Nel club che sta sopra tutto.
Bisognerà pure ammettere, una buona volta, che l’apostolo Tommaso non ha creduto dopo aver toccato il costato di Cristo, ma prima di farlo. O, per citare Dostoevskij, «non sono i miracoli a spingere un realista a credere», perché davanti al dato di fatto il realista «non crederà neanche ai propri sensi piuttosto che ammettere quel fatto» (I fratelli Karamazov, I, libro primo, cap. V). Ecco allora che, quasi per contraccolpo, il ‘realista’ può facilmente trasformarsi nel più ottuso degli idealisti. Così sono quelli che dopo ieri ancora parlano di culo ancelottiano.
Ancelotti, con quella di ieri sera, ha vinto in totale sette Coppe dei Campioni nella sua carriera. Due come giocatore, cinque come allenatore – delle quali due col Milan e tre col Real Madrid. Il che significa, come ha scritto Giuseppe Pastore su X, che il nativo di Reggiolo ha vinto oltre il 10% delle 69 finali della “Coppa dalle grandi orecchie”.
Ma noi continuiamo a parlare di culo. Non noi-noi, naturalmente, anzi. Non Orazio Accomando, delle cui parole sposiamo pure gli spazi tra i caratteri: «è il più grande di sempre perché vince da oltre vent’anni in un calcio che è cambiato almeno tre volte, perché non segue le mode, perché è amato dai suoi calciatori, perché si adatta alle caratteristiche dei suoi giocatori, perché sorride, perché è Carletto Ancelotti».
Ancelotti è la chiave di accesso alla comprensione profonda del Real Madrid, club in grado di vincere 15 Champions League nella sua storia, 6 delle quali negli ultimi 10 anni: un «oltraggio degno del miglior club del XX secolo, che con le sue conquiste si appresta così ad essere il miglior club del XXI» (Tomas Roncero, AS). È vero che il Real Madrid ha vinto anche con Zidane (ben tre Champions League), Del Bosque, Heynckes, e altri ancora. Parliamo di una religione che non ha bisogno di sacerdoti per sopravvivere all’incedere del tempo.
D’accordo, ma il punto è che Ancelotti il tempo lo ha attraversato come nessun altro; laddove qualcuno è rimasto indietro, e altri sono affondati, lui è riuscito a seguire la corrente. Cambiando evidentemente modo di vogare e preferendo sempre al “suo calcio” – che non esiste, e per questo è vincente – i “propri calciatori”.
«C’è tutto Ancelotti in questa Champions, in un gruppo come questo tutti lavorano uno per l’altro».
Vinicius Junior
E, aggiungiamo noi, piangono tutti l’uno con l’altro. Di gioia, solitamente, ma non è questo l’essenziale. L’essenziale sta nelle lacrime di Bellingham, bambino felice, nella gioia sconfinata di Vinicius Junior, il più forte esterno del pianeta che già pensa (su suggerimento di Florentino Perez, che con la vittoria di Wembley supera Bernabèu come presidente più vincente della storia blanca) alla 16esima Champions League, da vincere il prossimo anno – con buona pace di chi non vede l’ora di finire la partita per andare a droppare l’ultimo pezzo rap, citando Paolo Di Canio.
L’essenziale è nei 174 (+15) cm di Dani Carvajal che sale al cielo e su assist di Toni Kroos, a proposito di essenzialità, sblocca, lui l’uomo delle sei Coppe vinte da titolare nel Real, una sfida fino a quel momento non solo in bilico ma pendente dalla parte del Dortmund, semmai. Almeno ai punti.
I punti, roba per nerd del calcio. Anche ieri sera, d’altra parte, abbiamo assistito all’evento Real Madrid: «nessuno sa niente di Madrid. O forse è tutto noto. La sensazione generale che avrebbero finito per sottomettere il Dortmund quando fossero stati superati dal rivale spiega una squadra che ha dietro di sé un mito indistruttibile», come ha scritto molto opportunamente Javier Silles. Nessuno sa niente, ecco. Ma è tutto noto. Il Real Madrid soffre, mostra persino delle lacune, ma poi, al 90’, è campione. Il segreto di questa teologia, dice Florentino Perez, non è misterica. Non appartiene ad un testo esoterico rivelato a chi indossi per la prima volta la camiseta blanca, ma dice con la semplicità propria delle cose grandi: «nessuno è sopra il gruppo e i suoi tifosi».