Una squadra turca che gioca in Germania.
Nella Repubblica Federale tedesca i musulmani sono circa 5 milioni su un totale di 82 milioni di abitanti. Tra loro, l’etnia turca rappresenta indiscutibilmente il gruppo predominante. In questo contesto, quella del Türkgücü München costituisce un esperimento sia sportivo che sociale di rara oculatezza politica. Fondato nel lontano 1975 sotto la spinta della comunità di immigrati turchi di Monaco di Baviera, il club è diventato negli anni emblema di “integrazione” senza però mai dimenticare le proprie orgogliose origini (ce lo ricorda anche la bandiera turca che campeggia persino nello stemma ufficiale della squadra).
Il Türkgücü München – letteralmente il “potere turco di Monaco” – per qualche anno ha rappresentato un Athletic Bilbao in miniatura, localizzato a circa 1700 km di distanza dal San Mames: fondatori turchi, giocatori turchi, tifosi turchi. Il club infatti, attualmente militante in 3.Liga, terza divisione tedesca, ha aperto solo negli ultimi anni le sue fila a professionisti provenienti da ogni angolo del mondo, iniziando così la sua scalata nel calcio regionale prima ed in quello nazionale poi, riuscendo ad ottenere risultati considerevoli.
«Se dovessimo scegliere tra un calciatore turco ed un calciatore tedesco di pari livello, non credo ci sarebbero dubbi sulla scelta. Il nostro è, e rimarrà, un club di origine turca».
Roman Plesche, 34enne direttore sportivo del club
Negli ultimi mesi, i legami tra i principali azionisti del club ed il politic bureau turco hanno scatenato non poche polemiche. Il celebre Süddeutsche Zeitung ha rilanciato la notizia che vorrebbe la società coinvolta nel traffico illegale di immigrati, garantendo il “Graue Päss” – i titolari non hanno bisogno di visto, per soggiornare nell’area Schengen fino a 90 giorni – a cittadini turchi con eccessiva leggerezza. Non si è fatta aspettare la replica dell’eclettico “primo tifoso” Hasan Kivran che ha negato ogni possibile relazione con lo scandalo, difendendo a spada tratta la missione sociale, prima che sportiva, della società.
Quando vengono enfatizzati i legami con il governo nazionalista turco, la macchina mediatica del Türkgücü si muove, in maniera capillare, sottolineando come i risultati ottenuti a livello nazionale siano arrivati proprio grazie ai volti nuovi designati a livello dirigenziale, che nulla hanno a che vedere con il Partito della Giustizia e dello Sviluppo di Erdoğan. Abbandonando l’insopportabile retorica dominante, quella da storia edificante a tutti i costi, la politica sportiva e sociale del Türkgücü sta nel far indossare maglietta e pantaloncini ad un ideale piuttosto che ad un semplice calciatore.
«Sono nato in Germania, ma sarò sempre indissolubilmente legato alla Turchia. Quella del Türkgücü per me, non sarà mai una maglia come le altre». Racconta, come da copione, Ünal Tosun, al Türkgücü dal giugno del 2018, simbolo della società dentro e fuori dal rettangolo di gioco.
La frase cult Més que un club, storicamente legata alla camiseta blaugrana del Barcellona, assume allora una dimensione decisamente più aderente alla realtà dei fatti se connessa alla giovane realtà del Türkgücü. “Preservare le tradizioni. Connettere le culture”, come recita il motto della squadra. Un esempio di incontro che si fonda però innanzitutto sulle radici: perché nell’epoca dell’omologazione, e di un’integrazione che spesso è il pretesto per rinunciare ai rispettivi caratteri nazionali, sono le differenze a fare le identità. Che poi siano turche o tedesche, che piacciano di più o di meno, poco cambia: almeno abbiamo delle culture, e con esse delle storie da raccontare.