Condannare è un obbligo, comprendere lo è altrettanto.
In un’epoca iper-secolarizzata come la nostra, comprendere quanto accaduto sabato sera a San Siro (quando alcuni tifosi dell’Inter sono stati cacciati dalla curva, svuotata in segno di rispetto al deceduto capo-ultras Boiocchi) richiede un importante sforzo interpretativo. D’altra parte se la fede calcistica è analoga alla fede religiosa, quella – come questa – non può fermarsi alle “apparenze”, né alle “testimonianze” unilaterali e univoche. C’è chi dirà che quanto accaduto non merita un’interpretazione, ma sdegno punto e basta: che cacciare dei tifosi da una curva (la propria peraltro) è un atto intollerabile, ingiustificabile e vergognoso. E questo è vero, perché chi paga un biglietto ha il diritto di vedersi la partita come e quando vuole; soprattutto, dove vuole.
In questo senso, quello che alcuni esponenti – senza dubbio i più pesanti, gerarchicamente parlando – della Curva Nord Inter hanno fatto è di una gravità inaudita, soprattutto se è vero – come riportano numerose testimonianze – che l’invito a uscire dal settore è stato tutto fuorché cordiale (non avrebbe senso il contrario, d’altra parte). Il punto però è che qui un’altra lettura è non solo possibile, ma necessaria. Il nostro modo (alternativo ma non avversativo) di leggere l’accaduto non si basa sulla verità del fatto, ma sulla sua essenza. In quanto patologico, il tifo è per noi materia degna della più seria indagine (soprattutto in circostanze come questa).
Nel suo memorabile commento (1967) al “Ramo d’oro” di Frazer (1890), Wittgenstein critica l’antropologo scozzese di aver indagato le religioni come fossero un problema matematico, scientifico, evoluzionistico. L’errore di Frazer, detto altrimenti, sarebbe stato secondo Wittgenstein quello di aver giudicato le diverse manifestazioni religiose unicamente sotto lo sguardo della “verità”, non sotto quello della “manifestazione” (quindi della sua essenza propriamente religiosa). Wittgenstein scrive (pp. 17-19 dell’ed. Adelphi):
«Il modo in cui Frazer rappresenta le concezioni magiche e religiose degli uomini è insoddisfacente perché le fa apparire come errori. […] Credo che l’impresa di dare una spiegazione sia sbagliata già per il semplice motivo che basta comporre correttamente quel che si sa, senza aggiungervi altro, perché subito si produca da sé quel senso di soddisfazione che si ricerca mediante la spiegazione».
Detto altrimenti (p. 21), «un simbolo religioso non poggia su una opinione. E l’errore corrisponde unicamente all’opinione». Qui si potrebbe dire: ma cosa c’entra tutto questo con quanto accaduto in Curva Nord? Cosa c’entra qui la religione? L’ultima domanda è più che legittima ed è bene scoprire subito le carte: chi scrive pensa che la fede calcistica, nonché il fenomeno ultras (e hooligans) con tutte le violenze del caso, siano in un certo senso una manifestazione religiosa [1].
Del tifo, quella febbrile malattia per la propria squadra del cuore che dura tutta una vita, ne parla anche Carmelo Bene. E di chi fa del tifo, non delle sorti sportive della squadra tifata, il centro della propria esistenza: come se il culto (tifare, essere ultras) scaturito certo da una fede puramente sportiva diventasse il fondamento di questa. È bene citare e commentare alcuni passi di CB, dall’ultimo libro presente nella nostra collana, per comprendere con più chiarezza quanto andiamo dicendo.
Bene inizia il suo pezzo, intitolato La criminologia del tifoso, come segue: «Gli è che il tifo è il rovescio dello sport. Tifoso è colui che svestito il suo ruolo estetico di spettatore abbraccia una “fede” e partecipa a vie di fatto. Ideologia del tifo? Ma certo. Nella maggioranza dei casi è vizio ereditario». D’accordo, Bene è provocatorio per natura: ma è anche un grande amante di sport, e l’incipit del pezzo è piuttosto chiaro (lo sport è una cosa, bella; il tifo è un’altra, mica brutta: proprio un’altra cosa). La parte davvero illuminante arriva però subito dopo:
«Per inventarsi un’esistenza, al tifoso si pongono due alternative diaboliche e inumane: o svociarsi e mugugnare nella “infinita rassegnazione” del proprio ruolo o diventare davvero quello che (non) è. Fino in fondo. Trascendere il limbo degli spalti e combattere seriamente, combattere con mezzi che la guerriglia domenicale gli destina. La settimana spesa in concentrazione e associazione a delinquere. Dal protagonismo represso del tifoso vigliacco, grazie a Dio (anche Lui inesistente) reciso il filo spinoso della rimozione, si affronta il nemico allo stadio, armi in pugno e per Dio rischiando. Anche una nottataccia in galera. Questo sì che è coraggio civile».
Bene chiaramente non sta giustificando la violenza da stadio, anzi la sta criticando – se però critica, come ci ha insegnato Kant, significa innanzitutto giudizio, quindi non “verità” ed “errore” alla maniera di Frazer, ma “comprensione” con Wittgenstein. Il codice ultras è un codice non scritto, magari decrepito e fuori tempo massimo, eppure ben presente. Molti ultras sono criminali, e nelle curve pullula e si alimenta la criminalità: da quando tutto questo è diventato un mistero?
Vittorio Boiocchi, il capo ultrà nerazzurro pluripregiudicato e ucciso a colpi di pistola a Milano il giorno della partita, era un criminale. Nondimeno, era uno dei capi ultrà della Curva Nord Inter: è proprio vero che la curva è un luogo dello stadio come un altro, dove chiunque ha il diritto di fare quello che vuole? Certo che sì, in un mondo ideale stile Mulino Bianco. Ma chi ha anche solo mai sfiorato con mano il mondo della curva, sa benissimo che non è così. Di nuovo, qui non si vuole giustificare l’atto di violenza (ingiustificabile) subito da moltissimi tifosi nerazzurri sabato sera: il punto in questione però non è giuridico, ma antropologico (se religioso vi dà fastidio come aggettivo).
La società nerazzurra, chiaramente, ha denunciato “con fermezza” l’episodio “di coercizione avvenuto sabato sera al secondo anello verde dello stadio di San Siro”. Ribadendo, senza mai citare in causa la Curva Nord sia chiaro, “i valori essenziali di fratellanza, inclusione e antidiscriminazione”: ma cosa diamine se ne fanno di questi valori gli ultras dell’Inter? La via, già battuta da Florentino Perez e Agnelli, è una sola: distruggere il fenomeno ultras, una volta per sempre – almeno in teoria, fino al prossimo crepuscolo degli dèi.
Bambini hanno pianto, donne e anziani sono fuggiti spaventati: narrazioni da sacco di Roma sono state fatte. Nessuno ha davvero compreso. Di nuovo, cacciare per sempre gli ultras dalle curve, estirpando il fenomeno alla radice? «E no, risponde CB, dal momento che posto un argine all’emulazione della violenza, gli stadi resterebbero deserti. E ancora, è morale (conveniente) per una società rinunziare al tifoso di che consiste? Sì e no. Dipende dal senso economico-estetico dei relativi clubs. Conclusione. Se il teppista esclude il tifoso e il tifoso esclude lo sport, ebbene proprio questa totalità di esclusioni è la presenza “numerosa e folle” delle nostre domeniche prese a calci».
[1] Qui si opta per la definizione lattanziana di religione, nel senso di re-ligare (unire insieme, legare), preferendola a quella ciceroniana, nel senso del re-legere (avere cura, guardare con attenzione a).