Il maccartismo all'attacco di Medvedev e compagni.
Il 24 febbraio Vladimir Putin annunciava l’operazione militare nel Donbass, dando inizio all’invasione Ucraina. Nello stesso momento, in un triangolo immaginario spalmato su tre continenti, Novak Djokovic, perdendo a Dubai contro Jiří Veselý, consegnava aritmeticamente la prima posizione mondiale a Daniil Medvedev, impegnato in Messico nel 500 di Acapulco. Una coincidenza quanto mai inopportuna per i vertici della ATP, costretti a celebrare il ventisettesimo numero 1 della storia (quella del ranking computerizzato), il terzo russo dopo Kafelnikov e Safin: di certo il più scomodo.
Onestamente ci eravamo stupiti che, nella travolgente burrasca di sanzioni comminate agli atleti russi, tardassero ad arrivare misure analoghe nel tennis. L’esclusione della squadra di Coppa Davis, detentrice del titolo, era prevedibile; ma in fondo, oltre alla rimozione della sigla del Paese di appartenenza e la scomparsa del tricolore codificato da Pietro il Grande, niente altro aveva colpito gli atleti russi. Misure in fin dei conti blande, tanto più che lo stesso Medvedev ha dichiarato: «Io senza bandiera? Anche alle Olimpiadi era così».
Sono però proprio di queste ore le dichiarazioni che temevamo, e a pronunciarle non è stato un censore qualunque, bensì il Ministro dello Sport britannico Nigel Huddleston, che ha tuonato:
«Nessuno sotto la bandiera russa dovrebbe essere autorizzato a giocare. Abbiamo bisogno della garanzia che non siano sostenitori di Putin e stiamo valutando di quali requisiti potremmo aver bisogno, per ottenere alcune assicurazioni in tal senso».
E poiché l’associazione tra Albione e il tennis è immediata e univoca ha anche aggiunto: «Il governo ne sta discutendo con l’All England Lawn Tennis Club (club con sede a Wimbledon, naturalmente organizzatore dell’omonimo torneo ndr). La loro presenza sarebbe preoccupante e inappropriata».
Avevamo sperato che le misure di facciata adottate dalla ATP fossero sufficienti a salvare il decoro ma mantenere la ragione, invece le dichiarazioni che arrivano dal civico 10 di Downing Street rischiano di far calare la scure anche sul mondo del tennis. L’esclusione dei tennisti russi e bielorussi da Wimbledon, o peggio da tutto il circuito, sarebbe infatti una follia che affonda le proprie radici in questi tempi totalmente strampalati. Come scrive impeccabilmente Manuel Peruzzo sul Foglio:
«Nella foga di stare dalla parte dei giusti e condannare l’ingiustificata guerra di Putin ci siamo lasciati prendere la mano, condannando un intero popolo. Ma prima di salvare il mondo dovremmo salvare l’idea di mondo che abbiamo costruito».
Un’escalation di misure repressive, quasi sempre ingiustificate, che oltre al mondo dello sport hanno colpito anche quelli della cultura e dell’arte. L’editorialista del Foglio ha quindi identificato la pratica repressiva utilizzando una formula forte ma esplicativa: pornografia della virtù. Non a caso si parla già di nuovo maccartismo in cui la caccia alle streghe è rappresentata da una semplice connotazione geografica: essere russi.
In questo contesto surreale Sir Huddleston richiederebbe, per la riabilitazione dei tennisti russi e bielorussi, esplicite prese di posizione formali contro l’operazione bellica del Cremlino. Una richiesta suonata da subito superflua e stonata visto che sia Daniil Medvedev che Andrej Rublev (giusto per citare i più importanti russi del circuito) hanno più volte manifestato, dallo scoppio delle ostilità, il loro chiaro e netto messaggio di pace universale. Una misura non sufficiente secondo le autorità inglesi, le più inflessibili in Europa nella condanna al governo russo: deve esserci anche la manifesta condanna all’invasione in territorio ucraino e delle politiche adottate da Putin.
Il messaggio lasciato da Rublev a Dubai.
Una pretesa arrogante e irricevibile. Non tanto e non solo per il principio universale di libertà di parola (e di pensiero) secondo il quale nessuno dovrebbe mai imporre ad altri cosa dichiarare, quanto più per l’aspetto pratico e concreto della vicenda. Sebbene i tennisti, come molti sportivi professionisti, siano cittadini globali (spesso residenti in paradisi fiscali) le loro famiglie, i loro amici, sono ancora inevitabilmente ancorati a un Paese ormai dichiaratamente riconosciuto a regime dittatoriale. Come se non bastasse, dall’inizio delle ostilità, è stata votata la legge marziale che punisce con 15 anni di reclusione chiunque si esprima contro la guerra in corso. E verrebbe da dire: bene che vada.
Come si può chiedere a ragazzi di vent’anni di assumersi la responsabilità di esporre a tali pericoli i propri cari? Come si può pensare che non siano anch’essi vittime di una guerra che senza dubbio non hanno voluto, e che anzi li sta mettendo in forte imbarazzo di fronte a colleghi e opinione pubblica globale?
Medvedev, dopo aver festeggiato la prima posizione mondiale, ha vinto appena tre partite e da lunedì restituirà a Djokovic la prima posizione mondiale dopo sole tre settimane di regno. La bielorussa Viktoria ‘Vika’ Azarenka a Indian Wells, dove difendeva la finale dello scorso anno, sul parziale di 3-6 2-2 è improvvisamente scoppiata in un pianto destabilizzante. Singhiozzi ingestibili per la giocatrice di Minsk consolata, in un gesto di rara umanità, dalla giudice di sedia accorsa ad abbracciarla a vicino ai teloni dell’out alla quale Vika ha saputo solo rispondere: «I’m sorry, I’m sorry».
In questo contesto confusionario, invece che far leva sulla popolarità delle star dello sport per sfruttarne il volano esponenziale dei messaggi, sarebbe piuttosto opportuno rivolgersi alle istituzioni. Magari quella più importante nello sport, presieduta da un uomo che ha lo stesso cognome di un illustre compositore tedesco, ma che ad ora è stato solo in grado di mutuare dall’omonimo una vergognosa sinfonia del silenzio, interrotta talvolta da futuri ipotetici quali «monitoreremo, vedremo, adatteremo». Altro che Bach.
Intanto il circuito si gode i riflettori inutilmente patinati del Sunshine Double, in tour tra la California e la Florida, mostrando sole, palme e grandi sorrisi come se nulla fosse. Ma sotto la sabbia del deserto della Coachella Valley sono sepolti scheletri sempre più preoccupanti. Aumentano i casi di depressione tra i giocatori, non si placano le polemiche nei confronti dei vertici della ATP, ancora si fanno sentire gli scandalosi strascichi dell’affaire Djokovic e adesso lo spauracchio del bando dei russi appare minaccioso a minare, definitivamente, la credibilità di questo sport.
Welcome to Tennis Paradise, recita la rèclame a toni rosa pastello che campeggia all’ingresso di Indian Wells. Ma la sensazione, oggi, è che nemmeno il tennis sia più un giardino immacolato.