Vita e non morte di Mino da Nocera Inferiore.
L’informazione corre veloce. In Italia raggiunge addirittura tempi da fantascienza: riesce ad anticipare la commare secca, la morte. Nella fattispecie quella di Mino Raiola, che per l’eiaculazione precoce dei competitor sui cento metri della notizia, diventa topic d’interesse sullo Stivale, tallonando gli eventi bellici in Ucraina. Un uomo di cinquantaquattro primavere, emigrante di Nocera Inferiore verso i campi di tulipani di Haarlem, in quel pezzetto d’Olanda che non è Amsterdam, ma non te ne accorgi. Lavora sempre, continuamente, fin dall’adolescenza: prima gestisce una pizzeria, poi un fast food, ma capisce subito che il denaro germoglia con la politica, mica coi cheeseburger. Entra nel consiglio degli imprenditori di Haarlem, si ricorda di avere una passione: il calcio; d’altronde è nella terra del profeta bianco, Johan Cruijff, e il pallone non è mai un dettaglio.
Negli anni Novanta fonda la sua prima società di intermediazione: Intermezzo. Impara a trattare, ha le stimmate dell’uomo d’affari: ai potenziali clienti si rivolge col linguaggio, la gestualità e la fisiognomica di Tony Soprano. Strappa un accordo al sindacato dei calciatori d’Olanda, rappresentando in terra straniera i talenti orange. Il campionato più difficile, ricco e soddisfacente del mondo in quel periodo è la Serie A: porta Dennis Bergkamp e Wim Jonk all’Inter, conquista la procura di un giovane Pavel Nedved, futuro pallone d’oro. Diventa un agente FIFA autonomo, creando la Sportman, che accoglierà nel ventunesimo secolo Zlatan Ibrahimović, Paul Pogba, Gigio Donnarumma, Erling Håland, giusto per citarne qualcuno.
La rivista Forbes rivela i suoi guadagni recenti: una media di settanta milioni di dollari annui con un patrimonio che tocca quasi gli ottocento milioni e mezzo di dollari.
Non è il procuratore più ricco: il lusitano Jorge Mendes e la sua Gestifute grazie alla multinazionale CR7 e l’americano Jonathan Barnett con la società ICM Stellar Sports lo stracciano nella sfida del re Mida da campo. Raiola resta l’agente della commissione più esorbitante della storia: per l’affare Pogba tra Red Devils e Vecchia Signora ha intascato oltre ventisei milioni di euro nell’estate del 2016. Sì, quel Pogba corteggiato alle giovanili dello United e soffiato alla sponda rossa dell’Irwell con un corpo a corpo rusticano ingaggiato assieme a sir Alex Ferguson, che gli ha dato del “mafioso” davanti ai riflettori. Non ha venduto ghiaccio agli eschimesi, ma la trattativa è stata beffardamente geniale, dato il tempismo: si è conclusa quando Ferguson non era più il manager.
Quelli come Mino Raiola non ci sono mai piaciuti…
Odiato da molte società attente ai bilanci e da altrettanti tifosi romantici, legati alle bandiere. Venerato da direttori sportivi astuti e da calciatori di prospettiva che non sanno guardare in faccia le difficoltà. La pellicola Zlatan del 2021, diretta da Jens Sjögren e ispirata al libro di David Lagercrantz sul campione svedese, svela qualche retroscena perfettamente ipotizzabile sul modus operandi di Raiola. Quando porta Ibrahimović da Luciano Moggi viene trattato come un venditore ambulante qualsiasi: la sfacciataggine senza fine, tracotante al punto giusto, lo porta però ad essere ascoltato dal dirigente più potente d’Italia, la tessera rovente del mosaico di Calciopoli.
La credenza popolare che la classe operaia vada in paradiso e che per i superricchi ci sia l’inferno sembra superata, vedendo gli indici di gradimento di Elon Musk. Ma per Mino Raiola si potrebbe fare un’eccezione: migliaia di appassionati vedono in lui male assoluto, per logica del capro espiatorio e lo vorrebbero prigioniero nel regno di Lucifero. Sì, ma in quale cerchio?
Nel cerchio dei golosi
La somiglianza di Raiola e l’obeso, sgraziato Ciacco – incontrato da Dante nel terzo cerchio – è indiscutibile. Oltre alla disastrosa forma fisica dell’agente, indice dei vizi della tavola, colpisce i molti la sua ineleganza: abiti troppo casual, capelli talvolta spettinati. Gli stessi che lo canzonano non conoscono le vesti indossate dallo stesso a Haarlem da giovane: giacca, cravatta, camicia, orologio, tutto perfettamente in ordine. Raiola dà la sensazione di essere rozzo, goffo, poco raccomandabile: nel Re Lear William Shakespeare sbroglia la matassa: «Attraverso le vesti stracciate si mostrano i vizi minori: gli abiti da cerimonia e le pellicce li nascondono tutti».
Il manager è solo sé stesso: il suo mestiere non è il modello o l’attore. In lui spazia un mix di culture insospettabile, Raiola è poliglotta: parla italiano, inglese, tedesco, olandese, spagnolo, portoghese, francese. La sua golosità è figlia dello stress per soffiare ogni giorno lo scettro di procuratore supremo a Mendes e Barnett, pertanto è comprensibile. E poi, di costituzione, fisicamente è lo stesso dell’adolescenza. La prigione dei golosi possiamo risparmiargliela.
Nel cerchio degli avari
Nello scenario governato da Pluto, dove i condannati muovono enormi massi, rompendo le loro ossa, l’indiziato farebbe i conti con tutte le laute commissioni della sua vita. Il punto qui non è l’avarizia di Raiola, ma l’avarizia nel mondo del calcio. L’agente è un ingranaggio di un meccanismo monumentale, spasmodico, incontrollabile. I petroldollari provenienti da Mosca prima e dagli Emirati Arabi poi hanno pompato lo sport più suffragato del mondo rendendolo il decano dell’iper-produttività, dove ogni protagonista deve rendere al massimo delle sue possibilità, avendo un valore di mercato sproporzionato a causa dell’enorme copertura finanziaria ottenuta dalle proprietà di club guidati come multinazionali di prodotti e non d’emozioni e tantomeno valori.
Raiola è un uomo d’affari: il pressing manageriale che lo hanno reso celebre gli permette di trattare i suoi talenti come fossero il panino imperdibile di un fast food gourmet, esaltandone caratteristiche e prospettive, facendolo pagare a peso di platino. Ma la colpa non è sua. Nemmeno del calcio: è il mercato mondiale a essere schiavo di chi detiene le fonti di energia e dei colossi della Silicon Valley. Tutti coloro che si muovono tra le logiche finanziarie odierne o sono un Mino Raiola e fatturano a Montecarlo oppure sono imprenditori sulla linea della sopravvivenza, che tengono in alto la bandiera della dignità, ma non possono permettersi sushi bagnato nello champagne.
L’avarizia è diventata la nuova legge del mercato e solo gli spietati diventano dei vincenti. I guadagni lussuosi di pochi, a fronte degli spiccioli dei molti, lo dimostrano. Se spediamo Raiola nel quarto cerchio, dovremmo affiancargli troppa gente e al momento non garantiremmo un posto scomodo per tutti. L’inferno ha gli stessi problemi delle nostre carceri, è già sovraffollato. E poi i businessmen non sono così stupidi da essere trattati come dannati qualunque, lo sosteneva pure James Joyce nell’Ulisse: «Quattrini e cretini non si fanno compagnia».
Nel cerchio dei cattivi consiglieri
E allora, potremmo mandarlo nell’ottavo cerchio, quello delle malebolgie e in particolare nell’ottava bolgia, dove soffrono i cattivi consiglieri. Raiola ritroverebbe l’Ulisse di Itaca, protagonista dell’inganno al Cavallo di Troia, simile al suo, nell’episodio che tutti i milanisti non dimenticheranno mai: il Cavallo di Donnarumma. Estate 2017, a soli diciotto anni, Gigio Donnarumma deve discutere il suo rinnovo con il Milan, squadra della quale è tifoso dal primo vagito, trattando con Fassone e Mirabelli. Raiola non accetta l’offerta iniziale dei rossoneri: tre milioni prima, quattro poi. Si prende la responsabilità di annunciare ai sette venti l’addio del giovane portiere, che dal canto suo sognava una vita al Diavolo per vincere scudetti e Champions.
Alla fine, l’accordo per la società milanista è a tratti sanguinoso, data la mancata partecipazione all’Europa che conta: sei milioni per cinque anni, più l’ingaggio del fratello di Gigio, Gianluigi, come secondo portiere. Inizialmente l’estremo difensore di Castellamare di Stabia viene soprannominato dalla curva Dollarumma, ma i rapporti pian piano si riappianano, almeno fino alla scadenza del contratto nell’estate 2021. Il Milan è tornato competitivo, pronto a calcare il suo salotto prediletto, la Coppa dei Campioni. Donnarumma può essere il capitano del futuro, il trascinatore verso epici traguardi che mancano da troppo tempo. Maldini è fiducioso sul rinnovo, ma Raiola consiglia un’altra via al suo assistito: accettare i sette milioni del Paris Saint Germain. La scelta non sarebbe per i soldi: il portiere vuole provare una nuova avventura.
Cosa resta oggi ai discepoli del Diavolo di Gigio? Il primo rifiuto di un contratto comunque faraonico a diciotto anni. L’aver giurato amore fino a tatuarsi lo stemma del club per poi prendere un aereo diretto alla Tour Eiffel. Certo, non si può pensare che Raiola costringa i propri assistiti a compiere scelte che abbracciano l’iper-produttività: Lorenzo Insigne, ad esempio, quando l’agente italo-olandese ha provato a portarlo lontano da Napoli per guadagnare più del doppio, ha rifiutato. In questo caso, Mino Raiola potrebbe essere un cattivo consigliere agli occhi dei tanti, ma a decidere davvero, proferendo l’ultima parola, sono pur sempre i calciatori con le rispettive famiglie, che hanno aspirazioni di successo maniacali: rasentano il feticcio.
Il procuratore ha capito l’evoluzione delle aspettative nell’era social e fa il suo sporco lavoro: vende al prezzo massimo. Quindi no, nemmeno l’ottavo cerchio è pienamente meritato.
La risposta che si può dare alla domanda iniziale, “quale cerchio dell’inferno merita Mino Raiola” è una: nessuno. Non fraintendeteci, per quanto ci riguarda continueremo sempre a combattere quelli che intendono il calcio (e forse anche la vita) come lui: lo abbiamo sempre fatto e sempre lo faremo, che siano vivi, morti o moribondi – sarebbe anzi una mancanza di rispetto da parte nostra unirci al coro di chi l’ha attaccato in vita e santificato in morte (proclamata). Eppure Raiola è il bersaglio perfetto ma non è il soggetto del problema: morto un super-procuratore, nel sistema attuale, se ne fanno dieci altri – magari meno esteriori e “volgari” nei modi, ma forse anche più subdoli.
Per combattere gli avari e i cattivi consiglieri nel mondo del calcio bisogna farlo prima nella vita reale, tra le banche dell’alta finanza e le stanze buie degli affari miliardari sottobanco, frequentate più dai manager multinazionali che dai ministri. Quindi il privato che sormonta il pubblico. L’affermazione di un individuo come star assoluta e strapagata a discapito dell’affermazione di un gruppo e del suo popolo. In questa logica tutto si vende come un prodotto, anche le emozioni. Mino Raiola a vendere i prodotti forse non è il migliore, ma è il più intelligente. E se il calcio come televendita non vi piace, spegnete la TV. Impossibile. Il calcio è una religione laica. Il calcio è un linguaggio universale. Il calcio è una droga leggera. E allora, a questo punto, meglio assumerla responsabilmente e lasciare in pace, a lottare tra la vita e la morte, Mino da Nocera Inferiore.