Ritratti
25 Marzo 2020

Ruud Gullit era fuori dal coro

Un calciatore e ancor prima un uomo extra-ordinario.

Sinistro di Colombo, respinge il portiere, Bumbescu, mischia, Gullit, gol, gol, gol di Gullit. Era il 24 maggio 1989, la voce quella di Pizzul, lo stadio il “Nou Camp di Barcellona” come più volte ricordato dal telecronista friulano. Come dimenticare quella finale di Coppa Campioni, o anche le parole pronunciate dal “Brunone nazionale” per commentare, in modo concitato, l’1-0 del Milan: ogni tifoso milanista dell’epoca, in qualche armadietto, avrà ancora le VHS della registrazione RAI con il nastro consumato a furia dei compulsivi Rewind & Play per gustarsi ancora, ancora e ancora, la rete del vantaggio rossonero.

A quel gol ne seguiranno altri tre: prima Van Basten, poi ancora Gullit e il punto esclamativo nuovamente di Van Basten. Una notte unica, indimenticabile, che consacrò il Milan di Sacchi a livello internazionale. La coppa dalle grandi orecchie tornava a colorarsi di rossonero dopo venti anni di attesa, al culmine di un percorso europeo straordinario iniziato qualche mese prima.

Il Vitoša Sofia spazzato via al primo turno, poi la Stella Rossa sconfitta ai rigori negli ottavi di finale – grazie alla provvidenziale nebbia di Belgrado – quindi il Werder Brema, battuto nei quarti con il minimo sforzo, e poi il capolavoro in semifinale contro un Real Madrid stellare, spazzato via per 5-0 a San Siro in una delle migliori esibizioni di squadra che il calcio moderno ricordi. Un Milan letteralmente perfetto, in grado di suonare una melodia calcistica senza sbavature: Sacchi a dirigere l’orchestra, in campo undici strumenti straordinari, tutti indispensabili. Uno, però, era più insostituibile degli altri: il primo violino del Milan degli Immortali si chiamava Ruud Gullit.

gullit champions league
Ruud Gullit scanzonato e irriverente come sempre, anche la notte del 24 maggio 1989, quando insieme al Cigno di Utrecht ha riscritto la storia recente del Milan.

Nato ad Amsterdam il 1° settembre 1962, il Tulipano Nero arrivò a Milano nell’estate del 1987 a quasi 25 anni, nel pieno del suo splendore fisico e atletico, diventando uno dei calciatori più titolati al mondo: 1 Pallone d’Oro, conquistato proprio nel primo anno di Milan, 1 Europeo con l’Olanda (da capitano), 2 Coppe Campioni, 2 Supercoppe Europee, 2 Coppe Intercontinentali e tanti altri trofei a livello nazionale. Protagonista in campo, per anni, ma anche superstar fuori: Gullit, in Italia, si è fatto conoscere come un personaggio extra-ordinario, un tipo tosto, senza peli sulla lingua, con un’intelligenza superiore alla media e capace di conquistare in un istante tutti gli sportivi, milanisti e non.

A innamorarsene al primo sguardo fu l’allora Presidente rossonero Silvio Berlusconi, che lo incontrò in Spagna – ben un anno prima di acquistarlo – durante il Trofeo Gamper nel 1986. Berlusconi, che aveva appena salvato da una profonda crisi finanziaria il Milan, era stato invitato dal Presidente blaugrana Josep Lluís Núñez al torneo dedicato al fondatore del club catalano: opposto al Barcellona, in quell’edizione, c’era il PSV Eindhoven. Tra le fila degli ospiti, un marcantonio di 191 centimetri per 91 chilogrammi, potente e veloce, con una falcata da sprinter – aveva un tempo di 11’’ sui 100 metri piani –, una forza devastante e un’esuberanza fisica fuori norma.

Il Cavaliere non ebbe dubbi: quell’olandese con le treccine – da sempre il suo marchio di fabbrica – doveva essere un giocatore del Milan, ad ogni costo.

Quel ragazzo dall’incedere possente, dotato di notevolissima tecnica accoppiata a progressione impressionante e capacità di tiro letale, era stato in grado di far stropicciare gli occhi agli oltre 80 mila del Nou Camp con le sue scorribande: nonostante la maglia indossata non fosse quella dei padroni di casa, fu lui la rivelazione della serata. Specialmente per il presidente Berlusconi.

Un olandese di belle speranze cresciuto calcisticamente nel ruolo di libero, che solo in età avanzata, nelle giovanili dei nerazzurri del Door Wilskracht Sterk, venne spostato più avanti. Gli raccontarono anche della bocciatura che Ruud subì a 16 anni durante il provino per entrare nelle fila dell’Ajax, ma il Cavaliere non ebbe dubbi: quell’olandese con le treccine – da sempre il suo marchio di fabbrica – doveva essere un giocatore del Milan, ad ogni costo.

Per la precisione furono 13 i miliardi di lire versati, dopo un anno di profondi corteggiamenti, nelle tasche del signor Philips. E così il 15 aprile 1987 Gullit già si trovava a Milano davanti ad un’orda di giornalisti per la presentazione ufficiale. Il campionato era ancora in corso – oggi si griderebbe allo scandalo se un giocatore venisse presentato nel rush finale della stagione – e sulla panchina del Milan sedeva un giovane Fabio Capello, promosso da vice Liedholm a primo allenatore per guidare la squadra nelle ultime sei giornate.

Gullit Psv
Simba con la maglia del PSV, prima del suo arrivo a Milano

Il Milan era in piena corsa per un posto UEFA – che poi conquisterà battendo per 1-0 la Sampdoria in un tiratissimo spareggio sul campo neutro del Comunale di Torino – e un giornalista a centro sala, evidentemente poco avvezzo ai pronostici, chiese all’olandese: “Se il Milan non dovesse qualificarsi in Coppa Uefa, Gullit, lei cosa penserebbe?”. La risposta del neo acquisto rossonero lasciò la platea di stucco:

“In Olanda c’è un proverbio che dice: se mia madre aveva il pisello, era mio padre”.

Non male come biglietto da visita. Bastò un’affermazione per far capire a tutti con chi avrebbero avuto a che fare. Quando in estate si aggregò al Milan portò con sé, oltre a camicie a righe e bermuda, tutto il suo carisma ed il suo fascino, pronto a confermare sotto ogni aspetto la sua essenza strabordante.

Lo fece spesso in campo con prestazioni sublimi, come quella davanti agli oltre 80 mila spettatori presenti al Meazza il 3 gennaio 1988, quando il Milan batté il Napoli di Maradona per 4-1 iniziando la prodigiosa rimonta che a maggio portò il primo scudetto dell’era Berlusconi – l’unico vinto da Arrigo Sacchi – in via Turati. La Gazzetta dello Sport del giorno seguente titolò:

“Nasce il superMilan. Napoli distrutto. Nel segno di Gullit”.

L’olandese realizzò infatti un gol, servì un assist e colpì un palo: quando Sacchi gli concesse la standing ovation inserendo Massaro, San Siro era una bolgia. Tutti si erano finalmente innamorati di Simba, come lo definì il grande Gianni Brera per via della folta chioma da Re della foresta. Da quel giorno a Milano, e non solo, imperversò la Gullitmania: dappertutto spuntavano treccine e cappellini con dreadlocks, per una popolarità sconfinata che riuscì a contrastare anche il mito dell’allora capitano partenopeo, Diego Armando Maradona.

Gullit Olanda
Quell’anno il mito si alimentò con il trionfo europeo: a Monaco di Baviera Ruud Gullit fu capitano e marcatore della serata, nel punto più alto della carriera in nazionale di Simba e della stessa storia Oranje (Photo by Bongarts/Getty Images)

Delizia e croce, il Gullit calciatore fu anche quello di Ascoli, esattamente un mese e mezzo dopo l’exploit di San Siro contro il Napoli. Minuto 7, stadio Del Duca, arbitro Cornieti: Gullit viene fermato per un banale fallo a centrocampo. Lui si genuflette davanti al direttore di gara, cartellino giallo. Poi si alza in piedi e applaude l’arbitro, che lo spedisce in doccia anzitempo. Prendere o lasciare.

Spenti i riflettori del campo, però, la luce di Gullit non smetteva di brillare. Lontano dal terreno di gioco risuonavano le sue dichiarazioni, sempre fuori del coro, argute e mai scomposte. Popolarissima la dedica del Pallone d’Oro conquistato nel 1987 a Nelson Mandela, leader dell’African National Congress e della lotta per i diritti dei neri, ma ancora prigioniero del regime politico di Johannesburg dal luglio 1963.

Una guerra, quella contro la segregazione razziale sudafricana, che scandì gran parte del tempo libero milanese di Gullit: memorabile la sua apparizione al PalaTrussardi durante il concerto dei Revelation Time, un gruppo reggae olandese a cui Ruud era particolarmente legato. Tutt’altro che un cameo sul palco dello storico palazzetto di Lampugnano: Gullit diventò il frontman del gruppo, intrattenendo i circa 8 mila spettatori con la sua voce calda e avvolgente. Indosso, nemmeno a dirlo, una maglietta nera con una scritta ben visibile: Stop Apartheid.

Ruud Gullit
Gullit, prima di essere un calciatore fuori dal comune, era un uomo sui generis

La Milano di fine anni ’80 ebbe la fortuna di conoscere anche un Gullit più “leggero”, meno impegnato. Il Gullit che, ad esempio, faceva girare la testa alle innumerevoli ammiratrici con cui condivideva qualche serata alcolica di troppo; persino Sacchi, nonostante la sua rigida visione dello spogliatoio e del professionismo, lo perdonò più di una volta. Perché Gullit era incorreggibile, ma soprattutto indispensabile.

Pensare che la mattina di Capodanno del 1988, in preparazione di quel Milan – Napoli in cui San Siro si sposò con Simba, il Mago di Fusignano volle i suoi a Milanello di buon’ora. L’olandese arrivò all’allenamento nel pomeriggio, occhi gonfi, pieghe del letto ancora sul viso e un tasso alcolemico non del tutto smaltito. Il mister chiese spiegazioni, Gullit minimizzò, parlando di una festicciola tra amici per salutare il nuovo anno, bagnata dalla “giusta” dose di alcol. Due giorni dopo Sacchi lo mandò in campo da titolare e quel che successe è storia.

Il giorno della discordia arrivò tuttavia anche per l’olandese, nel marzo 1988. Il Milan, in pieno inseguimento scudetto, era in partenza per Avellino. La moglie di Gullit, allarmata per non averlo visto rincasare la sera precedente, si mise in contatto con lo staff rossonero per avere sue notizie. In gruppo però non c’era, e non si era nemmeno presentato all’imbarco di Linate: solo a seguito di numerose ricerche alcuni collaboratori di Sacchi lo trovarono addormentato in una sala d’aspetto dell’aeroporto. Arrigo non disse nulla fino all’arrivo in Campania, quando andò nella camera d’albergo dell’attaccante per un proverbiale “shampoo”. Volarono parole grosse:

“Ti sei guardato allo specchio? Ma non ti vergogni? Sembri un fantasma. È la prima volta che vedo un nero diventare bianco”.

In campo contro l’Avellino Gullit non toccò un pallone ma un paio di settimane dopo, nel derby, fu un’ira di Dio. Proprio dopo il match contro l’Inter Ruud volle parlare al suo allenatore, per chiudere il cerchio. L’obiettivo era scusarsi per quanto accaduto ad Avellino, ma non solo: dopo la difesa, passò all’attacco, chiedendo al mister di non mettere mai più in discussione il colore della sua pelle. Sacchi annuì e, a sua volta, gli chiese scusa. Che dire, prendere più che lasciare.

Milan Napoli
Un’istantanea dal libro dei ricordi del calcio italiano negli anni ’80. La foto si commenta da sola. (Credit: Allsport UK /Allsport)

Chiusa questa parentesi incandescente, i due tornarono in sintonia e il Milan riprese a correre: al termine della stagione i rossoneri vinsero lo scudetto in rimonta sul Napoli, e in estate Gullit diventò campione d’Europa con gli Orange, pregustando un titolo che l’anno successivo conquistò anche a livello di club.

Dopo la grande vittoria contro il Real Madrid in semifinale di Coppa dei Campioni, in previsione dell’atto decisivo, il Presidente Berlusconi andò a trovare la squadra per complimentarsi del traguardo raggiunto, ma anche per chiedere a tutti uno sforzo: un’astinenza dal sesso per 30 giorni. Gullit non indugiò e, alzandosi in piedi, richiamò l’attenzione del “Dottor Berlusconi”, esprimendo il suo dissenso con un’esclamazione memorabile: «io con le palle piene non riesco a correre!». Niente castità, quindi. Ma anche questa volta quel che successe è storia:

“…sinistro di Colombo, respinge il portiere, Bumbescu, mischia, Gullit, gol, gol, gol di Gullit”

Quando il tedesco Tritschler emise infine il triplice fischio si realizzò il sogno di un intero popolo – quello rossonero – e di un ragazzone che, treccine al vento, mostrava sfacciato al mondo intero lo scalpo più bello, la tanto agognata Coppa dei Campioni, indossando una maglia della salute smanicata. Perché se oggi c’è tanta “nostalgia” dei calciatori che furono non è solo per il valore in campo ma, in particolar modo, per le storie che erano in grado di raccontare.

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