Motori
11 Settembre 2024

L'11 settembre di Ronnie Peterson

Ronnie Peterson aveva due anime che convivevano e che in gara sapevano procedere all’unisono.

Gli occhi sognavano, la mente programmava e il corpo andava appresso a quella sintesi ideale. Ronnie Peterson aveva due anime che convivevano e che in gara sapevano procedere all’unisono. Avrebbe vinto tanto, se la sorte avesse consentito. E invece chiuse vita e carriera con pochi trionfi all’attivo. La storia di un innovatore della F1, di uno che ha fatto involontariamente scuola nel Circus. Morto di 11 settembre, parecchi anni prima dell’attacco alle Twin Towers di New York. Era il 1978, autodromo di Monza.


TALENTO SENZA SFOGGIO


Sembrava un tipo un po’ freddo, svedese come possiamo immaginarci gli svedesi, un professionista preso dai suoi pensieri ma che nei momenti che facevano la differenza, c’era.

“Ronnie era un grande, grandissimo, secondo me il migliore, anche se non ha vinto mai un mondiale”.

A celebrarne la memoria sono state anni fa le parole di Niki Lauda, non certo pilota dal complimento facile. Uno che somigliava poco a Peterson quanto a stile di guida ma che sapeva cogliere al volo le doti degli altri. Molti hanno ancora davanti agli occhi le immagini tv di quel 10 settembre 1978 all’autodromo di Monza, quando un segnale verde dato con troppo anticipo crea i presupposti del tamponamento a catena che (il giorno dopo) costerà la vita al pilota e un lungo ricovero ad altri contendenti. Sono pochi tuttavia a ricordare che proprio 50 anni fa, 8 settembre 1974, su quella stessa pista, lo svedese aveva trionfato al termine di una gara accorta e spregiudicata nello stesso tempo.

La morte di Ronnie Peterson

Del resto, quando a fine percorso si è arrivati a mettere in fila gente come i brasiliani Emerson Fittipaldi e Carlos Pace, il sudafricano Jody Shekther, il neozelandese Dennis Hulme, l’italiano Arturo Merzario e si sa approfittare di una giornata storta proprio di Niki Lauda, vuol dire che la qualità c’è. Ma Ronnie Bengt Peterson, nato il giorno di San Valentino del 1944 a Örebro, 100 chilometri da Linköping (dove fabbricano le automobili SAAB), non è tipo da vantarsi del proprio stile di guida.

Sa portare le macchine al limite, sterzata e controsterzata mantenendo alla perfezione l’assetto della vettura. Sul bagnato non perde un colpo e non ha paura di rischiare, senza essere un temerario. Eppure non parla mai di sé, la vanità non porta punti in classifica. Alle chiacchiere preferisce i fatti. Alla polemica antepone professionalità e correttezza ma soprattutto i risultati. Ma chi capisce di motori e di piloti comprende bene la differenza fra le poche parole e la poca qualità. Ronnie Peterson parte da un handicap ben preciso: non è italiano, inglese o francese. Viene da un Paese privo di tradizione nel campo delle quattro ruote. Sembra nulla, e invece significa molto. Tutto è più complicato quando l’humus non è quello giusto.


IL KART COME TRAMPOLINO DI LANCIO


Come altri delle generazioni successive (Schumacher, Senna, Prost, lo stesso Fernando Alonso) anche il giovane Peterson si fa le ossa sui kart ottenendo, già dalle prime esperienze, risultati di un certo rilievo. Negli occhi e nella mente dell’ultimo arrivato ci sono già le monoposto della Formula Uno: quelle grandi, potenti, rischiose, difficili da portare al traguardo in posizione utile. Ma alla Formula Uno si arriva per gradi. Bisogna innanzitutto costruirsi senza bruciare le tappe. Passa così dai kart alla Formula Tre sul finire degli anni ’60 e per la prima volta incrocia il proprio destino con l’Italia.

Sono quelli della Tecno i primi a notare le qualità di un pilota apparentemente essenziale, ma di grande solidità mentale e capace di emergere al momento giusto. Fin dalle prime apparizioni Peterson è a suo modo un pilota da studiare con attenzione, perché è l’assemblato di aspetti difficilmente conciliabili. Le tipologie di driver possono essere tante. C’è il tattico che osa poco, c’è l’istintivo che non calcola troppo i rischi della pista. C’è anche quello che si accontenta.



Lui è tattico ma osa, adopera l’istinto ma sa (d’istinto) quando rimetterlo nel fodero. E quando corre non si accontenta affatto. Il tutto, con un’apparente linearità che forse non ruberà l’occhio ma non tutti gli sguardi vedono la stessa cosa. Del resto il kart sa essere maestro: insegna a dominare l’istinto ma non a reprimerlo, a studiare l’avversario e a superarlo al momento opportuno, approfittando di qualsiasi défaillance dell’altro. Il giusto mix di audacia e di attendismo: ciò che serve, esattamente quando serve. E vedono parecchio oltre le apparenze, gli italiani della Tecno, perché poi quel ragazzone timido che in apparenza vive su una nuvola ma che diventa oltremodo deciso una volta in pista, fa subito centro, anzi ne fa due.

È campione del mondo nel 1968 per riconfermarsi l’anno successivo. Il punto non è se lo svedese è forte – su quello non ci sono dubbi e alla Tecno sanno che il ragazzo non rimarrà certo lì per sempre – ma se saprà gestire o meno l’upgrade richiesto dalle case e dalle macchine di categoria superiore.

Piloti di grande talento non hanno saputo fare il salto di qualità, dunque nulla è scontato. Ma Peterson ha anche qualcos’altro, un equilibrio personale in più. Sui piatti dell’ipotetica bilancia interiore, ambizione e piacere hanno lo stesso peso, anche qui questione d’assetto. Vuole vincere ma non vuole smettere di divertirsi. Non vuole snaturarsi. La follia ma fino a un certo punto; l’accortezza tattica ma fino a un certo punto. Le proprie regole interiori e il loro rispetto sono il traguardo più complicato da raggiungere. La libertà non è per tutti e va saputa gestire.


SI APRONO LE PORTE DELLA FORMULA UNO


Il 1970 è l’anno della consacrazione e degli addii. Della consacrazione, perché Ronnie è pronto per la Formula 1. Degli addii, perché la casa italiana non può più trattenere lo svedese e gli lascia spiccare il volo. Ma l’Italia, e in particolare l’autodromo di Monza, avranno un ruolo importante per la carriera del pilota, che nel frattempo ha firmato per la scuderia inglese March.

Dopo un primo anno interlocutorio, praticamente privo di risultati, sarà il 1971 l’anno della svolta. Al termine del mondiale il “ragazzo che vive su una nuvola” è secondo, alle spalle di un imprendibile Jackie Stewart. Del resto quando un campione come l’inglese arriva a vincere sei Gran Premi su undici, vuol dire che è aperta soltanto la battaglia per le piazze d’onore. Dopo un 1972 deludente, un terzo posto al GP di Germania e una nona posizione in classifica finale, l’anno successivo avverrà il passaggio a una casa più importante. Le ambizioni vogliono mezzi migliori a disposizione.


LA CONSACRAZIONE


Con la Lotus ogni traguardo sembra possibile e il 1973 sarà un anno denso di soddisfazioni ma porterà con sé anche qualche delusione. Il pilota, ormai ventinovenne, si aggiudica quattro Gran Premi: Francia, Austria, Stati Uniti e soprattutto Italia. Finisce terzo nella classifica finale alle spalle di Emerson Fittipaldi e del nuovamente iridato Jackie Stewart. È tuttavia convinzione comune l’ipotesi che senza i troppi ritiri subiti a inizio stagione la corona mondiale sarebbe finita in terra scandinava. Sembra affezionato all’Italia e in particolar modo a Monza, Ronnie Peterson. Infatti l’anno dopo bissa.

Ma l’affermazione più bella, la più difficile, quella che lo fa entrare nel cuore dei tifosi italiani (che provano per lui affetto istintivo e ammirazione anche se non guida una Ferrari) avviene  nel 1976, quando  lo svedese si afferma a Monza per la terza volta, al termine di una gara sotto un tempo da lupi, in un clima del tutto inconsueto per essere i primi di settembre in Italia. Il ferrarista Clay Regazzoni e il francese Jacques Laffite su Ligier devono accontentarsi dei gradini più bassi. La Lotus e Ronnie Peterson sembrano un binomio vincente, inossidabile, ma non sarà così. A fine stagione le strade si dividono. Forse serve una libertà che il pilota non sente di avere.


LA ROTTURA CON COLIN CHAPMAN E LA FINE


Dopo una breve parentesi alla Tyrrell, nel 1978 il campione svedese torna alla Lotus ma il patron Colin Chapman sembra avere occhi soltanto per l’altro pilota, l’italoamericano Mario Andretti. Non sarà vero, forse, ma il contratto capestro che Ronnie Peterson è costretto a firmare lo relega di fatto a seconda guida della casa inglese di Norfolk. Proprio lui, più volte vicino al titolo iridato ora ridotto a comprimario del collega-rivale. Lo svedese è professionista corretto e sta ai patti che ha consapevolmente sottoscritto ma è fatale che si guardi intorno.



Per questo motivo, Ronnie firma per la Mc Laren in vista dell’anno successivo, ma prima di cambiare casacca c’è ancora una stagione da terminare. Poi si libererà di Chapman e comincerà una nuova avventura in Formula 1. Il 10 settembre 1978 è di scena ancora una volta il Gran Premio d’Italia. Per Ronnie è la “sua” gara, Monza è la “sua” pista. Si parte, ma qualcosa non va. Un’accensione troppo anticipata del semaforo verde, il parapiglia generale. Dopo una collisione con un’altra vettura il pilota svedese si schianta contro il muretto del collegamento con la pista junior e, dopo essere stata colpita dalla Surtees di Brambilla, la Lotus prende fuoco. I soccorsi sono lenti e caotici.

Sono anni in cui la sicurezza generale non è ai livelli di oggi ma anche l’incapacità umana ha il suo peso. Sid Watkins, medico ufficiale della FIA, viene inspiegabilmente allontanato dai Carabinieri. È James Hunt il primo a raggiungere l’auto di Peterson e a tentare di liberare Peterson. L’ambulanza arriva dopo diciotto minuti. Il campione è vivo e cosciente, ma con sette fratture alla gamba sinistra e quattro alla destra. Viene trasportato all’ospedale Niguarda di Milano ed è ricoverato nel reparto di terapia intensiva. La situazione appare seria ma non critica.

E invece la mattina seguente un’embolia lipidica ne causa la morte, proprio quando sembrava che il peggio fosse passato. L’11 settembre del 1978, un mese dopo la morte di papa Paolo VI e due settimane prima di quella di Giovanni Paolo I, la notizia del giorno è la fine di un campione che aveva ancora molto da dare alla F1. In anni in cui la morte è lì, appena svoltata la curva di un autodromo, lo sconforto è generale. L’11 settembre è un giorno che ognuno ricorda per un proprio motivo: l’attacco alle Torri Gemelle di New York, il golpe in Cile, la scomparsa di un campione.


UNO STILE CHE ALTRI IMITERANNO


Peterson ha fatto scuola pur essendo difficilmente imitabile. Da lui, molti piloti riprenderanno qualcosa. Il suo stile rivive nella capacità di Michael Schumacher di stare quasi sempre con il piede sul throttle, sull’acceleratore. Nell’istintività, portata all’estremo, di Gilles Villeneuve. Nell’irruenza di Max Verstappen, un po’ meno fair rispetto allo svedese. Ronnie, quelle qualità le assommava tutte e una strana alchimia lo consegna all’eternità. Come direbbe Lucio Dalla, “Nuvolari rinasce come rinasce il ramarro, batte Varzi e Campari, Borzacchini e Fagioli, Brilliperi e Ascari”. Ma troverebbe nello svedese Ronnie Peterson un osso assai duro da rosicchiare, aggiungiamo noi.

Ti potrebbe interessare

Il carisma intramontabile di Kimi Raikkonen
Ritratti
Giacomo Cunial
17 Ottobre 2019

Il carisma intramontabile di Kimi Raikkonen

Iceman è basso profilo, amore puro per la guida di auto da corsa e passione smodata per gli alcolici.
Bernie Ecclestone, il Napoleone della Formula 1
Altri Sport
Giacomo Cunial
08 Giugno 2021

Bernie Ecclestone, il Napoleone della Formula 1

Un uomo che ha segnato un'epoca.
Niki Lauda, l’uomo dei metodi estremi
Ritratti
Nicola Ventura
21 Maggio 2024

Niki Lauda, l’uomo dei metodi estremi

Da pilota computer a uomo che vola alto.
Max Verstappen, la bellezza nel dominio
Ultra
Giacomo Cunial
02 Gennaio 2024

Max Verstappen, la bellezza nel dominio

Ritratto di un pilota purosangue, in pista e fuori.
Gilles Villeneuve, senza compromessi
Ritratti
Nicola Ventura
07 Gennaio 2017

Gilles Villeneuve, senza compromessi

Talento, amore per la velocità e purezza d'animo antica.