Chi è Fabrizio Toffolo?, chiede l’attore Claudio Vanni. La risposta dell’interlocutore è forse l’unica etichetta che quest’ultimo sia mai riuscito a sopportare in una vita intera: “un Ultras della Lazio”. Inizia così il docu-film di Stefano Calvagna, Volti Coperti. Storia di un ultras, disponibile da poche settimane su Amazon Prime. A chi si aspetta scuse, pentimenti, montaggio ad hoc per far risaltare i procedimenti giudiziari a carico del protagonista, consigliamo sin da subito di desistere dalla visione del film. Al contrario, per chi vuole confrontarsi con un passato spesso descritto in maniera confusionaria, superficiale ed ideologizzata, allora una chiacchierata a tu per tu con chi fu a capo di una delle realtà più importanti del tifo italiano è ciò che ci sentiamo di raccomandare.
Nell’idea e nel lavoro di Calvagna, non c’è spazio per un mondo ultras ricoperto da una patina di modernità, epurato dei suoi elementi più problematici e pronto alla grande distribuzione cinematografica. D’altronde, come si potrebbe raccontare la storia di uno dei (tre massimi) leader degli Irriducibili, un gruppo che sul concetto di distinzione ha fondato la propria identità, attraverso un prodotto di massa? La via scelta dal regista perciò è vincente, e il dialogo è un tuffo a piè pari in un passato condiviso, da Fabrizio, da Vanni e dal regista stesso, accomunati dalla passione per la Lazio.
Raccontare su pellicola un’esperienza così complessa richiede necessariamente il massimo della semplicità e del realismo, per ripercorrere consapevolmente uno spaccato di vita legato al contesto storico sociale italiano che fu e che non sarà mai più. Proprio per tale motivo, i procedimenti giudiziari a carico di Toffolo restano sullo sfondo e accompagnano la narrazione distaccata di un fenomeno ben delimitato a livello spazio-temporale.
Tante volte, come afferma lui stesso nel film, la “penna” è stata nemica giurata di Fabrizio Toffolo. Forse, allora, non sta a noi dare giudizi di valore sulla storia che ha deciso di raccontare, per cui ci limiteremo a provare a ripercorrere e analizzare la storia del tifo in Italia che emerge dalla sua ricostruzione, altrimenti finiremmo col tradire lo spirito del documentario. L’approccio di Fabrizio allo stadio è quel accomuna tutti noi tifosi, la concretizzazione di un’idea che sino ad allora aveva vissuto solo tramite i racconti: l’amore a prima vista con quel settore disordinato e caotico che era la curva vista dalla Tribuna Monte Mario.
Stentiamo a credere in questa ancestrale attrazione verso il mondo del tifo organizzato, fatta di subbuteo e fiammiferi lanciati attorno al campo per simulare i fumogeni, che viene raccontata nei primi frangenti del film. Pensiamo, invece, che la propensione alla vita Ultras di Fabrizio sia iniziata come quella di tanti altri ragazzi della sua età e della sua epoca, come ricerca di un ordinario bisogno di fuga dalla realtà.
Scomodiamo, a tal proposito, la dicotomia sociologica proposta dal tedesco Ferdinand Tönnies tra Gemeinschaft & Gesellschaft.
Con il primo termine si intende la Comunità, in senso primitivo, una vera e propria totalità organica fondata su valori fondamentali quali legami di sangue, amicizia e spirito. I rapporti qui hanno le proprie radici e sopravvivono grazie all’intimità, alla riconoscenza, alla condivisione di segni e linguaggio, di abitudini ed esperienze comuni. Al contrario, la parola Gesellschaft si traduce Società, e trova la sua espressione più completa nella moderna società industriale, nella quale gli individui si aggregano ma non formano una totalità, condividono valori solamente in superficie e restano separati gli uni dagli altri.
Ufficiosamente quindi, la storia di Toffolo per noi nasce in quella prima trasferta di Perugia negli anni Ottanta, da quel bisogno di entrare in una comunità di valori condivisi ed estraniarsi dalla società postmoderna che l’Italia degli anni ‘70 si stava avviando a diventare. Fabrizio Toffolo è in realtà una sineddoche, è una parte per il tutto, perché questo bisogno connaturato all’uomo è quello che spinge ogni giovane in giro per il paese e il continente ad aggregarsi sugli spalti. E’ uno splendido sintomo di assistenza reciproca e solidarietà anche il modo in cui arriva questa prima trasferta.
La mamma ha già detto a Fabrizio che non può andare, troppo pericoloso. Interviene allora un’istituzione del tifo laziale: Goffredo er Tassinaro.
Quest’ultimo si spaccia per il preside della scuola, vuole l’autorizzazione per una gita sulla neve di domenica, e quando Fabrizio risponde al telefono esordisce con un genuino: “mortacci tua, passame tu madre”. Con un amore ingenuo la mamma cade nella farsa e affettuosamente prepara dei panini con la frittata per la gita. Quei panini, secondo le parole di Fabrizio, non arriveranno mai sul pullman, e proprio qui troviamo le prime regole condivise di una comunità che un osservatore esterno ad essa faticherebbe a comprendere. Se un Ultras ha fame assalta il bar o l’autogrill, se si presentasse con il panino pronto da casa che credibilità avrebbe?
Ma questa non è l’unica pratica condivisa oggi scomparsa, in un mondo necessariamente cambiato, che emerge dalla narrazione. La trasferta era una sfida sin dalla partenza, bisognava spendere meno soldi possibili, con ogni mezzo disponibile dal treno al pullman sino ai carri postali. Arriviamo poi all’elemento più contraddittorio di questa pletora di valori, quello socialmente meno accettato: la violenza per dimostrare la propria forza. Si manifesta spesso nella società contemporanea questa tendenza a dimenticare quanto essa sia una ineliminabile condizione umana, perciò anche a distanza di anni si fatica a capire come fosse possibile per questi gruppi di emarginati voler “entrare” con la forza nel settore ospiti, o viceversa andare in trasferta e cercare gli avversari sotto la curva di casa.
Toffolo ricorda un Sampdoria-Lazio in cui si trovarono in quindici a girare dentro le tribune di Marassi tra doriani e poliziotti, o quando si diedero appuntamento in tribuna con i Fighters della Juve, citando ovviamente solo le più significative. La violenza accompagna la storia di Toffolo, e di conseguenza del tifo italiano, dal principio sino alla repressione che dall’alto lo ha addomesticato.
Se è vero, secondo quanto sostiene Michel Foucault, che la cifra portante della modernità è la ragione, questi giovani insoddisfatti dalla realtà che li circondava cercavano riparo nell’opposto inconciliabile della ragione: la follia.
Il destino del folle, però, è la marginalizzazione, perché la razionalità moderna esige normalità. In nome di questa normalità per Fabrizio arrivano, sin dalla prima trasferta, fermi e segnalazioni, e in seguito diffide, arresti, DASPO. Nei momenti più belli della storia della Lazio, molto spesso Toffolo risulta assente forzato, come nel giorno dello scudetto del 2000, quando il DASPO gli viene confermato per il solo fatto essere arrivato in ritardo a Via Allegri, luogo da cui partiva il corteo di protesta della Curva Nord.
In altre occasioni, però, è la follia a vincere sulla repressione normalizzante, ed è il caso del viaggio verso Birmingham per la finale di Coppa delle Coppe, Mallorca-Lazio. Toffolo racconta questo aneddoto quasi con gli occhi lucidi, come quando srotola il vecchio striscione degli Irriducibili che ancora conserva. Parte senza documenti alla volta di Bruxelles, da qui si sposta verso Amsterdam e raggiunge alcuni amici che già si trovavano a Parigi. Poi si imbarca a Calais e attraversa la Manica, nascosto nel bagagliaio dell’auto. Arriveranno al Villa Park a fine primo tempo, pronti a impazzire di gioia a fine partita.
Quella trasferta di Birmingham rappresenta l’ultimo anelito di libertà nella vita da Ultras di Fabrizio Toffolo. Attenzione, non che non ci siano episodi significativi dall’inizio del millennio in poi, ma lui stesso si accorge che il clima sta cambiando. I procedimenti giudiziari che aumentano, l’avvento di Claudio Lotito alla presidenza della Lazio, la modernità che inesorabilmente normalizza la follia.
Quel che il docu-film di Calvagna ci restituisce, insomma, non è un’apologia di Fabrizio Toffolo, bensì la doverosa analisi – da una prospettiva interna – che il movimento Ultras italiano della fine del secolo scorso merita quale fenomeno ben localizzato nello spazio e nel tempo. Un’analisi fondamentale affinché le odierne autorità non scadano in paragoni impropri con il passato per giustificare misure repressive, spesso, campate in aria. Ma anche per apprezzare la sana follia di un movimento sottoculturale, di cui Toffolo e gli Irriducibili sono stati senz’altro protagonisti.