Una qualificazione, nei 180 minuti, meritata.
A fine partita lo ha ammesso anche Spalletti: il Napoli ha pagato un po’ di inesperienza. Analisi molto lucida quella del tecnico di Certaldo che, a parte le rimostranze per il rigore non assegnato nel primo tempo, ha individuato senza troppi giri di parole le due principali cause dell’eliminazione partenopea: la condizione atletica, non più brillante come qualche mese fa – complice «l’ultima sosta nazionali che ci ha tolto qualcosa, prima eravamo al top fisicamente e mentalmente» – e proprio quella che in senso lato si può definire inesperienza.
Una disabitudine a calcare certi palcoscenici che si è concretizzata in “alcuni errori”, sempre citando Spalletti, dettagli per cui da sempre si decide una competizione come la Champions League; dettagli in cui si nasconde il diavolo (rossonero). Così Brahim Diaz all’andata come Leao al ritorno dovevano essere stesi, con un fallo tattico perché la tattica si alimenta anche di questo, non solo di schemi e compiti; e così nelle due aree una grande squadra, in certe partite, doveva essere più concentrata, cinica, famelica – dagli errori sotto porta a quelli difensivi: il rigore concesso da Mario Rui, lasciamo stare poi sbagliato, è inaccettabile a certi livelli.
Certo poi ci sono state le assenze, pesanti, e gli episodi, soprattutto arbitrali, indigesti. Ma nel complesso il Napoli ha dimostrato di essere una squadra più caotica e meno matura del Milan, che invece ha recitato alla perfezione il copione scritto da Stefano Pioli. Perché abbiamo aspettato fin troppo prima di incensare un club straordinario, che si sta spingendo da tre anni costantemente oltre le proprie possibilità e non ne vuole sapere di fermarsi. Come ha detto Maldini ieri sera:
«Rientrare nelle prime quattro d’Europa dopo 16 anni di assenza significa alzare il livello. Vuol dire avere una chance di arrivare in finale e poi di vincerla».
Se volete capire cos’è la tanto decantata mentalità vincente, ascoltatelo. Uno che queste partite le ha vissute e le sente, le annusa e le percepisce. Perché si celebri Leao, si celebri Maignan, si celebri Pioli e l’abnegazione rossonera, ma quanto conta, signori, la società. A Milanello c’è l’ambiente giusto fatto di gente giusta, è così dai tempi di Berlusconi e Galliani. Lo stesso Leao lo certifica a fine partita, facendo capire quanto della sua crescita sia merito innanzitutto del tecnico, ma anche del Milan in senso lato: «Devo ringraziare Pioli, che è stato come un padre per me, ma anche Massara e Maldini: mi hanno fatto diventare il giocatore che sono oggi, ciò che sono lo devo a loro».
Parliamo di una società che lavora come un perfetto stato organico hegeliano e si muove come un sol uomo: organizzata, attenta ai dettagli, vincente. Tant’è che solo una certezza avevamo alla vigilia di questo doppio confronto europeo: che il Milan si sarebbe esaltato, avrebbe alzato il livello e dato tutto. Il paradosso di una squadra giovane, formalmente priva di esperienza internazionale anch’essa (tolto il solo Giroud) e con limiti tecnici strutturali, ma che ha nel DNA e respira nell’aria di Milanello quel qualcosa in più. Magari il Milan sarebbe uscito; ma sicuramente non avrebbe sbagliato, e per nulla al mondo, le partite.
Veniamo allora alle partite: ieri sera i rossoneri ne hanno giocata una stra-ordinaria. Cattivi, compatti, cinici, navigati. Uno spettacolo per chi crede che lo spettacolo si esprima anche nel sacrificio; nei raddoppi continui, nella linea difensiva che non sbaglia una diagonale, nella chiusura di ogni spazio e nella sofferenza di qualità per 90 minuti. Kjaer, Calabria, Bennacer e non solo loro, simboli ieri sera dell’anima casciavìt in campo. E poi quei due, davanti e dietro: Leao, autore di una ‘azione lebroniana’ come la definisce splenidadamente Roberto Beccantini, che ha ricordato molto Gullit e un po’ anche il Kaká versione 2007 – quello che consegnò l’ultima semifinale al Milan.
E Maignan, che ancor prima di compiere miracoli toglie certezze agli attaccanti avversari e le infonde ai propri difensori. A cui solo Courtois forse sottrae, ad oggi, la palma di miglior portiere del mondo.
A dirigere l’orchestra e la macchina, uno Stefano Pioli italianissimo che ha dismesso le teorie sul calcio dominante, offensivo e ha di necessità vittoria; un vecchio catenaccio all’italiana con il 26% di possesso palla ieri, e tutti gli spazi ermeticamente sigillati, per il contropiede al fulmicotone di Leao – anche qui le sliding doors di una partita: al 37′ l’intervento scriteriato in area di rigore su Lozano, soprattutto per un’ala svagata in fase difensiva, che non si sa per quale grazia divina e tecnologica non è costato il penalty; al 43′ l’azione stellata che ha consentito poi a Giroud di insaccare a porta vuota. Tutto nel giro di 5 minuti, col sorriso.
Che poi, arcitaliano non è stato tanto il catenaccio di Pioli quanto la sua capacità di adattarsi. Gridiamolo a chi fa orecchie da mercante e finge di non sentire: il genio italiano nel pallone non sta nella difesa a oltranza quanto nella capacità di adattamento. Uno spirito per cui anche la squadra più spumeggiante può nella singola partita trincerarsi in area di rigore con il coltello tra i denti, pratica che altri e ben più dogmatici di noi rifiutano categoricamente secondo il mantra “facciamo ovunque il nostro gioco”.
Ci sarebbe tanto altro da dire, succede sempre quando c’è una sfida decisa dagli episodi nei 180 minuti. Eppure, nel complesso, per mezzi e uomini a disposizione, per spirito e attenzione, per esperienza e determinazione, il Milan ha meritato di passare il turno. Ha meritato di tornare tra le quattro migliori squadre d’Europa, dove aspetta probabilmente l’Inter – psicodrammi a parte – per una replica vent’anni dopo della semifinale del 2003: uno scenario da brividi, su cui ad inizio anno nessuno avrebbe scommesso neppure una mancia da bar.
Ma in chiusura concedete a noi pasoliniani, sempre dalla parte degli sconfitti (neanche troppo in realtà, se dovessero regalare alla città un trionfo atteso da 33 anni), comunque dicevamo, lasciateci concludere con un pensiero per chi è uscito battuto. Pensiero espresso da Kvicha Kvaratskhelia in una sorta di mini-lettera aperta, di poche righe, pubblicata sui suoi profili: «È difficile per me vedere i vostri occhi pieni di lacrime, realizzando che non ho potuto portarvi la felicità. Farò del mio meglio per imparare dall’esperienza di oggi. Sono profondamente dispiaciuto e assolutamente grato per il vostro supporto che sento ogni secondo.
Vi amo e vi prometto che torneremo più forti. Il sogno continua».
Un messaggio che scioglie il cuore grande di Napoli, città talmente unica al mondo che pure un georgiano, dopo un paio di settimane, se ne accorge. Il Napoli è stato grande bellezza quest’anno, che attende il suo coronamento in patria. Il Milan è tornato grande in Europa, e lo ha deciso anche il blasone. Un’italiana sarà quasi certamente in finale di Champions League. E c’è come la sensazione, nell’aria, che quest’epilogo, in fondo in fondo, potrebbe accontentare tutti.