (mentre pure gente di gamba, romana e romanista per giunta come Bove, veniva spinta alla porta e sta facendo ora le fortune di una diretta concorrente). Perché, allora, la colonna portante di questa squadra, Bryan Cristante, non proprio l’esempio di un calciatore dinamico, non è mai stato messo in discussione?
Perché Lorenzo Pellegrini, fra i più discussi oggi, mentre ieri venivamo definiti “visionari” e invitati a “cambiare sport” solo per averne denunciato la discontinuità e la sopravvalutazione complessiva, non è mai stato valutato in modo approfondito e critico, ma sempre investito del ruolo di leader tecnico e morale dello spogliatoio? Nonostante certe criticità siano ormai chiare a tutti, o quasi, si fa molta fatica a pensare a una Roma senza quel blocco di calciatori, che continuano a godere di una parziale immunità sportiva, nonostante oltre metà dello stadio li abbia ormai identificati come parte del problema.
La sensazione, suffragata da quanto denunciato dagli allenatori, guarda caso sempre nel momento in cui raggiungono la consapevolezza di aver perso la panchina, e da molti cronisti dell’etere romano, è che sia ormai arrivato il momento in cui certe decisioni non possano essere più rimandate. Non ci interessa parlare della triste parentesi di Ivan Juric sulla panchina giallorossa, probabilmente mai allenatore fu più rigettato da uno spogliatoio fin dal primo allenamento, inutile commentare scelte di campo che col campo hanno poco a che fare, citofonare a Beppe Riso in merito.
Quello che vogliamo ribadire è che la Roma ha estremo bisogno di cambiare pelle, ricostituire le proprie fondamenta, smettere di assecondare capricci di calciatori sopravvalutati e annessi astuti procuratori.
Siccome crediamo che nel lungo periodo i valori escano quasi sempre fuori, ci assumiamo la nostra responsabilità quando sosteniamo che, nonostante un inizio che definire stentato è poco, la squadra giallorossa riordinerà le idee e otterrà anche risultati interessanti. Eppure, proprio per liberarsi della trappola dell’estemporaneità, male atavico della compagine giallorossa, non ci si illuda sulla necessità impellente di ricostruire la rosa, partendo dal ripensamento, inteso anche come cessione, di quei calciatori che dovrebbero fungere da cornice, ma che a Roma rappresentano da troppi anni il dipinto stesso.
Si metta al timone di Trigoria una figura che sappia sporcarsi le mani, profondamente conoscitrice del gioco, coraggiosa nelle scelte ed equilibrata nei giudizi. Qualcuno ha detto Claudio Ranieri? Benissimo che rimanga come dirigente e consulente, una volta conclusa la parentesi da allenatore, magari però accompagnato da una dirigenza coraggiosa, competente e di alto profilo. Da un amministratore delegato credibile e soprattutto da un direttore sportivo di campo, formatosi nel calcio italiano ed esperto delle sue dinamiche (ciò che una volta rappresentava Sabatini, profili alla Sartori, Giuntoli, Corvino, la Roma aveva Massara e colpevolmente lo ha fatto andare via). La direzione, per chi vuole vederla, è già indicata. Serve avere il coraggio di imboccarla e la visione, unita alla competenza, per costruire poi una strada.