Le onde si infrangono lievi dinnanzi alla Fortezza del Priamar. Schizzi salmastri lambiscono piccole barche ormeggiate e mastodontiche navi da crociera, che ricoprono d’ombra le facciate di antichi palazzi fronte mare. Bragozzi che aspettano l’ora dell’Ave Maria per uscire alla ricerca di triglie, naselli e moscardini. Mentre elefantiaci mostri bianchi ospitano orde di vacanzieri mordi e fuggi alla ricerca dell’ultimo, inutile, selfie, prima di un apertivo con destinazione Barcelona. A Savona tutto scorre come l’acqua del mar Ligure nel quale ci si specchia.
Anche le enormi contraddizioni disegnate dal suo porto, il secondo a livello commerciale nella regione, che racconta due versioni differenti della stessa città. Pescatori e turisti. Calma e attesa. Lenta pazienza e smaniosa euforia. Al centro, il mare. Cuore pulsante della Riviera Ponentina. Palme, sole, il traffico estivo che scioglie il catrame dell’AutoFiori. Esistenza che si muove fluttuante, come la spuma delle onde che si spezzano davanti alla darsena. Tutto passa, anche la sensazione di sentirsi la sorella più piccola della vicina Superba. Timida rassegnazione che si manifesta in ogni sfaccettatura. E anche lo sport non sembra fare eccezione.
Rinaldo l’azzurro e lo “Sfondareti” di Carcare
Marinai inglesi, un bastimento con qualche palla da foot-ball al suo interno, la sosta al porto. Incipit che si ripete spesso nelle storie che narrano gli albori del calcio nelle città costiere della Penisola. E poi, Genova è a un pugno di chilometri. Naturale che l’eco del boom di questa nuova disciplina arrivi anche alla periferia dell’impero. Senza troppi fronzoli, si sostituisce alla ginnastica e ci si ritrova tutti in una piazza d’armi mal in arnese per divertirsi. A queste latitudini, l’anno di grazia è il 1907. Righe bianco blu, il soprannome “Delfini” che nascerà col tempo, insieme a “Gli Striscioni”, e la speranza di bussare alle porte del pallone che conta. Sogno infranto e forse mai nemmeno sfiorato.
Ancora oggi, dopo innumerevoli peripezie e quasi 120 anni di storia travagliata, nonostante i fallimenti e le poche soddisfazioni sportive, c’è chi continua a difendere i propri colori / Foto Savona Fbc 1907
Tutt’altra storia rispetto alla magniloquenza del capoluogo, che all’epoca dei pionieri baschi in testa e baffoni sul volto, sforna una quantità non indifferente di team, destinati solo in parte a restare aggrappati ai libri di storia. Del Genoa tutto si sa, Andrea Doria e Sampierdarenese si fonderanno nel Secondo Dopoguerra per dare vita a quella splendida maglia blu cerchiata. Le altre sono pur sempre comparse, ma combattive e agguerrite il giusto per dar noia ai rivieraschi ponentini. Appena nati e già con la certezza in tasca che no, non c’è nulla da fare.
Si gioca per la gloria, con l’ardore, di tanto in tanto, d’apparire con la velocità di una cometa in cielo, tra le righe più rilevanti di un romanzo sportivo ancora in corso d’opera.
Pennellate vivaci che schizzano, proprio come le onde sul porticciolo, sopra una tela grigia opaca. Qua e là, gemme incastonate tra la val Neva e la piana di Albenga. Ad Anversa, nell’estate del 1920, la nazionale olimpica è chiamata al riscatto dopo l’umiliazione subita dai finlandesi a Stoccolma otto anni prima. Va leggermente meglio, se non altro una gara la si vince, e nel torneo di qualificazione il ct Giuseppe Milano schiera, all’ala destra, Rinaldo Roggero, Il nome non dice nulla e si capisce, ma dopo oltre un secolo, rimane l’unico giocatore biancoblu savonese ad avere indossato la casacca dell’Italia.
Roggero è un carneade, pur avendo allenato “I Delfini” per più di un decennio. L’ultima esperienza con il Savona si conclude in anticipo. La società lo sostituisce con un altro ex “enfant du pays”. Un tipo che, vent’anni prima, si sistemava in mezzo all’area di rigore con il solo obiettivo di buttare in porta quella fottuta palla. Anche a costo di rompere denti e lingua a un portiere o trascinare in rete due difensori. Leggende? Esagerazioni?
Una patina di verità dovrà pur esistere, se Virgilio Felice Levratto era soprannominato lo “Sfondareti”. Sorta di Bobo Vieri d’antan, godeva di buona fama anche per un’innocua canzoncina che il Quartetto Cetra gli dedicherà tempo dopo. Un sinistro equiparabile solo a quello di “Rombo di Tuono”, dicevano i tifosi più anziani e malinconici. Iperbole, ma proprio perchè tifosi gli si perdona tutto. Levratto, però, forte lo era davvero se ad appena 18 anni solleva al cielo la prima Coppa Italia della storia.
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Anno 1922. Dodici mesi particolari, nel calcio e non solo. La polemica per la riforma dei campionati provoca una scissione che, per fortuna, dura lo spazio di una stagione. La coppa nazionale viene snobbata da tutti, anche dalla piccola Novese neo campione d’Italia, che si ritira durante la fase finale. Restano una manciata di underdog. Lucchese, Udinese e … Savona, direte voi. Invece no. A riprova del fatto che il destino è cinico sin dagli albori, i biancoblu cittadini vengono anticipati da un team di periferia, nato dopo di loro, il quale ha la sfacciata fortuna di trovarsi il giovanissimo Levratto al campo di allenamento.
La famiglia discende gli appennini da Carcare, val Bormida, verso il mare per lavoro. Si fermano a Vado, estremità industriale di Savona già indipendente dal capoluogo. I rossoblu vadesi accolgono lo “Sfondareti” a braccia aperte. Giocano nella giungla delle categorie inferiori, ma non fa niente. Il ragazzo segna con estrema facilità e tra un ritiro e una ripetizione, il 16 luglio, al “Campo di Leo” arrivano i bianconeri friuliani. La coltre del Mito la fa da padrone sulla cronaca. Dopo 127 minuti e con il rischio buio in arrivo, un tiro secco all’incrocio dei pali, copyright Levratto ovviamente, regala la coppa ai liguri. Quel trofeo così lontano nel tempo resta, a distanza di oltre cent’anni, l’unico acuto del calcio ponentino.
Da Voltri a Ventimiglia, fatte salve due Coppe Italia dilettanti (Gli Striscioni di mister Vallongo e la Sanremese), nessuno ha mai più alzato qualcosa che profumasse di trionfo.
E per il Savona Calcio, oltre allo smacco di vedere giocare Levratto con i propri colori sul finire della carriera, quando è ormai troppo tardi per tutto, capita anche di vedersi sorpassare nel racconto del pallone romantico da una sezione di Vigili del Fuoco di La Spezia. Campionato di Guerra 1944. Dentro un anno di sangue, non si sa come, si trova il tempo per giocare. Quel che resta della Serie A lo vince un manipolo di pompieri spezzini. Estremo Levante, per non dire quasi Toscana. Terra di confini e di anarchia. Poco importa. Su Savona e sul suo territorio calcistico scende un sonno profondo dal quale non ci si è ancora svegliati.
Glauco dei due derby, quelle morti premature e lo sferisterio
E dire che, nel biennio delle uniche stagione in Prima Divisione (antesignana della Serie A), dalle parti del campo di via Frugoni era transitato anche un certo Jeno Karoly. Ungherese, ex prolifico attaccante in patria, guida i liguri per due anni prima di trasferirsi nella Juventus del giovane presidente Edoardo Agnelli. I sacri testi bianconeri lo collocano come il terzo allenatore ufficiale della storia. Di sicuro, diverrà il primo coach a vincere il titolo di campione d’Italia. Karoly, però, non riuscirà a godersi il successo dei suoi ragazzi. Un infarto lo porta via a quattro giorni dalla finalissima con l’Alba Roma, lasciando un alone di tristezza sul secondo scudetto dei torinesi.
Un’ombra sinistra sembra aleggiare da queste parti, sospinta dai venti che soffiano forti dal Golfo del Leone. Oltre al confinarsi tra le paludi delle serie interregionali, non appena un campione o potenziale tale si ferma qui, tra i borghi imperiesi e il caos dei “caruggi” genovesi, il Destino sembra divertirsi ad allontanarlo da Savona o dalla realtà terrena. Tra il rumore metallico dei cantieri navali di Vado, viveva, a inizio secolo, la famiglia Bacigalupo. Quattro sorelle e due fratelli innamorati del pallone. Non vogliono seguire le orme di Levratto, anzi.
Si sistemano in porta, proprio a battagliare contro i centrattacchi dell’epoca.
Si chiamano Manlio e Valerio. Il primo, gioca ovunque tranne che con “I Delfini”, con i quali si rifarà vincendo un campionato di Serie C nel 1966. Il secondo è il portiere titolare nella stagione ‘42-’43. Una rivelazione. Fortissimo. Tutti sanno che non può durare. Siamo in guerra, ma gli squadroni non stanno a guardare. Prima va al Genoa, poi Gipo Viani lo acquista al Toro. Con lui e altri dieci campioni, i granata saranno, per un quinquiennio, il GrandeTorino. Vincono cinque campionati di fila. Sono al contempo la formazione dei granata e della Nazionale, non fosse per quel fenomeno di Lucidio Sentimenti, che i rigori li para e li segna, che toglie il posto al suo amico Valerio.
Quando il Fato vincerà il Torino, quel giorno di maggio del 1949, sui costoni del colle di Superga, a fianco al corpo di “Baciga” troveranno una figurina. Era quella del suo “rivale” Sentimenti. Insieme in posa, come amici a un torneo, dentro il portafoglio di un ragazzo scomparso troppo presto, insieme a un gruppo di campioni dal talento irripetibile. È anche per questo che lo stadio di Savona, inaugurato dieci anni dopo (1959) con ben 20mila posti a sedere, poi gradualmente ridotti, porta il nome di Valerio – Bacigalupo.
Una foto, di dieci anni fa, dello stadio ‘Valerio Bacigalupo’ (Wikipedia)
Manlio li riconduce in Serie B dopo una vita, ma non resta in panchina. Rabitti prima, Occhetta in seguito, non riescono a invertire il trend di una squadra che, nonostante presenti in rosa due vice capocannonieri del torneo, scende in C. Una beffa, l’ennesima, nell’anno in cui le retrocessioni diventano quattro e, manco a farlo apposta, i liguri si classificano quart’ultimi negli ultimi novanta minuti. Non bastano il fosforo di un giovane Beppe Furino a centrocampo e nemmeno l’esperienza di Eugenio Fascetti. Soprattutto, risultano inutili ai fini della salvezza i trenta gol messi in rete dal tandem d’attacco. Due ragazzi lombardi. Pochi anni a dividerli.
Il più giovane arriva in prestito dal Milan e con i rossoneri vincerà tutto, salvo poi tornare, a fine carriera tra le palme della riviera. Si chiama Pierino Prati.
Il secondo è uno stoccatore di categoria, viene da Como e si è già fatto amare dalla tifoseria del Grifone rossoblu. Trasferitosi una manciata di chilometri a ovest, Glauco Gilardoni diventa l’uomo dei due derby. In una cadetteria in cui le squadre della medesima regione sono tre, il bomber si rende protagonista degli unici momenti di gioia vera. Il 20 novembre 1966, un suo gol regala il successo contro il Genoa. In primavera si ripete, questa volta contro i cugini della Samp. Una doppietta che tiene acceso un sogno, spentosi, almeno sino ai giorni nostri, il 18 giugno 1967 dentro il prato spellato del “Cibali” di Catania.
A Legino e dintorni, il fatalismo sembra di casa.Un’aura nera, rappresentata dalle morti di Karoly, Bacigalupo, ma non solo. Giuliano Taccola, bomber in C e scomparso due anni dopo, quando la sua carriera stava per svoltare. Giuseppe Chittolina, portiere simbolo del Vado, il cui stadio porta il suo nome, deceduto dopo un contrasto di gioco. Paolo Ponzo, che da queste parti ha concluso con il calcio e con la vita, spezzata nel mezzo di una gara podistica, lui che in campo correva per dieci. Le beffe, quelle sportive, che si dilettano a gettare oscurità sulla Città dei Due Papi per far risplendere altre realtà.
Malgrado il vento avverso, c’è chi è sempre rimasto al fianco della squadra, custode della sua storia e del proprio territorio
Come i chiavaresi della Virtus Entella, promossi in B proprio mentre cominciava il declino savonese. Addirittura, lo Spezia in A. O l’Albisola, chimera in TerzaSerie per una stagione, nella quale brillava la luce di Andrea Cambiaso, terzino genovese che sta tentando di tenere in piedi l’indecifrabile Juve di Thiago Motta. E poi Falcone, signor portiere a Lecce, o Panucci, che prima del Milan giocava a Savona, ma nella “Veloce”. Qui non resta nessuno. E, forse, c’entra il fatto che, volente o nolente, la provincia si deve abbandonare. La corsa alle grandi città per diventare qualcuno, staccando il cordone ombelicale che lega a questo mare che profuma già di Francia, mentre le prime propaggini alpine osservano distanti, nascoste dietro il verde dei boschi mediterranei.
Per chi rimane, non resta che attaccarsi alle tradizioni. Quelle che vogliono questo territorio appassionato alla pallapugno. Disciplina antica e romantica, cantata da Fenoglio e Pavese, che odora di Langhe e Monferrato, ma che nel Ponente ligure ha ancora il suo fascino. Come la petanque in Provenza, non di rado capita di vedere gli sferisteri pieni di gente, vecchi e giovani insieme, a seguire quella piccola sfera rimbalzare con vigore su di un possente muro. Asti, Cuneo, Imperia e Savona. L’albo d’oro di questo sport racconta di un legame con un preciso lembo di nord ovest.
Province dove, e non può essere un caso, il calcio resta passatempo per campi dilettanteschi.
All’ombra della torre dedicata al navigatore Leon Pancaldo, le onde continuano a infragersi come sempre. Tutto passa, nulla sembra rimanere. Nella Savona di Papa Sisto IV, ideatore di quel miracolo artistico che è la Cappella Sistina, di suo nipote Giulio II, di Sandro Pertini, che venne al mondo tra le vallate che guardano verso le luci del porto, spira un vento malinconico. L’attualità dice Prima Categoria, dopo l’ennesimo fallimento, il quarto in nemmeno quattro decadi. Una risalita dura come una salita appenninica, culminata con l’acquisizione dello storico proprio dodici mesi fa. Al termine del contestatissimo biennio della gestione di Massimo Cittadino.
Uomo inviso a gran parte della tifoseria organizzata, stanca di languire tra campetti di borgata. A scrivere la parola fine sono stati Enrico Santucci prima e Alain Milani dopo. Il primo passo è l’arrivo in Promozione, dopo sei anni nelle secche delle leghe locali. Come sono lontani i tempi della finalissima di Coppa Italia Dilettanti. La doppietta di Gatti nel derby contro la Sestrese. Due liguri a giocarsi la coccarda nazionale nella remota Locri. Estate 1991. Un’era geologica fa. Inutile pensarci, perché tra questi lembi di Nord Ovest “bardato di stelle” larinascitaè sempre troppo lontana, come le navi all’orizzonte, che a Ponente paion solo di passaggio.