Altri Sport
30 Marzo 2025

Cosa ci aspettiamo dal tennis maschile USA?

Riflessioni sulla crisi del tennis americano.

Cosa facevate a 16 anni? Qual è stato il momento più alto della vostra vita adolescenziale? Il primo bacio per alcuni, un bel voto ad un compito per altri, per qualcun altro ancora la gita della quinta superiore. Momenti epici, certo. Momenti che avrà di certo vissuto anche Donald Young, che però a 16 anni poteva vantare un qualcosa di decisamente più grande: classe ’89, nel 2005 la sua foto comparve sull’edizione Whos’s Next di NewsWeek, dedicata ai protagonisti del futuro. Due pagine dopo c’era la foto di Barack Obama. Un’investitura pomposa, pesante, tipicamente americana, peculiare del Paese che dopo un buon trentennio di costanza ad alti livelli doveva trovare i sostituti di Sampras e Agassi, gli ultimi due idoli. E con Roddick già campione Slam nel 2003 questo sedicenne, mancino come McEnroe e di origini afro-americane, avrebbe rubato tutte le pagine, tutti i notiziari. Così pensavano in America. Nessuno avrebbe però immaginato che 22 anni dopo l’ultimo Slam maschile a stelle e strisce sia ancora proprio quello di A-Rod.

Un’introduzione doverosa per comprendere la crisi profonda del tennis americano, che dopo anni di vacche grasse, sta scontando un lungo Purgatorio. Taylor Fritz è “solo” n.4 del mondo, e le settimane buone di Tiafoe o la bravura e la costanza di Tommy Pau non sono semplicemente abbastanza per il Paese di McEnroe, Sampras, Agassi, Connors, Chang e chi più ne ha più ne metta. Così come prima di loro Roddick, campione Slam e per un breve periodo n.1 al mondo (nella storia solo altri 28 hanno occupato il gradino più alto del podio) e il funambolico Blake, non erano stati abbastanza. Non c’è una risposta giusta alla domanda “perché?”, ma ci sono delle motivazioni sensate che potrebbero fornire una base solida. Non ultima, la presenza di Federer, Nadal e Djokovic, che sono stati semplicemente irraggiungibili dalla concorrenza. Ma perché, si sono domandati per anni oltreoceano, nessun americano ha saputo fare lo stesso? Mancanza di talento, poche motivazioni? Infrastrutture inadatte? O, qualche voce dalle ultime fila mormorava, troppa pressione?

Inciso: la pressione mediatica non è mai una giustificazione assoluta quando qualcosa non funziona, sarebbe troppo riduttivo. Ma indubbiamente, in un Paese dove a fare la voce grossa sono i grandi network, e dove in un attimo si viene eletti a “nuovo Jordan”, “nuovo Brady”, “nuovo Sampras” a seconda dello sport, non è difficile per un ragazzo venire schiacciato da un peso come quello del dover vincere, di dover continuare a dare lustro a una gran serie di successi. Jack Sock, che a 30 anni ha detto basta al tennis professionistico – riciclandosi nel fenomeno molto yankee del pickleball -, per varie somiglianze è stato accostato ad Andy Roddick: Una questione di gioco, di provenienza geografica. Al massimo è stato n.8 al mondo e negli Slam non ha mai superato gli ottavi. Il suo ex coach, Troy Hahn, disse qualche anno fa:

«Penso che sia dura, per tutti quei ragazzi. Per Jack, Steve Johnson, John Isner. Siamo stati così fortunati negli anni ’80 e ’90 ad avere tutti quei giocatori straordinari, e poi Andy e Mardy Fish e James Blake… E ora, negli ultimi anni, ai vertici ci sono stati essenzialmente gli stessi ragazzi. Penso che tutti i ragazzi americani si facciano molta pressione. La gente vuole un prossimo campione americano».

Già, per i tifosi è una pretesa, un dovere, avere un giocatore tra i primi 5 al mondo, che regolarmente vinca 1000 e Slam, che domini. Che incarni infine il buon Sogno Americano. Morale della favola: Sock e Young hanno lasciato abbastanza presto, nel silenzio generale. Così come era stato facile innalzarli, per l’America è stato ancor più semplice dimenticarli. I loro sono casi esemplari di un cattivo modo di gestione, che in Italia abbiamo vissuto direttamente su Gianluigi Quinzi: scaricare il peso di una generazione, la voglia di un Paese, su un ragazzo o due. Avete fatto caso che l’esplosione di Sinner è arrivata quando i media e il pubblico generalista lo avevano abbandonato, anzi criticandolo per la mancata partecipazione alle qualificazioni di Coppa Davis? Non è un caso. Le aspettative così alte, così chiacchierate, non sono un dono: sono una condanna. Specie in un Paese come gli Stati Uniti d’America, dove lo sport è vita. Ed è un moto per cambiarla.

Ma non sempre in meglio. È eclatante il caso di Mardy Fish, ex n.8 al mondo, argento olimpico nel 2004, che è stato soffocato dalla pressione. Nei migliori anni della sua carriera, tra il 2011 e il 2012, l’americano ha iniziato a soffrire di attacchi di ansia. Insistenti, devastanti. Inizialmente ne aveva sofferto fuori dal campo, soprattutto di notte, ma riusciva a giocare come sapeva. Poi, allo US Open 2012, il black out definitivo. Nel terzo turno contro Simon un attacco d’ansia nel finale di match (vinto) fu la goccia che fece traboccare il viso, impedendo a Fish di giocare due giorni dopo gli ottavi contro Roger Federer. E da lì, la sua carriera, ufficialmente conclusa nel 2015, crollò su se stessa. Come lui stesso scrisse, alla vigilia dell’ultimo incontro ufficiale:

La mia non è una storia di sport. E credo sia importante che la mia storia non abbia un vocabolario sportivo. Non “soffocherò” nel secondo atto, e non vincerò nel terzo. Questa è la storia di una vita. È una storia su come un problema di salute mentale mi abbia portato via il lavoro”.

La pressione di dover essere sempre la miglior versione di se stessi, di avere sulle spalle il peso di essere “il n.1 d’America”, di fallire senza vincere Slam e 1000, può realmente nuocere anche alla salute, alla vita di un giocatore. Ma immolare allo sport la propria vita ha anche i suoi risvolti positivi.



Le borse di studio per il merito sportivo concesse dai college sono spesso un’ancora di salvataggio per giovani che vivono situazioni difficili. E che riescono a costruirsi una vita, o quantomeno ad evitare destini peggiori grazie all’abilità nel tirare da tre o nell’effettuare dei buoni lanci. Non a caso l’NCAA, la lega nazionale collegiale, fa registrare ogni anno dati di ascolto clamorosi per partite di basket, football, baseball giocate da universitari.

E qui si annoda il problema: giocare a tennis in strada è praticamente impossibile, e soprattutto la vita da tennista professionista promette molte più incertezze e di conseguenza minori possibilità di guadagni. In uno studio del 2022 è stato infatti osservato come, su 10 sport presi in considerazione, il tennis sia il nono più guardato negli USA, davanti solo ai motori. Dunque questo ben mostra come ci sia in primis un problema di popolarità, nonostante uno Slam e tre Masters1000 si svolgano sul suolo americano, che unendosi alla possibilità non per tutti di fruirne (non basta un pallone come per il basket o una mazza anche improvvisata come per il baseball) riduce drasticamente il numero di giovani che giocano a tennis. 

Di conseguenza, meno ragazzi giocano, minori sono le probabilità di trovare giocatori di livello assoluto. Per quanto sia indubbiamente vero, riprendendo Rino Tommasi, che “il buon giocatore lo puoi costruire, il campione te lo manda il Padre Eterno”, è altrettanto vero che avere tre numeri 1 diversi nello stesso decennio (Courier, Sampras e Agassi) aiuti a trasmettere valori e immagini di grandezza poi replicabili. Anche perché i campioni aumentano la visibilità dello sport in questione, e anche chi lo pratica. Specie perché negli anni ’90 i guadagni dei giocatori NBA ed NFL, per dire due delle principali leghe professionistiche americane, erano decisamente minori.

Dunque si tentava più volentieri anche la carriera da tennista professionista (come ben descritto da Andre Agassi nel suo bestseller “Open”). Chiaramente questa può essere solo una motivazione di base, visto che ancora oggi da un punto di vista quantitativo il tennis americano è assolutamente florido. L’accento sarebbe da porsi maggiormente sulla qualità, specie negli Slam, visto che l’unica finale post Roddick (Wimbledon 2009) porta la firma di Taylor Fritz lo scorso settembre. Tradotto: 58 Slam senza una bandiera a stelle e strisce in finale. Una striscia negativa chiaramente senza precedenti.


Roddick, ultimo slam USA
Andy Roddick, l’ultimo campione slam maschile USA (Foto: Edward Martinez – WikiCommon)

Nell’opinione di chi scrive, e qui finalmente i nodi vengono al pettine, ci si trova davanti a un problema culturale. Ad un’insoddisfazione cronica, un’incapacità di accontentarsi e una tendenza eccessiva a dimenticare e sostituire giocatori e persone come fossero pedine su una schiacchiera. La narrazione mediale in primis, ma anche il tifoso medio americano, si aspetta che il risultato minimo sia vincere i 1000, arrivare sempre o quasi in fondo negli Slam, avere sempre un paio di giocatori tra i primi 10. Non è solo tendenza a ricordare con piacere i bei tempi andati e forzare un paragone che sarebbe anche ingiusto nei confronti di giocatori come Fritz, Paul, Tiafoe che gravitano in maniera permanente ad alti livelli, senza mai fare (perché non è nelle loro corde, semplicemente) quel passo in più che apre le porte del mito. Si tratta anche di abitudine all’eccellenza che rende complicato ricalibrare così al ribasso le proprie aspettative.

La colpa non ultima è da ritrovarsi anche nella USTA, come aveva opinato qualche anno fa il noto giornalista Steve Flink:

Il programma di sviluppo per i giovani è stato creato nella seconda metà degli anni 80, quando Connors e McEnroe hanno iniziato a calare. Poi in pochi anni è uscito quel gruppo con Sampras, Agassi, Chang, ma questo aveva probabilmente poco a che fare con il programma federale, semplicemente loro erano ottimi giocatori. In parte questo è un fenomeno ciclico”.

Parole risalenti al 2020, che denunciano un ritardo dei programmi federali. Che oggi potrebbero essere facilmente smentite: ci sono ben 4 americani in top 20, addirittura due nei quarti del primo Slam dell’anno, cinque negli ottavi di Indian Wells, primo 1000 stagionale. Appare dunque chiaro che definire in crisi il tennis americano è un’affermazione ardita, con possibilità di smentita. Quantomeno in senso assoluto. Perché relativizzando la questione a ciò che era prima il tennis made in USA allora qualche ingranaggio si smuove.

Un gruppo come quello degli anni ’90, in cui Michael Chang (campione Slam e n.2 al mondo) viene ritratto come “il più debole” è un treno fortunato che passa una volta nella vita. Una circostanza che abitua i palati a farsi golosi, a pretendere ostriche e champagne e non accontentarsi neanche di una bella bistecca accompagnata da un rosso di prima scelta. La metafora culinaria è un buon espediente per ben cogliere quanto un certo tipo di mentalità possa essere deleteria. E quanto e alla lunga tendere a normalizzare e sottostimare risultati che sono di per sé di buonissimo livello possa creare cortocircuiti e disagi.

La domanda corretta da farsi non è “il tennis americano è in crisi?”, ma “cosa ci aspettiamo dal tennis americano?”. Il peso mediatico, in attesa di Michelsen e Basavareddy (?), è ora tutto sulle larghe spalle di Ben Shelton. La top 10 è a un soffio per il 2002, che sembra aver trovato una quadra e una parvenza di ordine al suo gioco.

Indubbiamente le aspettative sono altissime per il figlio di Bryan, e anche ampiamente giustificate. Eppure, in quello che potrebbe essere colui che risolverà il problema, e che ha le carte in regola per farlo, sta l’esistenza stessa del problema. Vincere Slam e dominare il circuito è un’eccezione, una benedizione per pochi, e non una normalità per molti. La cultura americana, che si nutre di titoloni ed eccessi, è la polvere sotto il tappeto. Di generazioni che, incapaci di replicare fasti meravigliosi, vivono di pressioni e inadeguatezza, senza neanche riuscire a godersi risultati per cui tantissimi altri giocatori e svariate Federazioni pagherebbero. Rendendo quasi una nota positiva il dire basta. Come confermato da Jared Donaldson, grande promessa frenata a 25 anni da troppi infortuni:

Lo adoravo, ma smettere con il tennis è stato un sollievo”.

Di Donaldson, primo americano a giocare le Next Gen Finals e con un best ranking di n.48 oltre a un quarto di finale 1000 raggiunto a 20 anni, si sono del tutto perse le tracce. Come fu facile esaltarlo, è stato ancora più rapido ed immediato dimenticarlo, a causa di un’eredità troppo pesante per spalle troppo leggere. Una situazione che, senza un radicale cambio di mentalità e uno spruzzo di pazienza in più, potrebbe rendere lo US Open 2003 di Roddick “l’ultimo Slam maschile USA” ancora per molti anni.

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