Eleganza impeccabile, lungimiranza e pragmatismo perché «non ho mai provato piacere a ricordare quello che è stato fatto. Mi piace più pensare al futuro, sopportando anche tutte le amarezze, che significa dimenticare le cose belle per pensare a un futuro che può non essere sempre felice». Ma anche grande maestria nell’arte del motteggio. Questo è stato Dino Viola, storico patron della Roma dal 1979 al 1991. Ingegnere venuto dal Nord, come pochi ha saputo interpretare l’Urbe e guidare la squadra capitolina verso traguardi storici, tra il leggendario dualismo con la Juventus e un rapporto paterno con la Curva.
L’INIZIO, DALLA FINE
Il 20 gennaio 1991 per i tifosi romanisti non è una data qualunque, tutt’altro. In quel rigido giorno invernale lo stadio Olimpico si prepara ad ospitare Roma-Pisa, valevole per la diciassettesima giornata del girone di andata. Ma della partita a nessuno importa granché. A confermarlo è un’atmosfera insolitamente lugubre. Il canonico brusio pre-gara è soppiantato da un religioso silenzio; la mestizia regna sovrana. Sui seggiolini dello stadio solo volti adombrati e rigati dalle lacrime, qualche sospiro. È un clima surreale. Gli sguardi spenti dei tifosi fissano la tribuna presidenziale dove un posto è rimasto vuoto.
Ma è un vuoto eloquente. Il presidente, Dino Viola, non c’è più. È spirato il giorno prima, sconfitto da un male subdolo. Non c’è nulla, in quel 20 gennaio, che pesa più della sua assenza. Soltanto il capitano Giuseppe Giannini e Sebino Nela provano simbolicamente a riempire quel seggiolino blu deponendovi un mazzo di fiori gialli e rossi, ma invano. A ribadire il concetto ci pensa la Curva Sud:
«ci hai lasciato un vuoto incolmabile».
Gli ultras giallorossi non avrebbero potuto riassumere con parole migliori quel diffuso e tetro stato d’animo. Perché quello che Dino Viola ha fatto per la Roma non è più replicabile, un unicum a cui solo Sensi si è in parte avvicinato.
Il presidente Dino Viola nel 1980
La sua scomparsa oltre che essere il prodromo della crisi di un calcio popolare e vicino alla gente, segna la fine un legame viscerale e sanguigno sbocciato sin dal primo momento. Tutto comincia a Terrarossa, in Lunigiana. È lì, in quel lembo di terra tra colline mari e monti, che Dino Viola – Adino all’anagrafe – nasce il 22 aprile 1915 da genitori spezzini. Ma in Toscana vi trascorre soltanto la prima infanzia. Papà Pietro e mamma Maria sognano per lui un futuro migliore, lontano dall’alienazione della provincia e dalla miseria del primo dopoguerra.
DINO VIOLA, L’IMPRENDITORE
Così, assieme al fratello maggiore Ettore – medaglia d’oro al valore militare – imbocca la via francigena e discende lo stivale sino ad arrivare a Roma, ospite di uno zio. Sono gli anni ’20 e quella che appare al giovane Dino è una capitale in progressiva crescita, caotica e tentacolare. A suggellare lo sviluppo urbanistico di quella decade è la costruzione dell’impianto calcistico “Campo Testaccio”, sede delle partite interne di una AS Roma ancora in fasce.
Ed è qui, in via Zabaglia, tra spalti in legno, vessilli colorati e le prime folkloristiche forme di tifo organizzato, che divampa in lui la passione per quegli undici uomini dalle maglie rosse: «Mi innamorai della capitale» ha raccontato Viola, «di certe atmosfere, degli idoli di Testaccio. Un giorno mi imbattei in un gruppo di ragazzi che andavano a vedere la partita al Campo Testaccio. Li seguii e fu allora che mi innamorai della squadra». Un legame simbiotico che determina l’ambizione personale di diventare, un domani, presidente di quella società. E di certo determinazione e carattere ad Adino non mancano.
Conseguita la laurea in ingegneria meccanica, si avvia ad una brillante carriera imprenditoriale. Viola è un uomo oculato, attento a diversificare i suoi affari come quando, nel 1948, compra un pacchetto di azioni – convinto dall’amico Filippo Lavizza – in una fabbrica di accessori per armi da fuoco di Castelfranco Veneto. È la sua fortuna. Compiuta una cinica scalata, nel giro di pochi anni si ritrova a controllare in toto l’azienda e ad accumulare ingenti ricchezze. Tuttavia la Roma è una femme fatale a cui non può resistere. Sedotto per la prima volta nel 1969, è vicepresidente per un biennio sotto l’egida di Alvaro Marchini.
Fase di gioco di un derby (1933) a Campo Testaccio
Con l’arrivo di Gaetano Anzalone si defila, sebbene rimanga in società come semplice azionista. Tuttavia nell’ambiente si vocifera che Viola punti alla presidenza; «è solo questione di tempo», dicono gli addetti ai lavori. Per diversi anni – dal 1971 al 1979 – l’Ingegnere se ne sta nelle retrovie ma si sa, per dirla con Céline, che «tutto quello che è interessante accade nell’ombra». E infatti, dopo aver fatto praticantato come presidente del Palestrina, sale l’ultimo gradino del cursus honorum: il 16 maggio 1979 acquista la Roma.
LA ROMA DI DINO VIOLA
Finalmente il sogno di quel ragazzino che osservava trasognato la sua squadra del cuore a Campo Testaccio è ora tangibile realtà. Ma la situazione non è delle più rosee, anzi. Con Anzalone la compagine giallorossa ha ottenuto un terzo posto. Poi soltanto piazzamenti mediocri culminati con il salvataggio all’ultima giornata nella stagione ’78-’79. L’arrivo dell’ingegnere, che tratta il club come una seconda famiglia, cambia le carte in tavola. Via Gustavo Giagnoni e dentro il barone Liedholm.
Strappato al Milan campione d’Italia, l’allenatore svedese è il primo tassello che apre ad un ciclo vincente. Parte ufficialmente l’Era Viola. Un percorso che possiamo suddividere in due fasi storiche principali: la prima, quella dei grandi arrivi e una seconda, quella delle grandi partenze. Ma riprendiamo il filo del discorso. Nel frattempo l’Ingegnere allestisce una squadra competitiva seguendo i dettami di Liedholm, affinché «i soldi spesi per un acquisto rientrino in rendimento individuale e di squadra nell’arco di un certo periodo di tempo», dice. E il tempo gli dà ragione.
Nel 1980 arriva il primo trofeo della sua gestione: la Coppa Italia. Ma è anche l’anno della riapertura del calcio italiano agli stranieri e all’aeroporto di Fiumicino sbarca un brasiliano dalla chioma bionda che al pallone dà del tu: è Paulo Roberto Falcao. Nel mirino di Viola c’è ora lo scudetto e la sfida – che si farà epica – alla Juventus è lanciata. Il primo tentativo tuttavia va a vuoto. Un gol regolare di Turone, nello scontro diretto a due giornate dal termine, viene annullato per presunto fuorigioco e i bianconeri si laureano campioni d’Italia.
«Con la Juventus è sempre questione di centimetri» chiosa, da vero galantuomo, Dino Viola.
Qualche giorno più tardi, a Via del Circo Massimo 7 – allora sede degli uffici giallorossi -, viene fatto recapitare un righello di plastica. È un regalo di Boniperti. «Serve più a te che sei geometra» gli risponde con eleganza l’Ingegnere. Altri uomini, altri tempi (oggi le squadre si tenzonano a suon di tweet). Polemiche a parte, lo scudetto arriva due stagioni dopo. A 40 anni dall’ultima volta, l’8 maggio 1983, il tricolore torna nella capitale. Finalmente il divario con le corazzate del Nord si è colmato ma quella è «solo una tappa, una piccola tappa» commenta Viola.
Il giro di campo dopo la vittoria del secondo scudetto
Il 1984 è l’anno apicale della Roma che approda in finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool. Si gioca in casa, all’Olimpico. Tutti i presupposti sembrano favorire i giallorossi, tuttavia gli errori dal dischetto di Conti e Graziani sono una condanna. Il trofeo è degli inglesi. La Roma si consola vincendo, pochi giorni più tardi, la sua quinta Coppa Italia, terza della gestione Viola. Ma è una vittoria che lascia l’amaro in bocca. Il 1984 è anche sinonimo di grandi addii, consumatisi tra querele e parole al vetriolo. Via Falcao, con il quale Viola ingaggerà una battaglia legale e via Di Bartolomei: «un giorno mi ringrazierà di averlo ceduto, le bandiere non esistono più», dice. Anche con Liedholm il rapporto si è logorato.
Quelli sono anche gli anni del “violese”, un tipo di linguaggio sibillino usato dall’ingegnere per canzonare i suoi avversari. Ma Dino Viola non è soltanto scontroso ed aspro nei toni. È anche un uomo empatico, di grande sensibilità. Come quando dopo la morte di Antonio De Falchi sostiene la madre del giovane nel giorno del funerale. Perché lui, per i suoi tifosi, nutre un rispetto quasi reverenziale: «La curva Sud ci ha dato una lezione» – dice dopo una sconfitta interna contro il Bayern Monaco nel 1985. «Si può anche perdere, si possono anche subire delle amare sconfitte, ma con quegli striscioni che ha esposto ci ha fatto capire che, nei momenti sfavorevoli, bisogna aumentare le energie. La Sud ci dà la fede, noi le dobbiamo il carattere».
Sono passati più di 30 anni da quando Dino Viola è scomparso; 30 anni che hanno visto il susseguirsi di progetti validi e di altrettanti finti grandeur ma quello che ha fatto l’Ingegnere rimane ancora il più fulgido. E noi non possiamo che levarci il cappello e rendergli omaggio: «Lode a te, Dino Viola».