Ci sono giocatori che si identificano con una nazione o un momento storico, che segnano una cesura con il passato o l’inizio di una rivoluzione politica o sportiva. Spesso si tratta di grandi calciatori, ma in qualche caso anche di giocatori normali. Jurgen Sparwasser non è stato un fuoriclasse, ma quel suo gol nel “derby” con la Germania Ovest al Mondiale ’74 ha segnato un’epoca per i simpatizzanti del piccolo Stato guidato dal compagno Honecker.
Il più grande di tutti, Diego Maradona, costruisce buona parte della propria leggenda nel Mondiale ’86 con i due gol all’Inghilterra: calcio e politica fusi insieme in gesti tecnici colmi di diabolica astuzia e raffinata perfidia tipici di un campione del popolo, incomprensibile alle attuali star del football cosmopolita. Il sovietico Rinat Dasaev è stato a suo modo un simbolo e uno dei migliori portieri degli anni Ottanta. Descritto come un “favorito” del PCUS, era soprattutto un uomo con la testa sulle spalle.
Interrogato sui suoi colleghi di ruolo, dirà semplicemente: «Zenga è più bravo di me, come lo sono Pfaff e Schumacher». Una supremazia dell’italiano condivisa anche da Gianni Brera: il più celebre giornalista sportivo italiano soleva arrotondare per difetto le pagelle del sovietico quasi a compensare gli esagerati elogi normalmente tributati al misterioso uomo di Astrakhan. Erano tempi in cui si vaticinava l’arrivo di Dasaev in Italia: il presidente dell’Atalanta, Bortolotti, giurava di non essere interessato, nonostante l’irrisorio “rimborso spese” da 400 rubli al mese percepito dal portiere.
Un insulto alla classe del sovietico, uomo di 190 centimetri per 80 chilogrammi, molto diverso dai portieri “nani” che ancora si vedevano in giro a metà anni Ottanta. Il brasiliano Dirceu, celebre per le sue cannonate all’incrocio dei pali, li prendeva in giro: per parare certe bordate, anzi «per arrivare a toccare la traversa», diceva, bisogna essere «alti e sottili», al contrario di portieri tascabili come Tancredi o lo stesso «clown» belga Pfaff.
Essenziale, poco scenografico, sicuro, capace di ben organizzare la difesa. Dasaev non è sempre stato perfetto nelle uscite ma aveva una qualità non comune, praticamente assente negli estremi difensori di oggi: il lancio con le mani, preciso e potente, tale da innescare micidiali contropiedi. Insomma non il calcio lungo, a casaccio, sovente preda degli avversari: i compagni, con le mani, vanno serviti sui piedi, proiettando la palla fin quasi alla metà campo.
Altra caratteristica di Dasaev è stata quella di subire gol di rara bellezza: per sfortuna, forse, o più probabilmente per merito. Per batterlo occorreva alzare il coefficiente di difficoltà; Socrates e Eder, a Spagna 82, furono costretti a inventarsi le due reti più belle del mondiale per rimontare l’iniziale vantaggio sovietico: bolide da fuori area, dopo aver seminato un paio di difensori, per il «medico» della «democracia corinthiana» e bomba di controbalzo per Eder, dopo il velo di Falcao.
Qui un riassunto della finale di Euro 88, con uno dei gol più belli della storia del calcio
Quella del Mundial 86 è stata probabilmente l’Urss più forte che si sia vista sui campi di calcio: non tanto nei singoli quanto nella organizzazione di gioco. La «perestrojka» esigeva novità e la decisione di affidare la nazionale sovietica a un innovatore come Lobanovsky, tecnico plurimedagliato della Dinamo Kiev, fu consequenziale. Per “il colonnello” il calcio era una scienza esatta meritevole di rigida applicazione: tre allenamenti al giorno – all’alba, a metà giornata sotto il solleone del Messico, al tramonto – e credere fermamente in quello che si fa. Fatiche premiate da prestazioni spettacolari e per certi versi inquietanti, come il 6 a 0 all’Ungheria.
I sovietici sembravano però limitati da una sorta di “decoubertinismo” di fondo: nulla a che vedere con la tensione tattico-agonistica degli italiani, l’astuzia argentina, l’immensa classe brasiliana, la strabordante personalità dei tedeschi. Basterà il piccolo Belgio di Scifo e uno strano arbitro svedese per eliminare l’Urss di Lobanovsky agli ottavi di Mexico 86. Gente come Dasaev, Zavarov, Belanov, Jakovenko, Rats, Aleinikov, e poi più tardi Protassov e Mikhailichenko, si disperdono nei più o meno ricchi club europei: finiscono quasi tutti male, tra mille infortuni, problemi di ambientamento e di bottiglia, veri e propri impazzimenti. Il pallone d’oro Belanov verrà pescato a fare il ladro in un supermercato tedesco. Dasaev non approda mai in Italia, ma finisce al Siviglia accolto da migliaia di tifosi che già sognavano la Liga.
Si rivelerà un fallimento. L’ex portierone guadagna poco, al punto tale da non riuscire nemmeno a mantenere la moglie e la figlia in Spagna. Parte bene, ma poi viene sepolto di gol in uno sfortunato match contro il Real Madrid e lì inizia una discesa agli inferi fatta di guide in stato di ebrezza, incidenti e avventure imprenditoriali fallite. A Italia 90, Dasaev gioca la sua ultima partita con la gloriosa maglia targata «Cccp»; finisce di fatto anche l’epopea di Lobanovsky e dei giocatori che incantarono il mondo a metà anni Ottanta: l’Urss fa ancora in tempo a buttare fuori gli azzurri dall’Europeo del 92, ma ormai sono i titoli di coda. Alla massima rassegna continentale giocata in Svezia, non si parlerà più di Urss ma di «Csi» – Comunità di stati indipendenti. Sul web un anonimo tifoso presente alla finale di euro 88 testimonia:
«Ero nella curva dell’Olympiastadion di Monaco quando van Basten segnò quello straordinario gol. Avrei voluto registrare il sonoro di quei pochi secondi tra il cross dalla sinistra e l’urlo della gente olandese: mentre il pallone era in aria e van Basten stava per colpirlo, di colpo si fece un silenzio quasi totale, come se si stesse intuendo la prodezza in arrivo, tanto che si poté chiaramente sentire il potente fruscio, quasi un sibilo, del pallone che sfrega contro la rete nella parte corta della porta, alle spalle di Dasaev».
Poesia pura e crudele del calcio, che stava decretando la fine dell’Urss e di Dasaev. Nessuno poteva dirlo non certezza, ma i più capirono.
Agli Europei del 1964, la Spagna di Francisco Franco, padrona di casa, ospita l'Unione Sovietica dei gerarchi di partito. Così il calcio diviene uno strumento raffinatissimo al servizio dei Paesi autoritari.