Antonio Conte sta trascinando il Napoli allo Scudetto.
Lungi da noi ridurre il calcio, uno sport così complesso – non dal punto di vista tattico, ma atmosferico, comportamentale, psicologico –, all’intuizione di un singolo, soprattutto se l’intuito è quello che viene dalla mente di un allenatore. Per noi amanti del gesto tecnico, del dribbling, della genialità di chi maneggia sapientemente la sfera, dare troppa importanza a chi, dal piccolo rettangolo della panchina, dirige le operazioni, asetticamente, è un controsenso. Ma tutto sta nell’avverbio. Antonio Conte, innanzitutto, non è asettico, tutt’altro. Il dominio che vuole imporre sui propri giocatori non è tattico, ma mentale, psicologico.
Lo si vede da tante cose. Partendo dalla fine, da quelle mani alzate verso il cielo, nella direzione dei tifosi partenopei, con uno sguardo penetrante e fisso, inamovibile. In quel frangente, Conte non ha chiesto il supporto della sua gente, che sa di avere incondizionatamente da quando è stato annunciato come allenatore del Napoli – nonostante qualche malalingua, che dopo ieri però farà fatica a riprendersi. Conte, con quella grinta rivolta al settore ospiti, ha già ottenuto un riconoscimento. Napoli lo ha accolto, Conte vive la città da vicinissimo – abita al centro, una scelta inusuale per un allenatore del Napoli. Il suo sguardo non ha chiesto, ha detto moltissimo senza dire nulla. Il commento è arrivato a fine partita, quando ai microfoni di Sky Sport ha affermato:
«Questa squadra è cresciuta nelle difficoltà».
Difficoltà di mercato e di infortuni, ha precisato Conte, nella settimana in cui Kvaratskhelia (mica uno qualunque) ha salutato Napoli direzione Parigi. Incalzato su chi sarà il giocatore adatto a sostituire il fuoriclasse georgiano, Conte ha rinforzato il concetto – che va ben al di là delle dinamiche di calciomercato: «Se si deve fare qualcosa, si deve fare qualcosa per adesso. Sento parlare di giocatori di prospettiva. Ma che ci facciamo con la prospettiva? Altrimenti, preferisco andare in guerra con questi uomini, che non mi tradiranno mai».
Ecco, le difficoltà di cui parla Conte magari vengono dal mercato, e pure dall’infermeria. Ma è chiaro che Conte parla anche di campo. Ricordiamoci la partita dell’andata, riflettiamo sulla partita di ieri sera. L’Atalanta, questo va sottolineato rispetto alla vittoria del Napoli, ha giocato benissimo. A tratti è stata straripante, soprattutto nei primi 20’ del primo e del secondo tempo.
Il Napoli ha retto botta, come un pugile che conosce la propria forza e riconosce quella dell’avversario. I gol di Retegui e Lookman sono state due saette, bellissimi entrambi. Ma i gol del Napoli, dalla botta di Politano (momentaneo 1-1) al piattone di McTominay (giocatore fortemente voluto da Conte), alla capocciata di Lukaku (altro fedelissimo di Conte) su assist di un titanico (di nuovo) Zambo Anguissa, hanno l’elemento che permette al pugile, per rimanere metaforicamente sul ring, di arrivare fino in fondo: sono reti pazienti, frutto di una mentalità che non si fa travolgere dalle correnti esterne.
L’Atalanta ha giocato un grande match, lo ripetiamo. Ha corso tanto, ha combattuto, ha fatto girare bene il pallone, ha concluso varie volte verso la porta – almeno fino a quando Gasperini, talebaneggiando, ha tolto Lookman dal campo. Ma il Napoli di Conte o lo ammazzi o ti ammazza. E forse, nella frase dell’allenatore salentino sul possibile innesto di mercato, si dovrebbe sottolineare la conclusione: «altrimenti, preferisco andare in guerra con questi uomini, che non mi tradiranno mai». Se conosciamo un poco Antonio Conte, lui in questo momento andrebbe avanti con questa rosa di giocatori. Anche perché di partite ne mancano appena 17. A differenza di Atalanta e Inter, che lottano ancora su tre competizioni e potrebbero giocarne molte di più. Conte non ha ancora voluto parlare di «Scudetto», dimostrandosi una volta di più un uomo del sud. In attesa di diventarne un simbolo eterno, ammesso che già non lo sia.