Quarant’anni e poco più, la rossa Toscana che diventa…russa, una partita storica. L’allora Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, altrimenti detta URSS, maglia rossa e tanta paura che potesse dominare nel calcio e negli altri sport approda in Italia. Occasione è l’amichevole con gli impari avversari del Rassina, piccola, piccolissima ma orgogliosa realtà del football locale. Squadra tosta, Prima Categoria al massimo del suo splendore, in campo ragazzi del settore giovanile, delle scuole, di Chitignano, Rassina e Talla, e una società composta da un gruppo di amici.
Calcio sano, calcio di un tempo. Il segretario tuttofare, il sindacalista che viene a dare una mano, il presidente che ci rimette soldi di tasca sua. Rassina simbolo di un mondo del calcio, romantico e vero. Ma anche Rassina, terra di Toscana, regione con il mito rosso, prima, durante e…dopo l’Unione Sovietica. E le trasferte sulla direttrice URSS-Toscana. ad onor del vero, in quel periodo erano molte. Il trait d’union era il Centro Tecnico Federale di Coverciano, ed in particolare nei mesi invernali gli ospiti sovietici si recavano sovente in Italia per acquisire novità ed imparare dalle innovazioni tecnico-tattiche dei paesi occidentali.
Quale migliore posto, dunque, “dell’amica” Toscana che insieme all’indubbia competenza calcistica ci metteva anche quel fil-rouge, quella particolare sensibilità da parte di amministrazioni comunali ed istituzioni. Arrivano dalla madre Russia, e tutti pronti, cittadinanza e fieri sindaci, energici assessori, tanti “Peppone” ma senza i Don Camillo a far da contraltare. Insomma, il laboratorio di calcio per l’URSS che puntava al grande dominio nello sport era considerato senza se e senza ma la terra di Dante, che sentiva forti e vigorose le proprie radici comuniste.
Una partita a suo modo leggendaria, o meglio storica, perché di storia più che di leggenda si tratta / Foto da Corriere Fiorentino
E a scartabellare documentazioni e scritti di storia locale toscana si ha la conferma che il simbolo comunista, molto in voga da queste parti, era visto anche, e soprattutto, veicolato e issato come sacro vessillo proprio dagli amici sovietici in spedizione in Italia. Lo racconta bene, e con una minuziosa raccolta di foto e documenti ne “Il mito sovietico nel PCI in Toscana”, Andrea Borelli con la collaborazione scientifica di Daniela Faralli ed Emanuele Federico Russo, edito dalla casa editrice ISRPT Editore nell’ottobre 2023.
«Dopo la Seconda guerra mondiale nella loro militanza quotidiana i comunisti toscani assorbirono e riadattarono all’interno della propria identità politica una fortissima connessione politico-sentimentale con l’URSS».
Così si legge sull’istituto storico della resistenza circa il libro in questione. E ancora: « Con il passare del tempo il mito sovietico perse quella carica di mobilitazione politica che lo aveva caratterizzato inizialmente, soprattutto negli anni di Stalin, e trasformò sempre più i propri simboli in chiave ‘pop’, utilizzando un registro molto simile a quello del mito americano a sua volta ampiamente diffuso nel Bel paese. Eppure, nonostante l’emergere negli anni ’60-’70 anche di mitologie politiche terzomondiste, resistette tra una parte dei comunisti toscani quel legame sentimentale-passionale con l’URSS, un legame per certi versi in grado di arrivare fino ai giorni nostri».
Ma quella tra URSS e Rassina è una partita che resta nella storia, più delle altre; unica, e soprattutto da tramandare con i ricordi più che con i documenti, con i racconti emozionati di chi c’era. Un racconto che si può immaginare metaforicamente seduti, accoccolati, sulle robuste ma logore ginocchia di qualche nonno toscanaccio, pipa in bocca, carattere burbero e cuore d’oro. Il racconto, sì, perché in realtà di quella partita c’è ben poco di altro.
Scherzo del destino a minare la cronaca di una giornata indimenticabile per i “compagni” toscani sarà, infatti, proprio uno degli strumenti, delle azioni più simboliche ed incisive della classe operaia, lo sciopero. “Gli scioperi, il boicottaggio, il parlamentarismo, la manifestazione, la dimostrazione: tutte queste forme di lotta sono buone come mezzi che preparano e organizzano il proletariato” diceva Josif Vissarionovič Džugašvili, alias Josif Stalin, nato il 18 dicembre 1878 a Gori, morto il 5 marzo 1953 a Mosca, professione politico (dittatore). Perché lo sciopero, sacrosanta scelta proprio per chi cantava “bandiera rossa”, è alla base di quella che viene definita “la partita dimenticata”.
A incrociare le braccia, infatti, fu propriola categoria della stampa, niente quotidiani e niente racconti scritti. E allora la cronaca che diventa storia, il ricordo scientifico da mettere in archivio purtroppo non c’è, e tutto di quella partita è emozionata narrazione di chi l’ha vissuta: dal capitano Renato Cariaggi – «erano di marmo, fortissimi sotto l’aspetto tecnico e fisico. Ricordo che arrivarono con certi cappottoni, come nei film», a Massimiliano Fini, uno che nel 1985 aveva sedici anni ma senza paura allo stadio Comunale di Rassina, contro l’Unione Sovietica allenata dal Ct bielorusso Ėduard Malafeeŭ – sostituito l’anno dopo dal “colonnello” Valerij Lobanovs’kyj –, segnò la storica rete per i padroni di casa.
E allora si diventa leggenda anche così, senza vittoria, scontata e ci mancherebbe, di una nazionale di calcio, l’allora Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, ma perché nonostante marmorei calciatori in campo, professionisti a tutto campo, il piccolo Rassina non va a casa a mani vuote. E certo che le otto reti subite non furono poche ma il gol messo a segno dal sedicenne Fini, che ha fatto anche un provino al Milan nel maggio del 1985 e poi all’Arezzo, ma con una carriera rimasta felicemente legata ai dilettanti, è stata, senza ombra di dubbio, la rete della vita. Seppure lui la ricorda così:
«A me avevano detto di portare la borsa che nel secondo tempo avrei giocato, ero molto veloce, ma credo che ci fecero segnare per non strafare. I giocatori dell’Urss andavano al triplo di noi e tiravano delle fucilate pazzesche».
Erano gli anni di Ivan Drago, dell’Urss “laboratorio” di atleti perfetti, forse troppo. “Ti spiezzo in due”, ma il Rassina no, passione e amore per la propria terra possono più di macchine indistruttibili, la storica partita tra le parti di Arezzo contro l’URSS è oggi conservata gelosamente in bacheca. Tra i pali a incassare il gol di un paese, di una regione, di una generazione di ragazzi da campetto di periferia, è il secondo portiere Birjukov, che ha di nuovo intrecciato la sua vita con l’Italia, quando era nello staff di Roberto Mancini allo Zenit. E in fondo, “certi amori non finiscono fanno dei giri immensi e poi ritornano”, al pianoforte ed al microfono lo sottoscrive Antonello Venditti.
Rassina, Castel Focognano, provincia di Arezzo, cittadina toscana. “Buongiorno principessa”, lui, il premio Oscar Roberto Benigni, in bici quando ne attraversava le strade limitrofe, tra Arezzo, Montevarchi, Castiglion Fiorentino, Cortona, ne “La vita è bella”, omaggiando la donna della quale era innamorato nella pellicola, ovvero, la moglie nella vita, Nicoletta Braschi. Il cinema che emoziona, e forse, chissà, quella partita, finita nell’oblio perché in quell’epoca se i giornali erano in sciopero, ben poco potevano altri mezzi di comunicazione che non esistevano, (si stava peggio? mah..), non meriti, invece, oggi un riconoscimento del grande schermo.
Una partita di calcio realizzata e illustrata con la magia del cinema, come in “Fuga per la vittoria” con Sylvester Stallone e Pelè a immortalare un momento fondamentale della storia internazionale, come “Mediterraneo”, su un lembo di terra greca a est di Rodi, nel Dodecaneso, in lingua greca Megisti ma in italiano “Castelrosso”, gioco di parole, come Castel Focognano ma anche rosso, il colore amato dai toscani di ieri e di oggi, il colore della classe operaia, ma anche della nazionale che univa le Repubbliche Socialiste Sovietiche. E perché no?
Tornare con troupe, regista, attori e raccontare un’altra storia, quella vera, del piccolo Rassina, con il rosso popolo toscano a tifare per i propri figli da un lato e per il cuore inciso di falce e martello dall’altro.
Conflitto interiore. Un po’ come per i napoletani fu la fatale Italia-Argentina dei mondiali del 1990. San Paolo, semifinale, l’azzurro della propria nazionale da un lato e il “corasò” di Diego Armando Maradona, l’avversario dall’altro. “Essere o non essere”, un po’ di qua, un po’ di là. In ogni caso Rassina-Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, match oscurato dallo sciopero dei giornali, potrebbe essere consacrato da un lavoro cinematografico, ma di quelli neorealisti, e in parte esistenzialisti, stile Michelangelo Antonioni. Senza la “g”, quello era Giancarlo, che in Toscana è stato famoso ma per aver giocato al pallone, con la maglia viola della Fiorentina. Questo, però, è un altro film ancora…